«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 1 - 15 Febbraio 1997

 

appunti di viaggio

Pesi e figurine nella simbologia africana

 

 

La mia emotività trovò riscontro nel simbolismo africano, nei messaggi che ora giungevano da tutti quegli oggetti mai visti prima, da quei suoni, da quegli odori, da quella suggestiva liturgia, che usciva dal segreto della boscaglia a confondere le ansie europee. Vorrei che questa nota servisse a spiegare il mio amore per la «négritude»:

«Al tramonto, l'artista rientra al villaggio e deposita presso il guardiano delle maschere l'opera incompiuta. Riprenderà il suo lavoro prima dell'alba e lo terminerà, patinando la nuova maschera con olii vegetali, per impedire che il legno secchi. I colori completeranno i simboli, ma sarà il villaggio intero che approverà definitivamente la riuscita dell'opera e saranno gli uomini dei ranghi superiori a portare la maschera approvata. Costoro non dovranno essere riconosciuti ed è per questo che grossi mazzi di fibre vegetali assumono la funzione di cappuccio aggiuntivo a scopo mimetico. Nel caso di grandi maschere, perché non avvenga che il notevole peso le faccia cadere dalle spalle durante la danza, all'interno si ha un'asticella da serrare fra i denti. Finita la cerimonia, la maschera viene conservata ad una certa altezza da terra per evitare il flagello delle termiti».

Alla morte dell'artista proprietario, la maschera va ai suoi discendenti diretti, sempre accumulando nel tempo poteri su poteri.

Tuttavia, il contatto con la civilizzazione ha indebolito l'arte tribale, integrando il primitivo nella vita appiattita da rapporti di tipo economico, dove la forza magica della maschera non trova più chi sappia comprenderla e dove lo stesso collezionista non è più attratto dalla dimensione estetica della maschera stessa.

Un altro elemento che presenta una complessa simbologia ad un discorso che non si soffermi soltanto sull'aspetto attuale di esso, ma ne individui la funzione, è la figurina-peso, della quale esistono numerosi tipi in bronzo e che era usata per pesare la polvere d'oro. Una di queste figurine, metà maschera, metà pesce, la troviamo sulla faccia delle monete che circolano sulla costa atlantica della Repubblica Islamica di Mauritania alle rive del lago Tchad, dalla Repubblica Nigeriana a Dakar, da Lomè a Ouagadougou, come da Cotonou ad Abidjan.

La Banque Centrale des Etats de l'Afrique de l'Ouest ha semplicemente riprodotto un peso in bronzo già usato dai Baoulé per pesare polvere d'oro. L'Union Monétaire Ouest Africaine, della quale fanno parte la Costa d'Avorio, il Dahomey, l'Alto Volta, la Mauritania, il Niger, il Sènègal e il Togo, non l'ha scelta per caso: essa emerge da un'Africa misteriosa, dalla quale, per dirla con Plinio il Vecchio, ogni giorno sorge qualcosa di nuovo. Questa scelta sta, infatti, ad indicare come il volto della nuova Africa debba emergere dal processo di interazione tra ciò che è patrimonio culturale tradizionale e ciò che rappresenta il progresso tecnologico; vuole significare che l'Africa non intende rinunciare alla propria specificità culturale.

La storia di questi pesi è ricollegabile all'importanza che i giacimenti auriferi dell'Africa hanno avuto non soltanto nella storia di questo continente, ma anche in quella della civiltà occidentale. Infatti, la ghinea, un tempo simbolo autorevole di valore aureo, deriva il suo nome dal paese dell'Africa occidentale, che fu, prima della scoperta del Nuovo Mondo, fornitore unico dell'Occidente. L'oro africano, sia in polvere sia in pepite, dominava la vita dei popoli Akan, che lo ricavavano da corsi d'acqua e da pozzi del suolo. Senza una forma definita, questo oro pre-moneta veniva pesato sopra una bilancina portatile, da tenere con un dito, una specie di galileiano «saggiatore» che faceva parte dell'equipaggiamento di ogni mercante. E le placchette bronzee assumevano le più varie forme ed i più vari significati, trascendendo il proprio ruolo di pesi in senso stretto.

Ci si potrebbe domandare perché i fondatori Ashanti e Baoulé non calibrassero direttamente l'oro locale e preferissero affidare ad un metallo meno nobile, come il bronzo, il compito di valutarlo. Per comprendere questo bisogna conoscere la cultura africana ed il posto centrale che in essa ha il simbolo. Apparirà allora chiaro come la funzione dei pesi in bronzo andasse oltre il momento della pesata.

Attraverso di essi si realizzava una forma di comunicazione, ad essi si affidava un messaggio, un insegnamento, una regola, oltre l'operazione di scambio e di negoziato.

«I pesi del re non sono quelli di tutti», dice un proverbio di quei luoghi. Essi pesavano circa un terzo più dei comuni, in quanto svolgevano una funzione fiscale, che oggi diremmo imposta diretta.

Esisteva la serie maschile, la serie femminile e c'erano quelli da inviare al debitore, eloquentissimi in fatto di scadenze, di somme dovute e persino di moralità.

Cerchiamo di risalire all'origine di questa insolita storia.

Un giorno del gennaio 1471, una caravella portoghese gettava l'ancora nelle vicinanze di Elmina sulle coste dell'attuale Ghana. Apparteneva a Fernando Gomes, onorevole cittadino di Lisbona, che aveva ricevuto il monopolio del commercio sulle coste della Guinea a condizione di esplorare ogni anno, per cinque anni, cento leghe di costa a partire dalla Sierra Leone, allora il punto estremo raggiunto da navigatori portoghesi i quali, sebbene fossero giunti nel 1445 alle foci del fiume Sènègal, non avevano conosciuto le lontane miniere sudanesi, monopolio dei mercanti dell'Africa mediterranea.

Fu dunque con grande meraviglia che gli equipaggi della caravella si videro offrire polvere d'oro dagli indigeni; indigeni, fra l'altro, particolarmente esperti nella lavorazione del metallo nobile, visto che i notabili e le loro donne erano adorni di braccialetti e collane. Il commercio dell'oro si sviluppò a tal punto che, tre anni più tardi, tutta la «Costa da Mina» (metà occidentale dell'odierno Ghana) già meritava di fatto il nome di «Costa d'Oro» che in seguito avrebbe assunto.

Il forte S. Giorgio costruito ad Elmina da re Giovanni II del Portogallo, sarebbe divenuto celebre emporio e posto di raccolta della ricchezza africana, nei secoli successivi oggetto di spietata razzia da parte olandese, inglese e danese. Tuttavia permane il mistero di questi pesi, che non sono in definitiva veri pesi, ma simboli trasformati in sistema, in discorso fatto per grafismi, il tutto con una casistica che riserva le placchette femmina alle operazioni di prestito e le placchette maschio al rimborso.

Per noi è più facile riprendere, in sede divulgativa, alcune definizioni di peso-figurina piuttosto che avventurarsi nel tentativo di spiegare i valori numerici o gli ideogrammi di cose che, secondo il detto tramandato di padre in figlio nei villaggi, nessuno può comprendere, salvo chi le possiede.

La minuscola scultura, per chi sappia interpretarla, può veramente comunicare un messaggio, come rivelano i proverbi relativi al valore simbolico degli animali e degli uomini nella loro raffigurazione statica o dinamica. Infatti, secondo i proverbi locali, il pesce significa ricchezza, felicità: «Non è scelta del pesce quella d'essere arrostito», dicono i vecchi. La colomba è considerata simbolo dell'ottimismo; il bufalo è peso del capo, in quanto simbolo di forza; il coccodrillo è simbolo della fecondità, ma anche dell'opportunismo, secondo il detto africano: «Sebbene viva nell'acqua, respira l'aria».

Altre figurine-peso-proverbio: l'elefante: «Chi segue la traccia dell'elefante non è bagnato dalla rugiada»; l'antilope: «Avessi saputo quello che accadeva dietro di me!» (per le vane corna rovesciate sul dorso); l'uccello che gira la testa: «II re vede tutto»; il gallo: «Perché fai tanto chiasso, se tua madre non è che un uovo?»; due coccodrilli incrociati: «Tutto passa per la gola di ognuno, ma abbiamo un solo ventre» (per significare la solidarietà della famiglia); uomo con carico: «Fintanto che abbiamo una testa, dobbiamo portarne il peso!»; corde allacciate: «II nodo del marinaio lo si disfa con l'astuzia»; serpente con in bocca un volatile: «II serpente non ha le ali, ma Dio gli donò gli uccelli»; uomo seduto con spada: «II grande guerriero a riposo conserva una spada che lo fa riconoscere».

Questi proverbi rinviano ad un'epoca anteriore e testimoniano l'antichità delle figurine-peso che abbiamo voluto segnalare a chi si fermò all'Africa delle maschere: un'antichità misurabile in termini di remota saggezza, un lavoro che merita il posto occupato nei musei di etnografia di Ginevra e di Berlino. Un lavoro che i fonditori chiamano «a cera perduta» e che qui in Africa, quando non è ad uso del turista sprovveduto, si serve della cera proveniente da api selvagge, indurita prima, resa molle dopo un continuo moto delle dita per ridurla in pallottole pronte al modellaggio.

Ogni colata una nuova forma; ogni forma qualcosa di irripetibile, nemico del ritocco e della serie. Sono molte le cose che può dire la statuetta bronzea che un tempo serviva a pesar l'oro: tamburo maschio, tamburo femmina, capra, porcospino, camaleonte, una testa-trofeo (nei cui occhi chiusi appare il più ancestrale degli sguardi), una donna con seni appuntiti e scacciamosche in mano, uno scorpione con le ali, tre vogatori in piroga, due giocatori di Mankala, un cavaliere con scudo e lancia, sopra un asinello da cerimonia...

 

Florio Santini

 

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«Florio Santini, lucchese, iniziò giovanissimo a scrivere per gli Italiani d'America articoli di collegamento, fino a divenire Autore più conosciuto nel mondo dell'emigrazione che nell'Italia delle Lettere. Nel 1959 fu invitato in California, per ricevere dal Sindaco di San Francisco la chiave onorifica della Città. «Ordinario di Filosofia e Storia nei Licei Classici, passò per concorso alla Cooperazione Culturale Scientifica e Tecnica presso il Ministero degli Affari Sociali.

«Dei suoi molti libri, sempre caratterizzati dal sottotitolo Mosaico, poiché composti di capitoli aventi un denominatore comune, spesso antropologico, ricordiamo solo "II cuore non bruciò", originale romanzo autobiografico, già finalista al Premio Strega 1996 (Mauro Baroni Editore, Viareggio 1995).

«Dopo aver lasciato notevoli impronte culturali e molti amici in Turchia, Libano, Senegal, Kenya, Indonesia e Nigeria, Florio Santini, intellettuale giramondo, vive ora in un antico castello del Basso Salento, dove, nonostante i suoi 74 anni, continua attivamente a scrivere, sotto lo sguardo affettuoso dei suoi enormi Terranova, come un Lord Byron felice dei nostri non felici tempi».

Con questa motivazione, più o meno modificabile dalla Giuria, per regolamento, fino al giorno della premiazione, il nostro collaboratore riceverà, con pochissimi altri scrittori italiani e stranieri, il «Premio Internazionale per la Cultura» indetto dall'antica Associazione napoletana «Sebetia-Ter», in collaborazione con otto ambasciate.

La cerimonia avrà luogo il 15 febbraio p.v. preso il Teatro di Corte del Palazzo Reale di Napoli. Il suddetto importante Premio consisterà in una medaglia d'argento ed in una pregevole pergamena di epoca murattiana. Ci complimentiamo con Florio Santini, la cui rubrica Appunti di Viaggio sta conquistando sempre nuovi lettori.

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