«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 1 - 15 Febbraio 1997

 

Una parola regale ed ingannevole
 

L'allineamento al centro continua.

L'opinione pubblica si appiattisce, anche lo

smarrimento morale è forte.

Chi si oppone non ha la verità in mano.

Ma, semplicemente, un dovere in più.

 

«II pregiudizio morale corrente tende ad essere piuttosto severo verso la menzogna a sangue freddo, mentre l'arte spesso molto sviluppata dell'auto-inganno è di solito considerata con grande tolleranza ed indulgenza».

Queste parole, pronunciate da un'autrice che non ci è particolarmente cara, Hanna Arendt (cfr. "Verità e politica", Bollati-Boringhieri, 1995) che le scrisse nel 1967, mi sono apparse come una sorta di provocatorio apripista per una serie di considerazioni su un certo modo di intendere la politica. E non solo questa, poiché la materia viva con cui oggi ci confrontiamo riguarda un assetto complessivo dell'esistenza nel sociale.

Le ragioni d'un esame di quanto possa essere racchiudibile nel fare politica si possono sintetizzare in una prassi del cuore, delle aspirazioni declamate, delle nobiltà sentimentali; e, viceversa, nell'intenderne come la traduzione strategica della politica stessa come scienza, come codice delle funzioni storico-sociali sul quale convenzionalmente ci si può con oggettività riconoscere.

È opportuno mettere in evidenza questa duplice valenza del discorso perché, diciamolo, col tempo non scompaiono quelle ombre che fanno della coscienza antagonista una voce utopica, una voce dal non-luogo: una versione da sonnambuli della storia guidati da un ignoto richiamo.

Sulla scienza della politica ci si può permettere di avanzare, in termini di puro approccio, delle serie riserve.

Osservare scientificamente le dinamiche dei sistemi costituzionali e trame dei moduli ai quali ricondursi è quanto di più difficoltoso possa compiersi. Così è per la sociologia, anche se la si applica ai temi dell'organizzazione e del consenso politico. Le difficoltà di comporre uno schema scientifico a fronte di una serie di fenomeni certo non devono impedire di costruire e di elaborare delle analisi. Ed in questo, la scienza della politica può essere utile ed evidentemente legittimata; nel fornire cioè gli strumenti per una ricognizione degli eventi e delle loro correlazioni ed operando una riflessione, a monte, sulla natura di questi strumenti, concettuali, statistici e via dicendo. D'altra parte, la storia non è certamente un laboratorio e le sequenze che ci offre sono costituite da componenti imponderabili e del tutto variabili. Troppe sono le questioni che entrano in gioco per potersi affidare ad una certezza dogmatica ed «al di sopra delle parti».

Ma forse questo appartiene ormai ad un passato positivistico e classico. Il tema che con probabilità ci sta più a cuore non sta tanto nelle possibili conclusioni a cui approdare attraverso il lavoro politologico: se anche scoprissimo, per sommi capi, che la storia ha preso una direzione non derogabile, con sue proprie leggi, con un suo modello rappresentabile (rettilineo, ciclico, a spirale) la accetteremmo? Qui ricade, ancora, il discorso della effettività delle idee, della praticabilità, del loro senso.

Dal processo di Norimberga in poi i vincitori del Secondo Conflitto hanno inteso inaugurare una nuova forma di democrazia mondiale (con tutte le incongruenze del bipolarismo dei blocchi) che ancora viene sostenuta. Chi ha letto il primo numero de "L'Espresso" di quest'anno, con l'appello di F. Colombo per una Norimberga permanente, lo ha potuto verificare. Gli stessi vincitori, saliti un gradino più in alto, mostrano il loro volto: e qui, rimanendo all'attualità, "Panorama" fa il paio con "L'Espresso", nel farci godere: «Capitalisti, non avete che da perdere le vostre catene» di L. De Biase, allineatissimo articolo sulle posizioni liberiste espresse dalla «scientifica» Heritage foundation, apparso sul secondo numero di gennaio.

Dinanzi a questa concreta -tragicamente concreta- imposizione culturale e politica proveniente da poteri enormemente forti, si è tentati sempre più a ripiegare su posizioni di dissenso radicale ed epocale: ed è cosa a mio avviso naturale. Ma c'è un'insidia, che può oscurare il campo con nubi minacciose. E quella che può inserire un impegno antagonista in un fiume di suggestioni e soggezioni vaticinanti e mistiche. Se quindi le «ragioni della Storia» debbono, in un certo senso, lasciarci indifferenti male sarebbe invece ascoltare le «ragioni dell'ideologia», i suoi richiami di un Mondo immaginario e messianico.

Il più grande nemico di ciò che è -e può essere, sanamente- la politica è il tentativo di una realizzazione di un mito senza sfondi, di un dogma metafisico per i profeti alla Davide Lazzeretti, per sempre poi perduto in quel d'Amiata. Per questo diffido dell'Utopia. Dell'immaginazione di un Tempo che verrà, che dovrà venire, che giungerà a consolare le anime dei poveri oppositori del Sistema. Non ne diffido, pur sempre piacendomi poco la parola, come il nostro luogo delle riflessioni e delle attuazioni su di noi, sulla nostra visione del mondo. Certo sarebbe da rimpiangere altra strada se quella della purezza fosse fatta di quell'orgoglio in stile tardo-almirantiano che ha imbalsamato i giusti propositi di apertura e di sensibilità che si cercavano di edificare laddove molti di noi hanno la loro provenienza.

Non è con l'élitismo retorico che si può condurre con successo, od anche con la sola credibilità, la battaglia della quale ci sentiamo gli eretici alfieri. Quel tipo d'orgoglio, quel particolare modo di sentirsi l'alternativa, ci farebbe custodi di una sorta di dizionario perduto. A quel punto ci ritroveremmo a credere a quel Deus Absconditus, a quella Provvidenza storica e politica utile e necessaria a mettere in scena il solito sogno. Politicanti da elezioni ed indovini del nulla, questo si rischierebbe d'essere.

Per questo può valer poco vincere o perdere, anche perché il perdere non è alcunché: nulla toglie, alla fine, al senso delle scelte, al piacere di cercare e disegnare un certo modo d'essere, per poi rinvenirlo in un legame sereno e chiaro tra i vari caratteri. Il paradosso vero, quello grottesco e futile, sta nell'accodarsi ad una quarta virtù teologale, infusa e sovrannaturale. Quella dell'illusione, della divinazione ingannatrice, dell'Accadimento fatale: per continuare a tentare, per continuare ad essere facitori di parole pur se in viaggio, come Fiatone, per Siracusa. Incessantemente. Inutilmente.

Roberto Platania

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