«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 2 - 31 Marzo 1997

 

appunti di viaggio

Hong Kong, la prima volta
 

Tutto quello che avevo potuto immaginare a proposito della fascinosa Hong Kong (si scrive senza lineetta) era geograficamente approssimato, in quanto derivava dalla distratta visione, per motivi professionali, di alcuni documenti, più o meno politicizzati, sull'Estremo Oriente, nonché dalla realistica cronaca d'un misero agglomerato urbano, descritto nel film giapponese "Dodes' Ka-Den" (La periferia) di Akira Kurosawa. A Hong Kong, invece vedevo bambini pulitissimi, pettinati, in calze bianche e scarpe da prima comunione; vedevo anglosassoni in cravatta sotto il sole bruciante e negozi dove si compra fuori dogana quanto di più perfezionato esiste nei sogni impossibili d'un tecnico europeo o d'una signora Vip: cioè, dall'apparecchio a pila per lavare i dischi alle perle più che nere... A Hong Kong vedevo nugoli di ragazzi e ragazze sorridenti, enormi pubblicità in inglese e in cinese, nonché alberghi, per esempio, con tutto il ventiduesimo piano adibito a ristorante, il quale di sera, per mostrar la baia ai commensali seduti comodi, gira su sé stesso. Una baia, tipo Rio de Janeiro, in lotta con San Francisco per il secondo posto nel mondo.

E le strade del centro? I mozziconi di sigaretta son gettati con cura in appositi contenitori; i manifesti di festivals d'arte e di musica sono più numerosi di quelli cinematografici in una qualunque città italiana.

Leggevo, allibito, il nome di Giacomo Puccini, programmato lungo tutto quel 1976. Ammiravo la disciplinata marea di folla che, composta e serena, saliva sul traghetto (prima e seconda classe, ambedue ripulite ad ogni viaggio, quindi ogni mezz'ora) per passare dall'isola a Kowloon e viceversa. La stessa razionalità con cui un leggero sampan passava deliberatamente a pochi centimetri da una grossa giunca, la ritrovavo in terraferma, nei cibi cucinati sulla strada ed esposti come fiori. Vedevo ubriacanti gallerie, dove i gioielli sembravano legumi: giade, rubini, pietre rare, vasi, statuette, avorio, legni preziosi, ori. Ma era la gentilezza di tutti, proprio tutti, quello che più stupiva e mi faceva bene.

Ammiravo, insomma, una grande città orientale dove la densità della popolazione non ha prodotto nevrosi, perché l'antica filosofia ha vinto il progresso, gelosa della sua virtù principale: l'equilibrio.

E fu per me, stanco del cosiddetto Terzo Mondo, che chiede e non da, un salutare bagno di concentrazione e di misura, una specie di massaggio psichico decisamente diverso da quanto morbosi «inviati» lasciano attendere (e sperare) non appena si ipotizzi, in chiave di misteri erotici orientali. Per giunta, avevo lasciato alle mie spalle un'Africa priva di grazia, dove l'arte è dura, scorbutica, colorata, ma senza luce solare; impastata di sabbia, difficile da capire; tragica nel suo segreto ancestrale, più ossessiva che bella.

Ora, i miei occhi passavano con gusto dalla perfezione d'un ricamo a quella d'un mobile laccato, da incredibili giardini cinesi al vecchio tram inglese, dai quadri dipinti in punta di pennello orizzontale sopra uno sfondo eternamente bianco, ai venditori di gelati, lindi come farmacisti, ai vecchi segaligni, che corrono tirando ancora verniciatissime carrozzelle a due ruote.

L'unico punto di contatto tra il Senegal che avevo lasciato e quella fetta estrema d'Oriente poteva essere qualche impronta portoghese, a Macao come a Gorée.

Per tutto il resto, gesti e idee eran diversi e, con essi, la gente che incontravo: un sarto turco, per esempio, venuto per la magnifica seta grezza di Mao oppure (sic!) il poliglotta chef concierge del più lussuoso albergo internazionale di Hong Kong: un oriundo lucchese, silurato dal turismo svizzero.

Era un piacere, per me, vederlo lavorare con poliedrica disponibilità, senza problemi di lingua, perfettamente all'altezza della classe con la quale la bionda rappresentante dell'agenzia francese ed il suo numero due locale mi avevano depositato, proprio davanti a lui, nell'immensa hall. Tutti e tre lavoravano sodo, ad onta d'un clima che, dalle nostre parti, avrebbe giustificato la fiacca d'un medico di turno, scosso d'urgenza in piena siesta estiva...

 

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Vedevo gente giocare a ping pong con la stessa velocità con cui, disdegnando le calcolatrici elettroniche esposte a quintali nelle vetrine del progresso che qui non paga tasse (porto franco), faceva i conti su certe specie di magici pallottolieri. Senza parlare delle donne, che guidano rappezzate imbarcazioni con la destrezza dei pescatori antichi; senza parlare delle porcellane, degli strumenti musicali, della maniera di disporre una tavola; senza parlare di certe complicate acconciature delle interpreti dell'Opera Cantonese.

Mi convincevo, di quanto fosse utile viaggiare nei Paesi a proposito dei quali molto si è letto. La verifica empirica sarà sempre contraria al presunto sapere e sconfesserà sempre il gratuito luogo comune.

Inoltre, sebbene oramai rotto ai rischi ecologici dei cosiddetti operatori culturali, che niente hanno a che fare con gli uomini di cultura, poiché vedono, toccano, sentono, direttamente e in situazione, quell'incontro con un paesano in capo al mondo era stato quasi commovente.

Parlava un lucchese arcaico, rivisto e corretto presso i corsi serali delle «Dante Alighieri» incontrate nel suo pellegrinare, ma con un accento assai meno ridicolo e improbabile di quello col quale lo sceriffo John Wayne masticava intimazioni in cinese moderno dal televisore a sei canali (tre a colori e tre in bianco e nero) nelle circa 400 camere del suddetto albergo.

 

 

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Intanto, mentre la città ricca cominciava a divertirsi, le ultime giunche da carico, senza che nessun pilota mostrasse di temere il traffico, cominciavano a trasportare in terra capitalista, con tariffe ben precise, distinte per grado, sesso ed estrazione, intere famiglie che avevano scelto di passare al fortunato «nemico-dirimpettaio»...

E pagavano bene; perché ogni ragazzine abbia la maglietta diversa dagli altri, perché ogni ragazzina abbia la collana diversa dalle altre; ogni madre «la sua» veste, ogni padre un abito civile, non più grigio e impersonale. Una cosa sola non apprezzavano nella nuova situazione: le bacchette, oggi in plastica, per mangiare i cibi dolci degli avi. Forse, soffrivano di nostalgia del bambù, a noi sconosciuta.

 

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«Ma ogni progresso ha i suoi svantaggi –pensavo-; siamo tutti un po' meticci. Dunque, l'uomo intelligente non sarà mai uno sradicato».

Come quel lucchese, in marsina da portiere di prima categoria, oppure come quei mongoli, che, per il solo fatto di far parte della polizia di Hong Kong, in calze rimboccate, stivaletti e pantaloni corti all'inglese, camminano di proposito con i piedi all'infuori, anziché asiaticamente all'indietro.

Tutto sommato, erano gendarmi dall'aria efficiente, educata, consapevole e felice: vetrine straripanti di valori e mai un semplice, volgare scippo, infatti. Ciò, per la verità, non sono proprio riuscito a capirlo; forse in Asia, la gente è ricca di dentro!

Florio Santini

 

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N.d.A. - Oltre quelle fatte di versi, anche quelle fatte di parole piatte, possono essere considerate poesie vere; purché la «fotografia» corrisponda ad uno stato d'animo autentico. Per esempio, questo servizio che riproduco da un povero libro perduto -lo giuro, perché tutti li donai- segnò l'inizio d'una mia seconda e diversa vita: quella che sto saggiamente portando a termine, con il prezioso aiuto di «Piccola Nuvola» alias «Siou-Wan», mia moglie, non per caso vietnamita e buddista... Inoltre, un capitolo che porti in calce la nota dell'autore fornisce ulteriori complicità emozionali a quanti ancora considerano gli appunti di viaggio un punto di reciproco incontro, quello di chi scrive e quello di chi legge, senza più frontiere esose.

F.S.

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