«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 2 - 31 Marzo 1997

 

L’egemonia mondiale della comunicazione
Alle radici del terrorismo
 

Dal Centennial Park di Atlanta al Mètro di Parigi, da Lima ad Algeri, bombe, sequestri, massacri fanno del terrorismo uno degli argomenti su cui oggi più seriamente si debba riflettere: questa è la faccia in ombra della mondializzazione. Occorre convincersi che, oltre la follia omicida, individuale e collettiva, vi sono cause più profonde, da individuare, da denunciare senza ipocrisie, da affrontare. L'orrore non si esorcizza solo moltiplicando e sofisticando i controlli di polizia per cercare il colpevole da mandare sulla sedia elettrica o su altre forche, né imbottendo i crani del popolo con spezzoni televisivi prefabbricati. Nel nido di serpi si intrecciano finalità diverse ed opposte: i colpi diretti al cuore della società pacifica e dormiente vengono dalla rivoluzione, dalla reazione, dal potere stesso.

L'evanescenza dell'accordo stabilito a Parigi a fine luglio '96 dagli «8 Grandi» per un miglior coordinamento dei rispettivi antiterrorismi rivela quanto varie siano le cause dei terrorismi e fino a che punto le posizioni dei governi che le riflettono siano diverse fra loro, diverse e profondamente variegate anche fra Europa e Stati Uniti, nei confronti di mezzo mondo, dall'Iraq a Cuba, dall'Iran all'Algeria, alla Bosnia. I casi accennati formano l'Alfa e l'Omega dei disagi globali.

A un estremo c'è la rivolta del mondo arabo, di cui il conflitto arabo-israeliano e la guerra del petrolio sono solo due aspetti. All'altro estremo c'è l'insofferenza di strati della popolazione americana, evidentemente non marginali come si vorrebbe, per una convivenza multirazziale voluta da interessi economici, ma non gradita nel concreto della vita quotidiana da una larga parte della società. Una volta di più l'America non fa che anticipare un problema che è di tutto l'Occidente di fronte al mondo emergente. Scopriamo ora che tutte le grandi città americane, quale più quale meno, sono assediate da ghetti e giungle nere, mentre la popolazione bianca vive in zone residenziali autosufficienti e chiuse, richiamanti l'accampamento dei coloni alla conquista del West più che un qualunque disegno urbanistico?

Scopriamo ora che la reazione all'immigrazione in Europa sta diventando una discriminante politica di prim'ordine? Questo enorme calderone di sofferenze e di impazienze può continuare a bollire sotto il coperchio delle sole regole della convivenza democratica confortate dalla fiducia nella crescita economica automaticamente prodotta dal libero mercato? Le tensioni causate nell'Occidente industrializzato dalla concorrenza dei paesi in rapido sviluppo e l'insofferenza dei paesi più arretrati sotto il giogo dei debiti che non riescono a restituire ai prestatori ricchi stanno a dimostrare che con ogni probabilità quel coperchio non è sufficiente.

È ovvio che la bomba, in positivo, non serve a niente. Il suo scopo è quello di esprimere un messaggio in assenza di una lingua. La vera matrice del terrorismo è l'incomunicabilità, la convinzione di non poter trovare nel sistema politico predominante una forma di espressione efficace quanto le bombe lanciate sulla gente ignara. Incomunicabilità che si scontra con la formidabile capacità dei poteri forti mondiali di comunicare e determinare con ben scarsa possibilità di contraddittorio l'opinione pubblica. Solo così, col comune linguaggio muto e cruento dell'esplosivo, può spiegarsi il convergere e il quasi identificarsi di terrorismi di diversissima natura. Una sola risposta può essere efficace, a medio e lungo termine: il dibattito più aperto, più approfondito, più libero possibile. Ecco perché, nel riflesso sinistro degli scoppi di qua e di là dell'Atlantico acquistano vivo interesse taluni segni di insofferenza manifestatisi di recente in seno alla cultura di sinistra nei confronti del ferreo sistema di condizionamento dell'informazione. La cultura di sinistra esercita il monopolio della verità rivelata e intoccabile della storia dell'ultimo secolo e applica con disinvoltura i teoremi della «strategia della tensione» e del «terrorismo di Stato» alla Conrad.

Eppure, bisogna dare atto a certe frange di ultra sinistra libertaria, peraltro subito marginalizzate e criminalizzate, dell'apertura intellettuale e del coraggio politico di affrontare lo scandalo di una incessante ricerca della verità: tutti gli autori del «revisionismo» provengono dalle file della sinistra o addirittura dal comunismo.

La cultura di destra, confinata nel suo ghetto, tace.

Pierre Péan nel suo recente libro "L'Extrémiste - Francois Genoud, de Hitler a Carlos (Fayard)", rintraccia la traiettoria di un «banchiere nazista svizzero, che tira le fila del terrorismo internazionale». Un personaggio semi-clandestino e non esente da affarismo che, dopo aver debuttato partecipando a manifestazioni violente in difesa di Sacco e Vanzetti, ebbe lungo tutta la sua vita, dagli anni '30 ad oggi, continui contatti con protagonisti del nazionalsocialismo, Hitler, Bormann, Himmler, ed esponenti di primo piano della lotta per la Palestina araba e per l'indipendenza algerina, dal Gran Muftì a Ben Bella e oltre. Una traiettoria di avventuriere libertario, di «visitatore di prigioni» più che di favoreggiatore, comunque molto significativa di un profondo, occultato filo di continuità tra le cause e i moventi dell'ultimo conflitto mondiale e i disagi del mondo attuale.

Pur corazzata da una prolusione di anatemi, la lunga intervista in prima persona aiuta a strappare l'involucro di ipocrisie che tiene il terrorismo attuale nella sfera delle cose incomprensibili. Qualche mese dopo la pubblicazione, nel maggio '96, Genoud si è suicidato. Di recente, la sua vicenda è tornata di attualità in seguito alle indagini che il senatore di New York D'Amato sta conducendo in Svizzera, in Svezia e in altri paesi sugli averi trafugati agli ebrei e sul «tesoro nazista».

Ma la pubblicazione che ha maggiormente scosso in profondità la cultura dominante e il sistema di dogmi sui quali si fonda l'attuale assetto politico dell'Occidente, è il libro di Roger Garaudy "Les Mythes fondateurs de la politique israélienne". Rifiutata da tutti gli editori possibili, l'opera è stata stampata come samiszdat dall'autore stesso ed è accessibile su Internet. Il potenziale, è il caso di dire esplosivo, di Internet è dimostrato da questo particolare episodio, l'aver fornito il tramite di diffusione ad un libro rifiutato dal sistema. Fra le misure concordate dagli «8 Grandi» vi è quella di porre la rete sotto controllo al fine di intercettarvi possibili messaggi del terrorismo.

Di questa bomba «revisionista» la stampa italiana ha dato distrattamente notizia solo quando l'Abbé Pierre, investito dalla canea delle polemiche per aver affermato «il diritto-dovere di esaminare e discutere», venne a rifugiarsi nella quiete dell'Abbazia di Praglia, ai piedi dei colli Euganei. In Francia, la legge Fabius, del 1990, che porta il nome del parlamentare presentatore comunista Gayssot, reprime la libertà d'espressione assimilando il giudizio di Norimberga al criterio stesso della verità storica e riesumando dalle tenebre del medio evo il delitto d'opinione.

Detta legge recita: «Saranno puniti [...] coloro che contesteranno [...] l'esistenza di uno o più delitti contro l'umanità quali essi sono definiti all'Art. 6 dello Statuto del Tribunale militare internazionale annesso all'accordo di Londra dell'8 agosto 1945».

Come in altre occasioni, gli anglosassoni si dimostrano più rispettosi dei liberi convincimenti. Nell'agosto del '92 la Corte Suprema del Canada ha respinto l'accusa contro l'editore tedesco-canadese Ernst Zundel di aver «diffuso false notizie» per aver pubblicato un opuscolo nel quale si pone in discussione l'olocausto. In appello, il Tribunale ha confermato che la ricerca della verità storica non va confusa con l'antisemitismo e che le affermazioni di Zundel «non costituiscono offesa alla Hate law del Codice penale». Da noi non esiste una legge bavaglio come la scandalosa legge francese e ciò va ad onore della patria del diritto.

Garaudy, un ex comunista autore di numerose e significative opere nel filone marxista, pone in premessa la condanna senza attenuanti dei crimini tedeschi, la cui gravità a suo avviso non ha bisogno di essere esagerata. Però contesta, e non è il solo, le basi giuridiche del processo di Norimberga. Il Procuratore generale degli Stati Uniti, Robert H. Jackson, nel presiedere la seduta del 26 luglio 1946 dichiara: «Gli Alleati si trovano ancora tecnicamente in stato di guerra con la Germania [...] In quanto Tribunale militare, questo Tribunale rappresenta una continuazione degli sforzi di guerra delle nazioni alleate». Gli Artt. 19 e 21 dello Statuto del Tribunale stabiliscono «che esso non è tenuto al rispetto delle regole tecniche relative all'amministrazione delle prove [...] Che esso non esigerà che sia fornita la prova dei fatti di notorietà pubblica, ma li terrà per acquisiti». Come ogni giudice, Garaudy è convinto che non si possa prescindere dalla definizione dell'intento che ha mosso il crimine. Lo sterminio è esistito in quanto fu il risultato delle deportazioni, delle detenzioni nei campi di concentramento, del lavoro forzato, delle malattie infettive come il tifo petecchiale, della fame. In sintesi, del barbaro trattamento inflitto ai prigionieri da un popolo affamato e condannato alla resa senza condizioni. Il che non diminuisce la gravita di questi delitti, ma ne definisce la genesi. Non esiste alcun documento ufficiale nazista che ordini e predisponga la morte di gruppi o masse di persone con installazioni idonee.

In un colloquio alla Sorbona contro i «revisionisti» nell'82, l'intellettuale ebreo Raymond Aaron dichiarò: «Malgrado le ricerche più erudite, non si è mai potuto trovare un ordine di Hitler di sterminare gli ebrei». Garaudy riferisce che negli anni '30 vi furono accordi fra il governo nazionalsocialista e gruppi sionisti per finanziare l'introduzione in Palestina di gruppi di ebrei tedeschi selezionati come classe dirigente del costituendo stato. Nella prima fase vittoriosa della guerra, dopo la caduta della Francia e l'occupazione di quasi tutta l'Europa, la Germania nazista concepì il progetto di un trasferimento nel Madagascar. Dopo la perdita del controllo dei mari non le restò che la deportazione verso l'oriente europeo. Ma al processo vi fu un sistematico contorcimento e aggravamento delle parole attribuibili agli imputati, col recepimento di altre di significato contiguo, eppure radicalmente diverso.

L'espressione Gesammtlosung, soluzione generale, fu accantonata e in suo luogo adottata Endlosung, soluzione finale. Le espressioni Ausschaltung, esclusione, e Ausrottung, estirpazione, vennero sostituite con Vernichtung, annientamento. Fu così che il progetto di deportazione e allontanamento si identificò in un progetto di sterminio. Nella fase finale e più incandescente della guerra vi fu un infuriare di incitazioni alla ferocia, da ambedue le parti.

Altro postulato della procedura è l'accertamento dell'esistenza dell'arma del delitto. Su questo punto Garaudy fa proprio il risultato degli studi di altri «revisionisti» che lo hanno preceduto, in particolare Faurisson, circa l'inagibilità del gas Ziklon B, usato come disinfestante, il non ritrovamento di «camere a gas» quali furono ricostruite dopo la guerra ad uso turistico-didattico, la sistematica confusione fra camera a gas e forno crematorio, installazione questa indispensabile in ogni grande concentrazione. L'Abbé Pierre disse giustamente che il crimine esiste anche se consiste nell'uccisione di un solo innocente, ebreo o non ebreo. Tuttavia, non è privo di importanza il fatto che nell'iscrizione posta a Birkenau-Auschwitz sia stato ridotto il numero delle vittime da 4milioni a 1 milione. Ma per l'informazione delle masse resta indiscutibile il numero di 6milioni. Garaudy denuncia il «potere mediatico della lobby sionista [...] sulla maggioranza dei decisori politici dei media, alla televisione e alla radio, nella stampa quotidiana e periodica; il cinema, soprattutto dopo l'invasione di Hollywood, e anche l'editoria (attraverso i comitati dì lettura ai cui componenti possono essere imposti veti) sono nelle sue mani, così come la pubblicità, che è il sostegno finanziario dei media».

In conclusione, non è in questione l'orrore né la misura dell'orrore per i crimini commessi durante l'ultimo grande conflitto dagli uni e dagli altri, da Auschwitz a Dresda, a Katyn, a Hiroshima. È in gioco «il diritto-dovere di esaminare e discutere» senza incorrere per questo nel rigore della legge. Garaudy vede nel «mito del genocidio» una gigantesca operazione di copertura dei delitti del vecchio colonialismo, inglese, francese, americano contro i pellerossa, e del nuovo colonialismo che strappa la terra, non deserto, ma terra coltivata, alla popolazione palestinese, per far posto ai coloni israeliani. E un'opinione, che vale non tanto per il suo specifico oggetto quanto perché attira l'attenzione sulla possibilità concreta che uno schermo impenetrabile possa nascondere le sofferenze del mondo, nelle quali affondano le loro radici tutti i terrorismi.

Cesare Pettinato

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