«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 2 - 31 Marzo 1997

 

Un ambiguo pezzo di Alemanno sulla rivista della «Destra sociale»

«Area» di rigore? «Area» di parcheggio? ...
«Area» di servizio? Forse è solo «Area» fritta
 

Qualcuno dell'ambiente di Alleanza Nazionale sembra tenere molto a farci sapere che la famosa «destra sociale» non è soltanto una brillante escogitazione culturale del nostro amico Giano Accame, bensì qualcosa di più. Anzi, molto di più. Sarebbe, cioè, una corposa corrente politica inglobante, suppergiù, un quarto dell'organico di AN capeggiato anzitutto da Francesco Storace, presidente della «Commissione Parlamentare di vigilanza sulla RAI-TV», quindi dall'ex ministro non ricordiamo bene se dei trasporti o della marina mercantile Publio Fiori e da quel Galeazzo Ciano formato tascabile che risponde al nome di Gianni Alemanno, pezzo da novanta del rautismo accorso eroicamente in soccorso del vincitore all'epoca dei calcoli finiani di Fiuggi.

Non eravamo di ciò edotti anche per la nostra repugnanza a leggere il "Secolo d'Italia", organo del partito neo-badogliano fondato nel gennaio del '95 da Gianfranco Fregoli, diretto dal noto intellettuale liberal-democratico e antifascista Gennaro Malgieri. Il Lettore dirà: cosa c'entra mai il quotidiano di via della Scrofa con qualcosa di «sociale», fosse pure la «destra»? Niente, ovviamente; siccome però perfino Malgieri si è convertito (dice lui) alla democrazia, è pensabile che abbia accettato di ospitare nelle sue pagine tesi e notizie relative a quella che, almeno virtualmente, dovrebbe essere una corrente non diremo di opposizione ma, quanto meno, di minoranza. Comunque, in assenza di una nostra disponibilità a «secolarizzarci» col foglio malgieriano caviamo informazioni relative a questa presunta «destra sociale» dal mensile "Area", i cui redattori e più o meno autorevoli collaboratori si piccano di essere i suoi teorizzatori e vessilliferi. Tale pubblicazione, a vero dire, già si presenta poco «sociale» nel prezzo, certamente non astronomico (Lire 7.000) epperò neppure congruo alle tasche di un pubblico popolare, cui non può non rivolgersi un raggruppamento politico così sfrenatamente ambizioso e così felicemente innamorato di sé stesso da permettersi il formidabile lusso di vagheggiarsi quale sostituzione nella difesa del mondo del lavoro dipendente a una sinistra, che, nel suo insieme, avrebbe smarrito ogni identità contestativa in quanto ormai omologata alle concezioni e agli interessi dei «poteri forti» (Ciampi, Dini, Maccanico, Fazio, Cuccia, Agnelli etc. etc.). Il che detto da gente che ha rinnegato tutto di sé stessa per meglio essere culo e camicia con quel potere debole targato Berlusconi -un potere afflitto da oltre seimila miliardi più tre TV e la Standa- fa davvero senso. Ma tant'è: in Italia la madre di quelli che usano congiungere il suddetto indumento con la summentovata zona del corpo è sempre incinta.

 

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Per quel che ci è dato sapere "Area" innerva la sua elaborazione teorica su due pensatori: Giano Accame, ovviamente, e il prefato Gianni Alemanno. Su molte idee di Accame ci siamo già diffusi nei due precedenti numeri e, pertanto, operiamo subito il cambio della guardia nel nostro bersaglio, prendendocela con l'apostata del rautismo del quale oppugniamo anzitutto la strampalata idea che esista oggi la questione di una «rivoluzione» da completare. In un articolo-saggio pomposamente e presuntuosamente intitolato "In nome del popolo italiano" (titolo anche di un convegno a Roma suscitatore di qualche curiosità) l'Alemanno così si esprime: «La rivoluzione italiana rimane incompiuta. Diradato il fumo sollevato dal crollo clamoroso di Tangentopoli, spenti gli entusiasmi infantili sul "nuovo che avanza" con il doppio fallimento del governo Berlusconi e di quello Prodi, ridotto a rissa generale "tutti contro tutti" lo scontro tra i poteri forti, possiamo misurare la distanza impressionante che ci separa dall'approdo all'altra riva. Siamo in mezzo al guado, nella transizione interminabile, assaliti dal dubbio che la "terra promessa" della seconda Repubblica sia un'utopia oppure una realtà più squallida della partitocrazia di Craxi e di Andreotti. Eppure, la rivoluzione italiana deve essere compiuta. Non abbiamo fatto tanti sforzi e tanti sacrifici, compresa la dolorosa e traumatica separazione dagli ideologismi novecenteschi, per sentirci dire che tutto si ridurrà alla solita operazione gattopardesca del "tutto cambi affinchè nulla cambi"».

Se, come par di capire, per «rivoluzione italiana» è da intendersi quella autentica pulcinellata del giuramento «antifascista» di Fiuggi sommata all'exploit politico-televisivo del Cavaliere Azzurro, con conseguente nascita di quell'Asse Arcore-Marino autore di un governo da operetta presieduto da uno che ignorava persino dove stesse di casa la politica, affiancato da due vice: uno nazionalista che rivendicava la Dalmazia (il Tatarella), l'altro un nemico irriducibile dell'Italia (il Maroni), il tutto condito con un monarchico che giura fedeltà alla Repubblica (il Fisichella), allora noi ben volentieri facciamo a meno di questa «rivoluzione» di princisbecco e dei relativi «rivoluzionari», specie se facenti capo all'uomo più ricco d'Italia e fra i più ricchi del mondo e un Tale entrato in partito di destra solo perché alcuni gruppettari imbecilli gli avevano impedito di vedere un film come "Berretti Verdi", quintessenza del maccartismo e dell'egemonismo americano. Intendiamoci: di per sé l'essere ricchi o anche ricchissimi non sarebbe impediente di una militanza rivoluzionaria perfino esplicata a livello di leadership, così come, del resto, essere entrati in una sala cinematografica per vedere un filmetto-filmaccio come quello che è alla radice della carriera di Gianfranco Fini. Il fatto è che Silvio Berlusconi è un reazionario e un homo aeconomicus dai pochi capelli che ha fino alle molte scarpe che usa. E il Giovin Signore di via della Scrofa è naturaliter berlusconiano, ad onta dei capricci estremistici e dei ricattucci oltranzistici che pone permanentemente in essere sia per, come usa dire, «fare immagine», «acquisire visibilità», sia per alzare il prezzo del pactum sceleris di estrema destra stretto con il number one del sedicente «Polo delle Libertà». Abbiamo già detto cosa capiterebbe all'Italia, alla classe operaia, al movimento dei lavoratori, ai ceti popolari ove il tandem Berlusconi-Fini, con connessi contorni di rottami della componente moderatista della dicci, arrivasse a prendere il potere: una dittatura di fatto dell'ala più conservatrice, economicistica, chiusa, classista della borghesia capitalista, appena velata da una sorta di liberalismo soltanto formale, il liberalismo ultraliberista, antipopolare, antisindacale, della Thatcher e di Reagan, con il dio mercato più che mai solitamente e solitariamente trionfante sugli altari di Arcore e dintorni. Del resto, la scelta del Nemico Pubblico Numero Uno dei metalmeccanici quale candidato a sindaco di Milano da parte di Berlusconi, con la complicità di tutti i sodali del «Polo», è oltremodo significativa. Altro che «poteri forti» alleati della Sinistra e di essa condizionatori, caro Alemanno, anche se -non abbiamo difficoltà alcuna ad ammetterlo- questi esistono, costituiscono un problema serio da affrontare e, rispetto ad essi, ma non soltanto ad essi, il movimento operaio, popolare, progressista deve rivedere in maniera sostanziale e tempestiva certe sue posizioni francamente errate, frenanti, rinunciatarie, a cominciare da questa folle passione per le privatizzazioni, veicolatrici di una illimitata estensione del dominio capitalistico, espressive, giustappunto, di una cultura dei «poteri forti» fra le più incisive e perigliose.

 

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Gli scrittori di "Area" e, soprattutto, coloro in favore dei quali essi intingono la penna talvolta nel miele e talaltra nel curaro, debbono mettersi in testa, una volta per tutte una cosa: è lecito, legittimo, perfino doveroso, criticare la Sinistra, anche, se del caso, con grande severità, ma sempre essendo animati in primis da serietà intellettuale e culturale, e, quindi, da spirito di confronto, di correttezza formale e sostanziale nelle analisi, nelle valutazioni, nei pronunciamenti, nelle proposte. Ove il deficit di tali virtù raggiunga il livello di guardia -ed è questo che aduggia lo scritto alemanniano- ecco scattare nel lettore, e non necessariamente nel lettore nemico o soltanto avversario, comunque nel lettore intelligente, la diffidenza, l'incomunicabilità con chi firma, lo scetticismo, la sensazione di un partito preso, il dubbio di essere oggetto di strumentalizzazione e di pilotaggio verso posizioni ambigue, precostituite, tatticistiche.

Gianni Alemanno, è da noi intuito in una situazione psicologica e ideologica tutto sommato banale, di scarso interesse, non suscitatrice di simpatie, proprio perché si colloca nella classica posizione del demagogo cui è commesso il compito di sputtanare la Sinistra usando -e con tutte le forzature necessarie alla bisogna- un linguaggio «rivoluzionario», estremizzando tutto, calcando sul «sociale», violando le regole dell'onestà intellettuale col prestare artatamente all'avversario connotazioni di comodo, distorcendo i discorsi e gli obiettivi di colui o di coloro che si intende colpire. Ma deve stare attento, perché la gente -di sinistra, di centro o di destra che sia- è meno cogliona di quanto immagina e, pertanto, rischia di sputtanarsi lui. Tanto più che il suo comportamento politico dal '94 ad oggi non è stato dei più limpidi ed esaltanti, non è stato tale da essere indicato come modello per chi intenda fare seriamente politica. E tutto potrebbe indurre a ritenere che egli abbia messo a disposizione di Fini una certa sua tradizione rivoluzionaria (come vede stavolta non usiamo il virgolettato) per coprire la linea reazionaria di Gianfranco Fininvest con un linguaggio «di sinistra».

Ma vediamo cosa e come scrive questo venticinqueluglista degli Anni Novanta: «L'alternativa non è solo tra continuismo e cambiamento radicale. Anche sul versante del cambiamento si aprono due strade opposte su cui occorre compiere una scelta lucida. Da un lato c'è la via tecnocratica, elitaria, mondialista e liberal, all'altro lato quella popolare, nazionale, comunitaria. Queste due vie non si incarnano su due poli opposti dello schieramento politico nazionale [...] ma si collocano in modo trasversale e ancora largamente inconsapevole rispetto a quasi tutti i partiti politici». E fin qui, potremmo dire, nulla quaestio. Ci sono graditissimi, infatti, i valori popolari, nazionali, comunitari, così come abbiamo in uggia e in dispetto tecnocrazia (a meno che non pretenda di sostituirsi alla politica e al popolo), élitarismo, mondialismo e quel tipico «liberal» degli insopportabilissimi salotti neo o para o cripto o proto azionisti. Quello che ci manda fuori dei gangheri è la prava intenzione dei vari Alemanno di volerli proporre, e anzi imporre, in chiave integralista, ossia come in sé sufficienti a dare tutte le risposte «sociali» possibili e immaginabili ai problemi del nostro tempo, in tal modo giocando un ruolo di sostituzione culturale alla Sinistra, giudicata poco più o poco meno di un ferrovecchio della storia. E invece ben diversa è la lezione di dio, la quale ci avverte che tutte le volte -praticamente sempre, diciamoci la verità; e l'osservazione riguarda anche il fascismo, da noi però non giudicato sic et simpliciter una «destra sociale» o di altro genere- che si è voluto utilizzare il «sociale» contro la Sinistra prima si è finiti in un vicolo cieco e poi ci si è trovati prigionieri e vittime delle forze dichiaratamente reazionarie.

Giano Accame -con la sua lucida intelligenza che non di rado ha il torto di mettere al servizio di cause sballate- deve essersi accorto che qualcosa non funziona nei meccanismi argomentativi della «destra sociale» se nel suo saggio è giunto a proporre nientepopodimeno che l'intesa con «la sinistra del PDS». Troppa grazia, Santantonio! Certissimi della buona fede del nostro Giano, ci permettiamo di fargli sommessamente notare che ciò ha il sapore della provocazione, inteso il termine nella sua accezione negativa. Allora se vuole spendere la sua influenza intellettuale in prò del «sociale» cominci col proporre a chi di dovere l'avvio di un dialogo con tutto il PDS, o, meglio, con tutta la Sinistra. Con, ovviamente, il tatto, la gradualità, il giusto tono, il savoir faire, il rispetto reclamati per delicatissime operazioni del genere.

 

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Insomma: noi riteniamo frutto di barbarie cerebrale un brano alemanniano come il seguente: «A sinistra non c'è solo lo scontro tra il conservatorismo sociale di Bertinotti e le aspirazioni liberal di D'Alema. In tutto l'Ulivo vi è una continua tensione tra queste due concezioni, tra il popolarismo dei post-democristiani e la fede monetarista di Dini e di Ciampi, tra la mistica dei metalmeccanici in corteo e la sudditanza rispetto ai profeti internazionali del liberismo, tra i problemi dell'occupazione e la dogmatica sudditanza ai parametri di Maastricht. Eppure la sinistra ha già deciso da tempo da quale parte far pendere la bilancia: sia pure mediando all'infinito con le grandi burocrazie sindacali, per loro natura conservatrici del vecchio patto sociale, e facendo i conti con i residui velleitarismi dei popolari e di Rifondazione, l'Ulivo è nato per incarnare un progetto di razionalizzazione tecnocratica della società».

Orbene, questa è la prosa di un malintenzionato e di un provocatore, il quale, peraltro, fa male il suo mestiere perché si esibisce in una ridicola confusione fra il Centro e la Sinistra, fra l'Ulivo e il PDS. Egli non vuole confrontarsi in una situazione di pari dignità con il PDS, con la Sinistra, con i suoi vari comparti, con gli alleati della medesima, con l'Ulivo, bensì fare solo delle provocazioni, delle aggressioni, in tal maniera smentendo violentemente un suo passato politicamente, civilmente, culturalmente, eticamente più che dignitoso. E va da sé che noi, pur disponibili per il pacato discutere in nome di una costruttiva «cultura delle differenze», non ci lasceremo trascinare su questo terreno. Non vogliamo avere a che fare con le immondizie del nemico. Però conviene vedere fino a che punto si spinge il Nostro con quel cinismo che ne ha fatto un finiano di stretta osservanza: «E se, come è probabile, Prodi dovesse fallire questo progetto, D'Alema è pronto a sostituire l'Ulivo con la "Cosa 2", la nuova trasformazione del PDS che, cooptando una frangia di socialisti liberali, dovrebbe dare vita ad un nuovo soggetto politico "socialdemocratico", più adeguato alle imposizioni (sic! N.d.R.) di Maastricht e del Fondo Monetario Internazionale».

Bravo! Si vede a occhio nudo che ha capito tutto. Ci punge anche vaghezza di sapere perché mai, come mai, l'on. Alemanno se la spassa in allegria in un partito, in un «polo», nel cui ambito egli sembra condividere ben poco, o addirittura niente, di ciò che vi si pensa e vi si dice. Vediamo: «Ma questo non significa affatto che il centrodestra abbia scelto con chiarezza di darsi un'identità culturale popolare e nazionale, sintetizzando i temi del popolarismo cristiano con quelli di una declinazione non elitaria dei principi liberali con i filoni nazionali e sociali della destra. Basta che risuoni il turpe epiteto di "populismo" e subito le classi dirigenti del Polo si danno alla fuga mettendosi a gareggiare con Ciampi nel rigorismo   economico, con Dahrendorf in frigidità liberista e con la Thatcher nello smantellamento dello Stato sociale». Nonostante questo disastro - ma cosa mai l'ex nazional-popolare, fascista di sinistra, nemico della parola «destra», socialmovimentista Gianni Alemanno si aspettava da personaggi come Berlusconi e Fini, a tacer d'altri?- il Nostro non ristà dall'esternare ancora sulla Sinistra con queste parole: «Eppure è evidente dietro alle invettive della sinistra si nasconde una terribile paura (sic! N.d.R.): quella di vedersi completamente spiazzata dall'attacco della destra sul terreno sociale e quindi snidata dai suoi storici insediamenti elettorali (come è già successo, ad esempio, nelle borgate romane)».

Ma che modo di ragionare è mai questo? L'Alemanno prima descrive non solo il centrodestra ma tutta Alleanza Nazionale come una tigre di carta e poi disegna una Sinistra sconvolta da una «terribile paura» per la potenza del «Polo» sia sul terreno del pensiero che su quello dell'azione.

E quest'altro Giovin Signore sarebbe il fondatore della «destra sociale» e una delle grandi speranze del Polo? C'è da far rizzare i capelli sulla testa di un calvo!

Enrico Landolfi

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