«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 3 - 31 Maggio 1997

 

Un saggio edito a Palermo dalla "Sellerio"

Pino Grammatico:
a sinistra con la ragione, con la regione, con la nazione

 

 

Abbiamo reiteratamente espresso la seguente convinzione: nel più di mezzo secolo che ci separa dalla dissoluzione del regime fascista coloro che -legittimamente o meno, a torto o a ragione- si sono a vario titolo presentati sulla scena politica in veste di oggettivi destinatari del legato mussoliniano hanno commesso un grave, evitabile errore pregno di conseguenze negative. Essi, cioè, ritennero, fin dall'avvio stentato della vita del Movimento Sociale Italiano, di dovere puntare decisamente ad occupare il settore di destra dello schieramento partitico, magari dopo avere inneggiato per un po' di tempo alla Repubblica Sociale Italiana, alla socializzazione, allo Stato Nazionale del Lavoro. Nel gruppo dirigente che fra la fine degli Anni Quaranta e la prima fase degli Anni Cinquanta faceva il bello e il cattivo tempo nei locali romani di Corso Vittorio Emanuele 24 non mancavano, di certo personaggi vecchi e nuovi convinti della desiderabilità di un rapporto costruttivo e perfino collaborativo con la Sinistra, ma altrettanto persuasi della impossibilità di ottenerlo stante la sua «intrattabilità» antifascista. Senza minimamente sottovalutare i problemi insorgenti dal modo di essere della Sinistra italiana e, men che meno, dagli strascichi drammativi della guerra civile, riteniamo che essi siano stati attentamente enfatizzati, di proposito utilizzati, coscientemente strumentalizzati da quegli elementi dell'establishment missino interessati, per personale vocazione e formazione culturale, a dare uno sbocco conservatore all'esperienza fascista mettendo gradualmente ma caparbiamente fra parentesi l'esperienza della RSI e il crepuscolo libertario e socializzatore di Mussolini ultimo.

Da quanto detto il Lettore avrà certo compreso che il nostro j'accuse non coinvolge tutti indistintamente i fondatori della Fiamma tricolore, ma soltanto i più astuti e ambigui fra di essi, decisi ad attaccare l'asino nostalgico dove voleva il padrone confindustriale. Non è mai elegante fare nomi (anche perché, ormai, tanti di essi sono passati, come usa dire, a miglior vita) e non ne faremo, anche se coloro che ci fanno l'onore di soffermarsi sulle nostre povere prose ben sanno che spesso e soprattutto volentieri ne facciamo, ossia siamo inelegantissimi. Ma stavolta non ci sembra proprio il caso. Del resto, chi non è digiuno di rammemorazioni storiche e politiche inerenti al fenomeno missino ben sa a chi si indirizza il nostro riferimento. Non certo a uomini quali il Mieville (troppo prematuramente scomparso in un incidente automobilistico), il Clavenzani, il Landi, il Brocchi, il Niccolai, lo Spampanato, tutti ormai nel sepolcro insieme a tanti e tanti altri il cui nome ora ci sfugge. Ma non tutti sono già finiti nel traghetto di Caronte, per grazia di Dio. Infatti, intellettuali come il Sargenti, il Laghi, il Daquanno junior (Ezio), il Franzolin, il direttore di questa rivista Antonio Carli, sono ancora e sempre fra di noi. A tacer d'altri, ovviamente.

 

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Pur evitando di lanciarci in un excursus storico che aprirebbe naturaliter un discorso dalle immani proporzioni fatalmente destinato a tracimare i limiti di uno scritto da mensile di idee, piace a noi segnalare alcuni casi in cui ebbe ad appalesarsi la positività di certe convergenze -magari anche oggettive, ovverosia non contrattate, ma comunque reali- fra missini e la sinistra considerata nel suo insieme.

Convergenze risultate concretamente efficaci e vantaggiose sia per la Nazione che per i «carissimi nemici» cooperanti ad un comune fine, sia pure al di fuori e al di là di stipulazioni pattizie e in vista di traguardi circoscritti assolutamente avulsi da ogni ipotesi di alleanza politica generale, organica, permanente. Peraltro, questi rigidi confini non poterono essere superati a cagione della insistita, strutturale, viscerale pregiudiziale frombolata non soltanto contro il PCI ma vissuta anche in chiave antisocialista e proclamata pure contro le varie sinistre cattoliche e democristiane.

Quanto lontani i tempi in cui il dottor Olo Nunzi, già capo della segreteria politica del Partito Fascista Repubblicano, nei dibattiti promossi dal Movimento Italiano Femminile, trattando dei comportamenti da sollecitare ai sei parlamentari del MSI eletti nel '48 diceva, forse con qualche forzatura schematica tuttavia non priva di una sua verità di fondo: «È semplice: per quel che attiene alle questioni nazionali debbono votare con la destra; per ciò che concerne le questioni sociali debbono votare insieme alla sinistra».

La prima di dette convergenze ebbe luogo nell'immediatissimo dopoguerra, quando quello che possiamo definire con espressione sociologicamente restrittiva ma ideologicamente caratterizzata, «il popolo della RSI» era, per così dire, allo stato brado. Coloro che in un certo qual modo, in certa qual misura, lo rappresentavano -per esempio: Pino Romualdi, il colonnello Jean Pollini- raggiunsero un accordo con esponenti autorevolissimi della sinistra: voto per la soluzione repubblicana al referendum istituzionale del '46 in cambio della amnistia. E l'amnistia ci fu.

Proseguiamo. Elezioni politiche del '53: MSI e sinistre non integrate in un asfittico centrismo prevaricatore e di supina acquiescenza ali egemonia statunitense, sono in lotta contro la legge truffa e la legge Scelba, ambedue ideate per colpire le ali cosiddette «estreme». L'alleanza è un dato oggettivo che serve per sconfiggere il blocco centrista, con relativa, consistente lievitazione della presenza parlamentare delle due opposizioni.

Ancora. Elezione del Presidente della Repubblica nell'anno di grazia 1955. Si fronteggiano Cesare Merzagora (se non ricordiamo male Presidente del Senato) candidato del segretario democristiano Amintore Fanfani nonché vessillifero di una sorta di «centrismo riformato» e Giovanni Gronchi (Presidente della Camera dei deputati) candidato del MSI, delle sinistre non integrate nel centrismo (PCI, PSI, Unità Popolare), della cosiddetta «concentrazione», cioè di un vasto raggruppamento interno alla DC comprendente non solo le correnti di sinistra dello Scudo crociato ma anche gruppi democristiani che giudicavano superata la esperienza centrista. Giovanni Gronchi era, a suo modo, quel che potremmo definire un «uomo di sintesi»: già leader del sindacalismo bianco e autorevole popolare nel pre-fascismo, era il leader di una delle sinistre della DC, quella che si raccoglieva intorno alla rivista "Politica Sociale". Da ciò il carattere progressista della sua candidatura, cui si univa una connotazione fortemente «nazionale» sia perché non era annoverabile fra i sabotatori della seconda pur essendo inconfutabilmente antifascista, sia perché non aveva nascosto le sue perplessità in ordine alla adesione al Patto Atlantico con annessi e connessi sottintesi e soprintesi egemonici USA. Di più: manifestava apertamente -anche mediante un quotidiano da lui ispirato, "La Libertà d'Italia", diretta da Luigi Somma, cui collaboravano unitamente a socialdemocratici di sinistra e a socialisti autonomisti anche firme «erresseiste» quali, ad esempio, quelle di Alberto Giovannini (titolare, fra l'altro, di una rubrica che firmava "Mostarde"), di Luigi Fontanelli (già direttore de "Il Lavoro Fascista" e teorico di un corporativismo rivoluzionario) e di altri i cui nomi ci sfuggono- lancinanti sofferenze e insofferenze per le continue, irrefrenabili e irrefrenate ingerenze statunitensi nella vita non soltanto politica italiana, che giungevano fino al punto di porre veti insuperabili su uomini di governo e formule parlamentari. La Signora Giara Boothe Luce, ambasciatrice della Repubblica Stellata, dettava legge, faceva il bello e il cattivo tempo da Palazzo Taverna, decisa a non far muovere foglia che lei -appartenente all'ala più reazionaria del partito repubblicano- non volesse. Ed era la più fiera oppugnatrice dell'ascesa di Gronchi al Quirinale, venne sconfitta, insieme a tutti i centristi e al «partito americano», dall'azione congiunta del MSI (non ancora DN) e dalle sinistre non integrate nel blocco moderato gestito da Washington. Il MSI, all'epoca, godette di grande prestigio come difensore della sovranità nazionale sorretta dall'aspirazione alla giustizia sociale. Inoltre. La salma di Benito Mussolini potè, dopo tante avventure e vicissitudini, essere restituita alla pace del naturale, non clandestino sepolcro di Predappio, grazie anche ad una astensione del gruppo parlamentare della Fiamma ad un governo, quello dell'on. Adone Zoli (forlivese, non dimentichiamolo), visto con qualche simpatia dalle sinistre -quanto meno dai socialisti- in quanto preludente alla definitiva cancellazione del centrismo di marca vetero-scelbiana dalla vicenda politica del Paese.

 

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Ma il caso più clamoroso, significante, positivo del raccordo MSI (ripetiamo: non ancora DN) è da individuare nella famosa -non accettiamo la definizione famigerata usata da coloro che la contestarono sia da destra che da sinistra- «operazione Milazzo» in Sicilia. Massimi protagonisti della medesima: l'on. Emanuele Macaluso, segretario regionale del PCI; l'on. Dino Grammatico, presidente del gruppo missino nell'Assemblea Regionale Siciliana; l'on. Salvatore Corallo, segretario regionale del PSI, in dissenso con l'orientamento della maggioranza autonomista della Direzione Nazionale socialista. Accanto a costoro, in una posizione più laterizzata, i monarchici, rappresentati principalmente dall'on. Majorana della Nicchiara. Su questa ormai remotissima vicenda -il tutto risale al 1958- siamo in grado di intrattenerci avendo la Editrice Selleria di Palermo, più che mai benemerita della cultura italiana, dato alle stampe un ottimo saggio del Grammatico recante il titolo "La rivolta siciliana del 1958. Il primo governo Milazzo". Il testo si apre con una «Nota dell'Autore», redatta per spiegare in poche righe il motivo che lo ha spinto ad impugnare la penna in difesa non, si badi, di tutto l'arco dell'esperienza milazziana, bensì soltanto del primo dei tre governi guidati dall'on. Silvio Milazzo. Infatti, a giudizio di Dino Grammatico, solo esso, avendo meritato il consenso missino, potrebbe aspirare all'approvazione delle persone bennate. Diremo poi perché non ce la sentiamo di condividere codesta asseverazione dell'autore.

Il quale così si esprime in un passo della sua Nota: «Procedendo però nella consultazione dei documenti e nella rivisitazione di quegli eventi anche alla luce dei ricordi personali, ho ritenuto che il recupero di alcuni dati reali trascurati e uno svolgimento più ragionato avrebbero potuto contribuire alla revisione in senso positivo del giudizio del Milazzismo, finora espresso quasi sempre in termini negativi e a volte anche dispregiativi. Ho ritenuto altresì che lungo una tale linea non solo avrebbero potuto apparire nella loro validità i risultati del primo governo in cui l'Operazione a mio avviso si configurava, ma anche emergere le caratteristiche dell'effettiva natura dell'Operazione e cioè quella di rivolta politica».

Immaginiamo che il Lettore -specialmente quello più giovane, magari all'epoca non ancora nato o ancora ai vagiti nella culla oppure procedente con le dande- voglia saperne, e sia pure per accenni, qualcosa di più. Ed ecco, allora, un brano della rapida, succosa introduzione che apre l'agile volumetto -136 pagine, ma dense di contenuti-, siglata sempre dal Grammatico, che espone le linee fondamentali di quella storia che mise in subbuglio non solo l'Isola, ma l'Italia tutta, e perfino l'Europa occidentale e gli Stati Uniti, più che mai paventatori del cosiddetto «pericolo comunista» e spaventatori con la psicosi del medesimo.

Vediamo: «31 ottobre 1958. Silvio Milazzo, deputato DC all'Assemblea regionale siciliana fin dal 1947, da otto giorni eletto Presidente della Regione in contrapposizione al candidato ufficiale del suo stesso gruppo, Barbaro Lo Giudice, costituisce una giunta con una maggioranza formata da comunisti, socialisti, missini, monarchici e democristiani dissidenti.

«È un avvenimento politico clamoroso. Le alleanze tradizionali fra i partiti risultano rotte. La DC siciliana, espressione di un potere inamovibile, è per la prima volta nella sua storia relegata all'opposizione. Comunisti e missini -anzi «fascisti» evidenziano i giornali- sono assieme. Assessori regionali socialisti siedono allo stesso tavolo di governo a diretto contatto con assessori regionali missini e con esponenti della destra monarchica. C'è anche un assessore indipendente di sinistra eletto nelle liste comuniste (Paolo D'Antoni). E fuori, tra la gente dell'Isola, euforia per una Sicilia che esalta l'autonomismo, che si ribella al centralismo romano, all'egemonismo partitocratico fanfaniano, alla colonizzazione e alla rapina della grande industria del Nord. L'evento prenderà il nome di "Operazione Milazzo". Durata: 16 mesi, tre governi».

 

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Ora però la parola spetta al prefatore, il prof. Grazio Cancila, che ne inizia la dettatura con le seguenti espressioni: «II titolo ("La rivolta siciliana del 1958") dice tutto. Come già per il PCI e la storiografia di orientamento marxista, anche per il MSI I'"Operazione Milazzo" ebbe il senso di una rivolta della Sicilia contro Roma, in difesa della sua autonomia minacciata. Essa infatti per Dino Grammatico -che partecipò direttamente a quegli avvenimenti e ne fu uno dei principali protagonisti per conto del MSI- fu un fatto siciliano, un fatto di grande sommovimento autonomistico, un fatto di grande ribellione popolare. Una rivolta. L'Operazione è la Sicilia che, compressa, tradita, rapinata nelle sue risorse, esplode nel nome di uno dei suoi figli migliori: Silvio Milazzo».

E consenta anche a noi il Cancila un veloce inserto, stavolta di marca comunista, nel cuore della sua prefazione. Ciò è necessario perché il già mentovato Macaluso espone in modo tale da pressoché miracolisticamente consuonare con le esternazioni grammatichiane. Sulla qual cosa è, come dire?, simpaticamente opportuno richiamare l'attenzione di chi ci segue. Ecco: «L'Operazione era il frutto del faticoso aggregarsi di un ampio schieramento autonomista ad ampia base sociale, che voleva isolare i monopoli, gli agrari, il centralismo fanfaniano e dare all'autonomia il senso della sua ispirazione fondamentale, cioè farne strumento di rinascita e di libertà del popolo siciliano».

Dove non conta tanto il linguaggio, sicuramente più «anticapitalista» di Dino Grammatico -impostogli, del resto, più dal tipo di partito nel quale era collocato che da una sua vocazione moderata-, quanto il riconoscimento da parte di un esponente autorevolissimo della sinistra e che a nome della sinistra tutta parlava, ivi compreso il PSI ufficialmente e legittimamente rappresentato da Salvatore Corallo, che il Movimento Sociale Italiano poteva essere idoneo, volendo, a partecipare ad una impresa di netta rettifica in senso anti-conservatore e anti-monopolista e anti-agrario della situazione politica e sociale siciliana. Avrà pensato, il Macaluso, che le radici della possibilità di un tale coinvolgimento non potevano che affondare in una tradizione nella quale si inscriveva quella RSI contraddistinta dalla socializzazione, dallo Stato Nazionale del Lavoro, dalla Confederazione Sindacale Unica della Tecnica e delle Arti redenta dalla ambigua commistione organizzativa con le strutture datoriali? Forse, anzi probabilmente; altrimenti non si sarebbe neppure sognato di ipotizzare una alleanza con un partito non ancora del tutto dichiaratamente di destra.

Ma torniamo allo scritto del Cancila, che intelligentemente coglie uno dei più significanti dati della intesa fra MSI e sinistra germinati sul terreno di una comune ancorché differenziata autocritica: «Strano destino quello di comunisti e missini, un tempo tenaci e convinti avversari dell'autonomia siciliana -che per i primi "non nascondeva altro che chicche reazionarie, le quali svolgevano le loro azioni ai fini di esclusivi interessi reazionari (Montalbano) e per i secondi costituiva un vero e proprio attentato all'unità nazionale- e ormai trasformati nei più fieri paladini del sicilianismo e dell'autonomia!».

Su di un altro piano viene in evidenza il coincidere delle analisi su aspetti basilari del Milazzismo di Grammatico e di Macaluso. Scrive sempre Grazio Cancila: «Un capitolo di "La Rivolta …" è poi dedicato ai rapporti con la mafia. Grammatico esclude -come già avevano fatto in precedenza i comunisti e in particolare l'on. Macaluso, per il quale la mafia rimase con il potere statale, che era allora contro il governo Milazzo- la presenza di frange mafiose nello schieramento milazziano e contesta vivacemente la versione dell'Hamel, per il quale gli schiaffi del boss Pontade all'on. Pivetti (niente a che vedere, ovviamente, con la ex-presidente della Camera dei Deputati. N.d.R.) furono motivati dalla volontà del parlamentare monarchico di sganciarsi dalla coalizione milazziana. Grammatico ipotizza invece che alla base degli schiaffi ci fosse il rifiuto di Pivetti di accogliere l'invito della DC ad abbandonare Milazzo». Da rilevare che l'on. Pivetti ebbe a schierarsi sino alla fine con Silvio Milazzo, anche se con attitudine costruttivamente critica. Il che porta acqua al mulino argomentativo di Grammatico. Il prefatore cita poi le iniziative grammatichiane oppugnative del dominio mafioso: «Tra i provvedimenti del primo governo Milazzo volti a eliminare l'influenza della mafia, Grammatico può ricordare orgogliosamente la nomina di una Commissione d'inchiesta dell'ERAS -la cui presidenza fu affidata a un alto magistrato a riposo-, lo scioglimento di numerosi consigli di amministrazione di consorzi di bonifica, l'annullamento della elezione di Ignazio Salvo a presidente del consorzio di Birgi».

 

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Veniamo ai contenuti dell'azione di governo, sui quali Grammatico si esprime con notevole vivacità annotativa pur senza petulanza e, meno che mai, con narcisistica enfatizzazione, ad onta del ruolo primario da lui svolto in un settore chiave della politica della Giunta di governo: l'Assessorato all'agricoltura. Il Nostro preferisce intrattenersi sull'opera complessiva della compagine guidata dal Caltagironese, affermando tra l'altro: «Per cominciare: riuscì a far approvare dall'ARS ben 27 leggi; delle quali alcune sono, per quel tempo, indubbiamente di rilievo; Provvidenze per il ricovero dei minori, vecchi, inabili, indigenti. Agevolazioni per l'ammasso volontario di mosti e uve da mosto; Riordinamento dell'Ente di Riforma Agraria; Provvidenze per l'industria zolfiera; Norme per alleviare la disoccupazione. .. Il merito principale del primo governo Milazzo è però lo sbocco della spesa pubblica e l'impulso dato allo sviluppo economico e sociale. Già dopo un mese dalla sua costituzione il Presidente della Regione poteva annunciare che la spesa mensile si era quasi raddoppiata, mentre nei primi mesi del 1959 il governo nel suo insieme varava (...) programmi e finanziamenti che segnarono un nuovo modo di fare politica e fecero dell'intera Sicilia un cantiere di fervida attività, come si evince dalle decretazioni e dai lavori completati e avviati».

Finalmente Dino Grammatico si decide a parlare di sé stesso e del suo lavoro all'Assessorato dell'Agricoltura. Lo fa con secchezza di enunciazione: «A quel tempo però uno dei problemi maggiormente dibattuti era quello dell'attuazione della riforma agraria sia sotto il profilo del recupero dei terreni da assegnare, compresi quelli degli enti pubblici, sia per quanto concerne le trasformazioni agrarie, le conversioni culturali, sia soprattutto per quanto riguarda le assegnazioni dei lotti di terreno agli aventi diritto. L'azione dell'assessorato all'agricoltura non solo procedette alla dichiarazione di conveniente utilizzabilità a coltura agraria di oltre 20mila ettari, ma realizzò anche un forte acceleramento delle assegnazioni». E via via altre elencazioni, fra cui energici e vasti impulsi a favore dell'associazionismo, la rete delle cantine sociali e quella delle centrali ortofrutticole.

Visto e considerato che il Grammatico non ama parlare di sé facciamo parlare di lui un pubblicista a lui non vicino né politicamente né privatamente. Alberto Spampinato, il quale nel suo libro "Operazione Milazzo" si espone nei seguenti termini relativamente alla politica agraria del milazzismo: «Nelle campagne i governi Milazzo conseguono forse i maggiori risultati. Nonostante il primo assessore all'agricoltura fosse il missino Dino Grammatico, ericino, professore di lettere, e il secondo fosse il monarchico popolare (cioè aderente al Partito Monarchico Popolare di Achille Lauro, frutto di una scissione del Partito Nazionale Monarchico di Alfredo Covelli. N.d.R.) Giuseppe Romano Battaglia, l'azione di governo si esplicò in modo da colpire grossi interessi e di realizzare modifiche nel senso voluto dai cristiano-sociali e dalle sinistre (e, aggiungeremmo noi, anche di quei missini di orientamento erresseista come il Grammatico, restati fedeli al retaggio propulsivo della Repubblica Sociale Italiana, se è vero, come è vero, come egli stesso afferma con forza, che non fu un pupazzo nelle mani dei comunisti, socialisti e milazzisti, ma il costruttore di una politica agraria originale e rinnovatrice nell'ambito di un governo non egemonizzato da chicchessia. N.d.R.). Si ottennero naturalmente risultati che nulla avevano di reazionario, ma che aiutano a immaginare quanto diverso avrebbe potuto essere il ruolo della Regione se essa fosse stata non solo per 14 mesi, ma per trent'anni al servizio dei lavoratori anziché di interessi particolari». Dove si coglie perfino il miracolo di un monarchico che si svincola dagli interessi conservatori dei grandi proprietari terrieri per coinvolgersi in una linea di innovativo respiro popolare.

Dino Grammatico lo conosciamo abbastanza per definirlo persona non solo intellettualmente valida (è un saggista e un poeta), politicamente preparato ed efficace, ma pure serio e leale. Ed è con grande lealtà che egli elogia l'operato di due colleghi della sinistra: l'assessore socialista Calderaro e il vice presidente D'Antoni, eletto come indipendente nella lista del PCI. Dice: «E ancora: non si può non fare riferimento agli interventi nel campo dell'occupazione dell'onorevole Serafino Calderaro attraverso il finanziamento e l'attuazione di centinaia di cantieri di lavoro e alla politica scolastica sviluppata dall'onorevole Paolo D'Antoni, assessore regionale del ramo, nel campo dell'edilizia scolastica e nell'ordinamento dei ruoli, come è testimoniato dalle leggi varate e approvate».

Orbene, proprio queste parole così sincere e oneste rafforzano, in noi il rifiuto del giudizio negativo formulato dal Grammatico -forse, chissà, per malintesa ancorché rispettabile dedizione ad un partito ormai proiettato a destra e, dunque, sempre più distante dal messaggio erresseista- sugli altri due governi pilotati dallo sturziano ribelle di Caltagirone, che sarebbero stati ferrignamente agganciati dai «rossi», ossia da galantuomini quali il Calderaro e il D'Antoni tanto calorosamente complimentati dall'Autore del brillante saggio su cui ci siamo intrattenuti. La vicenda milazziana meriterebbe altre riflessioni e approfondimenti, però in connessione al più generale problema del rapporto di taglio storico -peraltro ancora tutto da «inventare», anzitutto in sede culturale, ad oltre mezzo secolo dal crollo della Repubblica Sociale Italiana- fra l'esperienza di ciò che il compianto De Felice volle definire «fascismo movimento» chiaramente comprendendo in esso la RSI e la sinistra culturalmente e politicamente più aperta e creativa. Pensiamo di dovercene e potercene occupare, Direttore permettendo, prossimamente.

Enrico Landolfi

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