«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 3 - 31 Maggio 1997

 

Tupac amaru:
un nome che fa sempre paura

 

Correva l'anno 1569. In Perù gli indios Quechua, in un estremo tentativo di resistenza agli spagnoli, avevano incoronato, come loro Inca, Titu Cusi Yupanqui. Questo, contrariamente ai suoi predecessori, si era scrollato di dosso timidezze e paure e dalla sua base inespugnabile di Vilcabamba attaccava in forze gli spagnoli, non dava loro tregua, ne tormentava i traffici, ne minacciava il recente insediamento. Il loro potere traballava. Il viceré Francisco di Toledo, successore di Francisco Bizzarro, già guardiano di porci in Spagna, si sforza in tutti i modi per piegare l'Inca: non ci riesce, ma il destino sembra dargli una mano. Nel 1569 Titu Cusi Yupanqui muore di polmonite. Gli succede Tupac Amaru, l'ultimo Inca, un adolescente. Gli spagnoli approfittano della sua giovane età e della sua inesperienza: si avvicinano a Vilcabamba da tre diverse direzioni. Sorprendono l'Inca, lo catturano, lo sottopongono ad un sommario processo e lo giustiziano. Così riferiscono le cronache indigene: «Topa Amaro Inca fu scannato per la sentenza emessa da Don Francisco di Toledo. Questa fu eseguita sull'infante-re Inca che morì cristianamente battezzato all'età di 15 anni».

 

*   *   *

Più o meno gli stessi luoghi, circa duecento anni più tardi: un cacicco indio, anche lui di nome Tupac Amaru, si ribella contro l'oppressione spagnola. Rivendica uguaglianza di diritti per i suoi fratelli di razza. E vinto, decapitato e squartato sulla piazza di Huacaypata. Anche a sua moglie, Micaela Bastidas, viene mozzato il capo. Da quel giorno, 19 luglio 1781, le autorità spagnole vietano i vestiti tipici del popolo, le figure e i ritratti degli antenati incas. Impongono che si parli solo il castigliano e dichiarano fuorilegge i «pututus», i tradizionali strumenti musicali peruviani.

 

*   *   *

Più o meno gli stessi luoghi -Lima, capitale del Perù- circa duecento anni dopo, a nemmeno mille giorni dalla fine del millennio: un altro bagno di sangue legato al nome simbolo di Tupac Amaru. Spietatamente, senza fare prigionieri, è stata annientata la pattuglietta dei guerriglieri del MRTA (Movimento Rivoluzionario Tupa Amaru), che, in maniera non cruenta, sequestrando 500 ostaggi nella residenza dell'ambasciatore giapponese, aveva cercato di porre all'attenzione dell'opinione pubblica internazionale il problema drammatico dei prigionieri politici peruviani e le loro terribili e disumane condizioni di detenzione (Amnesty International da anni dice le stesse cose). 140 «teste di cuoio» peruviane, super addestrate da consiglieri militari USA ed istruttori israeliani, hanno avuto finalmente la meglio su 15 ragazzi di vent'anni guidati da un ex-operaio di mezza età che li beffavano da 126 giorni, nonostante uno straordinario spiegamento di uomini, mezzi, mediatori...

 

*   *   *

Durante il lunghissimo sequestro a nessuno degli ostaggi è stato torto un capello. Agli osservatori internazionali più obiettivi l'intervento militare è apparso non necessario e ingiustificato. I morti, tutti da una sola parte, sono apparsi con sempre maggiore chiarezza non tanto terroristi vittime della loro audacia, quanto capri espiatori di un massacro pianificato a tavolino negli uffici di diverse Sicurezze ed Intelligence internazionali. Questo il pensiero di Anìbal Quijano, sociologo peruviano lontanissimo da ogni simpatia per qualsiasi forma di terrorismo: «II tempo e la massa di risorse umane e finanziarie militari e tecnologiche investite nella preparazione dell'assalto alla residenza durante quattro mesi, e, soprattutto il prolungato e minuzioso addestramento delle truppe d'elite scelte per l'azione dimostrano che non si è trattato di nessun "piano contingente", come ha detto Fujimori, bensì del fatto che il governo peruviano non ha mai avuto davvero l'intenzione di negoziare per giungere a una soluzione pacifica e salvaguardare la vita di tutte le persone all'interno della residenza. Al contrario, quello che il governo voleva era di arrivare al massimo della sua capacità di intervento militare».

Per un massacro esemplare. Per un bagno di sangue in cui si è immerso fino agli occhi il presidente Fujimori, il padre-padrone del Perù. Ce lo hanno mostrato, le TV di tutto il mondo mentre, a strage compiuta, indossando un giubbotto antiproiettile, sfilava accanto al cadavere del capo dei sequestratori, Nestor Cerpa Cartolini. Uno spettacolo macabro, che la dice lunga sul grado di civiltà degli esponenti delle oligarchie chiamate ad amministrare il neoliberismo selvaggio a Sud del Rio Grande. Così lo bolla Manuel Vazquez Montalban: «... si mette in posa come un cacciatore d'orsi davanti alla preda abbattuta, con l'espressione soddisfatta del politico cui i militari han regalato la condizione di statista». E invece si è dimostrato solo un mediocre caudillo della periferia del mondo, capace, al più, di accelerare e perfezionare i processi di destrutturazione sociale in atto nell'intera America Latina e in modo particolare in quel Perù, che Fujimori ha pesantemente contribuito a rendere sempre più bipolare: da una parte un ristretto settore della società peruviana che realizza una crescente concentrazione delle ricchezze, dall'altra la stragrande maggioranza della popolazione, che impoverisce e regredisce a livelli subumani. È vero o no che negli ambienti che contano, quelli dei mercati e della finanza, si definisce il Perù come il paese latino-americano con prezzi europei e salari africani?

 

*   *   *

Se Fujimori, i suoi metodi, il suo cinismo politico-diplomatico ci fanno orrore, non può che suscitare ribrezzo e sdegno il quasi unanime sollievo con cui la stampa internazionale e quella italiana hanno salutato la tragica conclusione della vicenda. Un esempio impressionante, da manuale, di pensiero unico, unificato, omologato alle ragioni dei più forti. Nessuna comprensione per le motivazioni degli sconfitti, nessun tentativo di andare al di là della descrizione addomesticata degli avvenimenti, nessuna voglia di approfondire, scavare, cercare di capire le terribili contraddizioni da cui può anche nascere la disperazione carica di utopia di Cerpa Cartolini e dei suoi giovani, generosi compagni. O, qualche migliaio di chilometri più ad occidente, la irriducibile volontà di lotta dell'EZLN di Marcos, lui sì, oggi, il vero spauracchio di tanti benpensanti e uomini d'ordine. Da D'Alema che non si perita a definirlo «uno Zorro» a Paolo Guzzanti, che, meno famoso come giornalista de "La Stampa" e più come padre di comici ulivisti, non trova di meglio che affibbiare al sub-comandante della Selva Lacandona l'epiteto di Peter Pan della foresta pluviale. Una pessima battuta che bene esprime, però, la miseria morale e la pochezza politica e culturale dei tanti, troppi intellettuali, analisti, commentatori, che, caldi e satolli dalle loro nicchie protette e ben posizionate nella parte giusta del mondo, si permettono di elaborare le strategie «corrette» per i miliardi del Sud del pianeta.

 

*   *   *

In questi tempi buonisti potrà forse suonare male e disturbare qualcuno, ma l'affermazione del portavoce del MRTA in Europa -«Cercheremo ancora di liberare i prigionieri politici e faremo giustizia per ciascuno dei nostri morti. Non sarà una vendetta, ma una guerra»- non ci scandalizza affatto. Anzi...

Luciano Luciani

Indice