«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 3 - 31 Maggio 1997

 

Il totalitarismo implicito nel pensiero «impolitico»

 

 

Che il totalitarismo non sia più di moda nel mondo occidentale è evidente e forse non occorrono grandi filosofi per spiegarne le ragioni: la società evoluta non è più capace, o non ha più bisogno, di grandi moti unitari, di grandi progetti, di potere fortemente accentrato. La tecnologia e il mercato hanno occupato gran parte del posto della politica e il monopolio dell'informazione quello della cultura. Cosicché la libertà dell'individuo è aumentata in tutti i campi, ma piuttosto nel senso che tutte le gabbie sono diventate più ampie: il sistema che ne risulta assomiglia ad un nuovo totalitarismo implicito, che sembra non lasciare più campo a nuove scelte di insieme. Ed è questo il disagio di oggi in Occidente. Totalitarismi espliciti, nei quali hanno diverso peso il potere dispotico e il consenso popolare, gli interessi di casta e le ideologie, regolano ancora la grande maggioranza degli altri popoli, in Cina e nei paesi dell'Asia del Sud-Est -quelli, guarda caso, nei quali lo sviluppo della società è il più vigoroso-, nell'Islam e nell'America Latina.

Nonostante le apparenze della mondializzazione, anche a voler ignorare il malessere sociale non eliminato in Occidente, per la massima parte del pianeta il problema dello sviluppo è quello stesso della sopravvivenza, e dove non prevale il caos dell'arretratezza forme di totalitarismo si impongono. Sarebbe dunque possibile stabilire un qualche legame fra totalitarismo e sviluppo?

Lungi da ciò, il totalitarismo, come un parafulmine, continua ad attirare la condanna morale di politici e pensatori allineati. Come se il problema non fosse l'assenza di nuove strade da aprire, ma quello sempiterno di inseguire le retroguardie sconfitte. Gian Cristiano Desiderio, nel "Secolo d'Italia" del 27 marzo, a sua volta richiama gli studi di Roberto Esposito nei quali è stabilito un parallelo fra due filosofie di grido, la Arendt e la Weil, accomunate nel «pensiero impolitico» cioè in una tesi che potrebbe essere quella della «fine della politica» - perché il bene sarebbe presente solo nel rituale politico dei popoli che hanno potuto darsi il lusso della democrazia (Arendt), semplificazione antistorica, o più radicalmente e utopisticamente perché il male sarebbe insito nella società stessa e la libertà sarebbe solo «impolitica» (Weil). Tesi che raggiunge in chiave escatologica quella della «fine della storia» che Fukuyama in chiave qualunquistica imputa al mercato.

Fino a che punto può arrivare la cecità e l'ipocrisia degli intellettuali che servono una ideologia totalitaria! Due donne, come farebbero due preti, vanno alla guerra senza cercare di comprenderne le ragioni. Convinte di aver distrutto il marxismo al pari del fascismo e del nazional-socialismo, ci fanno apprezzare le ragioni storiche anche di quello, cioè dell'aver tentato di produrre e distribuire egualitariamente e forzosamente quella ricchezza che altri popoli hanno accumulato in secoli di rapine e che godono «liberamente», dell'aver creduto di potere sostituire la solidarietà alla competizione: una scorciatoia che fu un'illusione sanguinosa, ma che resta iscritta nella storia dell'uomo proprio per l'alto costo pagato per tentarla. La Arendt e la Weil scoprono invece nel totalitarismo la «banalità» del male. Il male fatto dalle persone normali e benintenzionate, solo perché l'organizzazione le spinge ad «agire senza pensare». A loro non sfugge la differenza fra tirannia e regime totalitario, fra potere sterilmente violento e concordia tesa ad uno scopo eccezionale, volontà e consenso per difendersi da una offesa esterna o per realizzare il proprio riscatto. Questo intento positivo non è più negato: il revisionismo storico serve pure a qualcosa. E ciò basta a sedurre i convertiti più accomodanti. Ma è proprio quella volontà di bene che occorre capovolgere e occultare in modo subdolo. Il totalitarismo sarebbe solo meglio organizzato, al punto di far scomparire la coscienza stessa della violenza. Chi faceva il male non sapeva di farlo. Un condono. La soluzione della interminabile diatriba fra chi vuole incriminare il popolo tedesco e chi lo vuole «sdoganare» facendolo passare per scemo.

Evidentemente, a queste «signore della filosofia» sfuggono i rapporti internazionali, che nella storia sono stati la causa del totalitarismo e la sua giustificazione. Se la struttura democratica, più libera, giunge tuttavia, servendosi della volontà popolare espressa secondo i riti democratici, a negare ad altri popoli un più giusto ordine internazionale, si oppone ad accordi che potrebbero evitare la guerra e una volta scatenata questa usa della ricchezza accumulata nei secoli precedenti con la forza, cioè grazie ad altre forme meno perfezionate di totalitarismo, per dotarsi delle armi più letali e distruttive e così schiacciare «senza condizioni» fino alla distruzione completa i popoli avversari, le «persone normali» che servono queste democrazie, fanno il «male banale» allo stesso modo, anzi questo loro male è meno banale, se è più esplicitamente ed estesamente condiviso. La libera democrazia che con il blocco costringe alla fame il popolo rivale compie lo stesso male che questo stesso popolo scarica sui suoi prigionieri.

Ma fuori dalla storia, facendo filosofia a prescindere da un esame specifico dei fatti, si cade nelle generalizzazioni che impediscono di graduare il giudizio. Un atto può apparire giustificato o no, si poteva non fare o fare diversamente, si poteva o non disobbedire, si è o non ecceduto, si sono date o non prove di tenacia e di solidarietà, di lealtà e di eroismo che hanno in qualche misura compensato le crudeltà ecc. L'individuo può dissociarsi, l'utopia può bastare all'intellettuale che vive delle proprie chiacchiere, mentre il proprio paese muore di fame. Ma a dispetto del pacifismo di quelli che non si preoccupano di fondare una pace «che non sia l'alternativa della guerra», perché la loro guerra pensano di averla già vinta, questa resta troppo spesso il parto sanguinoso, la via obbligata per lo sviluppo.

Cesare Pettinato

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