«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 3 - 31 Maggio 1997

 

Panama: un'invasione dimenticata

 

L'idea di una via capace di mettere direttamente in relazione l'Oceano Atlantico con il Pacifico fu una delle questioni sempre presenti, sovente in maniera quasi ossessiva, alla coscienza di navigatori, esploratori e viaggiatori dell'età successiva alla scoperta del «nuovo mondo». Un problema su cui si concentravano anche gli interessi strategici e gli appetiti economici delle grandi potenze europee del XVI secolo. Fu Magellano che, attraversato l'Atlantico, continuando testardamente a navigare verso sud-ovest, riuscì a trovare il passaggio che apriva la strada ai paesi del Levante: la via per raggiungere le regioni delle spezie navigando verso occidente era stata aperta, ma solo spingendosi verso acque pericolose molto a sud dell'America meridionale. Presero allora vigore gli studi per la creazione di un canale che accorciasse le distanze tra gli oceani.

Ma le resistenze più forti ad un tale progetto non furono offerte né dalla natura né dal clima: ad ostacolare il disegno fu piuttosto la mentalità fanaticamente controriformista del re di Spagna Filippo II. Il religiosissimo sovrano non poteva ammettere che un intervento umano potesse cambiare, in maniera quasi blasfema, gli assetti naturali stabiliti dalla volontà divina. Ogni iniziativa in proposito fu proibita sotto la minaccia di pene severissime e bisogna attendere sino al crollo della potenza militare spagnola, avvenuta nella prima metà del secolo XIX, per poter tornare a parlare del progetto capace di avvicinare i due oceani.

A testimoniare del fervore di idee e di proposte relative ad una soluzione della complessa questione nel 1828 vennero individuati due possibili tracciati: uno più a nord, che utilizzava il lago Nicaragua, l'altro a sud, che andava da Colon sul Mar dei Caraibi a Panama sul Pacifico.

Il primo progetto, quello attraverso il Nicaragua, si presentava come il più economico. Ma i giovani Stati Uniti, che proprio allora avevano messo a punto quella «dottrina Monroe» che tendeva ad escludere ogni intervento europeo nel nord e nel sud del continente, guardavano con occhio non propriamente benevolo al riavvicinamento che si andava realizzando in quegli anni tra gli interessi britannici e i paesi dell'America centrale. Tesero perciò a valorizzare l'altro tracciato.

Malgrado l'attenzione con cui l'opinione pubblica nordamericana seguiva la vicenda, la Colombia, il cui territorio era interessato al progetto, preferì cedere la concessione del Canale al francese Wyse e nel 1879 una commissione riunita a Parigi discusse a lungo se l'imponente opera d'ingegneria potesse essere o meno realizzata. Infatti il territorio circostante largamente paludoso e la malaria che imperversava nella regione mettevano pesantemente in discussione il progetto, che pure prese il via nel 1881. Dirigeva i lavori quel Ferdinando Lesseps che aveva già portato a termine l'immensa impresa del Canale di Suez, secondo i piani dell'ingegnere italiano Negrelli. Questa volta, però, le difficoltà ambientali -paludi, malaria, ostacoli naturali a cui si aggiunsero non pochi errori nella progettazione e nell'esecuzione dei lavori- si rivelarono insormontabili: migliaia di vittime tra gli operai e i tecnici addetti ai lavori, sembrarono suggellare l'impraticabilità dell'opera.

Solo dopo cinque anni si comprese che il Canale non poteva essere portato a termine. I lavori vennero sospesi nel 1888, la società francese rinunciò all'opera e la straordinaria idea di legare l'Atlantico al Pacifico parve morire annegata questa volta in un oceano di polemiche e carta bollata. Bisognerà attendere ancora quindici anni, quando gli effetti della guerra ispano-americana determineranno nuovi interessi statunitensi nel Pacifico. Nuova potenza mondiale, gli USA troveranno utile a questo punto -siamo nel 1904- rilevare la concessione ed elaborare un progetto che suddivideva il tratto interessato in diverse zone, messe poi in corrispondenza l'una con l'altra attraverso un sistema di chiuse. Così concepito, il Canale verrà terminato dieci anni più tardi.

Naturalmente, appena iniziati i lavori, nella regione scoppiò un sommovimento filo-USA che chiedeva l'affrancamento dalla Colombia e l'aiuto delle truppe nordamericane. Secondo un copione che doveva diventare consueto nei decenni successivi del XX secolo, nella provincia di Panama sbarcarono con assoluta tempestività i soldati a stelle e strisce che imposero alle popolazioni locali l'indipendenza dalla Colombia. La repubblica di Panama nacque come tante «repubbliche delle banane» dell'America latina, modellata sulle istituzioni politiche del potete vicino: un Congresso, un Esecutivo con un Presidente ed alcuni ministri, ambasciate e consolati, una bella bandiera con tanto di motto latino: «Pro mundi beneficio». La reale traduzione della breve sentenza si ebbe non appena gli Stati Uniti ebbero riconosciuta la nuova repubblichetta (6 novembre 1903): il suo primo atto fu la firma di un trattato che concedeva in affitto perpetuo agli USA la fascia di territorio -larga 16 chilometri ed estesa per 1667 kmq- attraversata dal Canale e il diritto di gestirlo... pro mundi beneficio, ovviamente!

In questi ultimi novanta anni tra la repubblica di Panama e il Grande Fratello nordamericano non sono certo mancati i conflitti, via via inaspritisi a mano a mano che i popoli latino-americani prendevano coscienza del proprio diritto all'autodeterminazione e a un destino non subalterno. Trent'anni or sono il risentimento verso il potente vicino toccò il suo acme: 22 studenti panamensi vennero uccisi dai soldati USA nel corso di violentissime manifestazioni nazionaliste mentre cercavano di alzare la loro bandiera nazionale all'interno della zona del Canale sotto il controllo statunitense. L'ambasciata USA fu presa d'assalto, il centro informazioni devastato e i rapporti diplomatici tra USA e Panama interrotti.

Nel 1968, nel quadro di una situazione continentale in movimento e favorevole a soluzioni di segno nazionalista e progressista, un colpo di Stato depose a Panama il corrotto governo di Arnulfo Arias e portò alla ribalta Ornar Torrijos, un militare che si era sempre battuto per l'indipendenza, la dignità nazionale e la conquista della piena sovranità del proprio paese.

«Noi abbiamo cinque frontiere» -era solito dire- «con la Colombia a sud, col Costarica a nord, con l'Atlantico a est, con il Pacifico a ovest e proprio al centro del nostro stesso Paese con la zona del Canale occupata dagli Stati Uniti. Ecco, noi lottiamo per eliminare la quinta frontiera».

Negli Anni Settanta Torrijos riuscì a fare del problema del Canale un simbolo delle aspirazioni di libertà e autodeterminazione dei popoli latino-americani, conquistando appoggi e simpatie in tutto il subcontinente e presso tutti i paesi del Terzo Mondo.

Il suo capolavoro politico fu nel 1979 la firma di un trattato che garantiva il ritorno graduale di tutta la zona del Canale sotto la sovranità entro il dicembre 1999.

Ma il sogno di questo leader terzomondista di un Centroamerica unito intorno agli ideali di indipendenza politica, solidale nell'impegno per lo sviluppo economico e la democrazia doveva essere brutalmente spezzato da un disastro aereo tanto nefasto per i destini della regione quanto provvidenziale per i suoi avversari. La puntuale morte di Torrijos in un incidente aereo liberava l'amministrazione USA da uno scomodissimo, pugnace, critico interlocutore proprio alla vigilia di una nuova grande campagna internazionale per il rispetto dei diritti di Panama da portare nelle massime sedi internazionali.

Si apriva così la strada del potere al generale Noriega, uomo forte del paese, dapprima creatura della CIA e poi dittatore «in proprio», da sempre coinvolto in storie poco chiare di traffici di armi e droga. Quello che è accaduto nel piccolo e tormentato paese centroamericano, alla fine degli Anni Ottanta è ancora oggetto delle cronache della politica internazionale più che della riflessione degli storici. Un serio contributo alla comprensione di una pagina importante della tormentata storia del continente latino-americano e dei suoi complicati rapporti con la grande potenza del nord lo offre lo splendido «Panama Deception», un lungometraggio della regista americana Barbara Treni premiato con l'Oscar 1992 per il miglior documentario. Con intensa passione civile e serio rigore storico la pellicola racconta l'invasione USA di Panama del 1989, senza nulla tacere degli orrori di questa operazione sempre presentata come modello di intervento «pulito» e quasi indolore. Ma le guerre pulite e indolori non esistono. Anche a Panama, quindi, non sono mancati gli orrori propri di ogni conflitto, a cui si sono aggiunti fosse comuni, desaparacidos, repressione selettiva e di massa. Interi quartieri di Panama City, la capitale, distrutti dall'uso di armi sofisticate ed «intelligenti» che risparmiavano i quartieri «bene» e radevano al suolo le zone popolari di presunta resistenza all'invasione non hanno «fatto notizia» presso un'opinione pubblica mondiale disattenta, distratta e disposta ad accontentarsi delle versioni addomesticate dei grandi network dell'informazione.

Ancora oggi è incerto il numero delle vittime dell'invasione. Sicuro solo il numero dei caduti statunitensi, 25. Per i caduti panamensi si oscilla fra i trecento dei comunicati ufficiali del Pentagono e i cinquemila, in massima parte civili inermi, denunciati dalle associazioni pacifiste americane. Le ragioni per cui l'allora presidente americano George Bush abbia scelto di scatenare la formidabile macchina bellica americana contro il piccolo Stato centroamericano restano misteriose. E vero che Noriega, «faccia d'ananas», non era uno stinco di santo, anzi... la CIA lo conosceva bene per averlo avuto sul libro paga proprio quando Bush era direttore dell'Agenzia. Oscillava tra il caudillismo tradizionale delle dittature latino-americane ed una particolare propensione per ogni tipo di attività illecite: non era né migliore né peggiore di tanti altri tirannelli che, sostenuti e foraggiati proprio dagli USA, affliggono quella parte del mondo. Era sufficiente il suo antiamericanismo di facciata e dell'ultim'ora per giustificare un'operazione militare con tali costi umani, condotta contro il diritto internazionale, malvista da tutti i paesi latinoamericani?

Come scrive un uomo politico panamense di orientamento moderato, Raul Leis, «i poveri, come sempre, hanno pagato in prima persona la crisi e la guerra».

Panama rappresenta ancora oggi una ferita nel sistema dei rapporti tra gli USA e il subcontinente di lingua spagnola. L'unico risarcimento possibile nei confronti della prepotenza consumatasi quasi dieci anni fa potrebbe essere l'avvio delle condizioni per una vera democrazia nel piccolo Stato del Canale, la tutela dei diritti umani, aiuti economici per uno sviluppo non drogato né segnato in senso classista. Saranno in grado gli USA di Clinton di rivedere e correggere cento anni di politica e diplomazia nei confronti del piccolo Stato del Canale? Ne dubitiamo.

Ai panamensi toccano invece alcune grandi sfide per il futuro:

a) recuperare in un paese sotto tutela il senso di nazione, insieme alla memoria collettiva, alla storia, all'essere panamense. Lottare coraggiosamente e controcorrente per la terza indipendenza, l'autodeterminazione e la sovranità;

b) costruire la democrazia partendo dalla base, nelle singole organizzazioni, nel paese. Tutelare per tutti il rispetto dei diritti umani;

e) operare la scelta per i poveri e gli indifesi in un percorso di solidarietà che veda la costruzione del soggetto popolare come protagonista della sua storia, nelle rivendicazioni sociali della terra, dell'appartenenza etnica, dell'identità, del lavoro;

d) ribadire coerentemente la propria dimensione latino-americana. Per usare un'immagine capace di presa immediata: Bolivar contro Monroe. Non è facile, non sarà facile. Ma è l'unica strada possibile per riscattare questo lembo di continente dalla storica maledizione del Canale e dall'imperialismo statunitense.

Luciano Luciani

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