«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 4 - 31 Luglio 1997

 

Aprile: operazione Albania
obbligatorio non dormire

(2ª parte)

 

Cerchiamo di ragionare: non c'è azione di pattugliamento o di blocco navale che non preveda procedure di allettamento e minaccia, prima dell'abbattimento o speronamento, tali da poter escludere ogni incidente non voluto e quindi da inibire il ricorso alla «tragica fatalità». I colpi di preavviso, ad esempio, o la sequenza di minaccia progressiva per scoraggiare chi stia provando a forzare i limiti di una consegna militare. Nessun servizio di guardia o vigilanza militare, per quanto possa non piacere, è svolto -o potrebbe esserlo- con i modi gentili della dissuasione argomentata e dalla cortesia gestuale. Essa si affida alla minaccia dell'arma come ultima risorsa dopo poche e precise azioni di imperio. Il pericolo che verrebbe al «bene protetto» da una modalità diversa sarebbe davvero inaccettabile. Diversamente bisognerebbe affermare che la protezione di quel bene, ed il potenziale aggressivo, non sono tali da richiedere una tutela armata.

 

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Ma se questo non convincesse chi è estraneo alle procedure militari, basterà chiedersi se sia possibile che dei naufraghi, i quali hanno perso affetti e beni e che dunque non avrebbero nessun motivo per tutelare il conducente del proprio mezzo navale che si fosse reso responsabile della azione suicida che ha determinato quelle dolorose perdite, possano davvero coalizzarsi e essere convinti tutti per rendere una comune testimonianza sulla presenza e la esibizione, dai ponti del natante, di donne e bambini, attribuendo dunque ad altri (e cioè alla marina italiana) la responsabilità della tragica conclusione della interdizione. O chiedersi se questa unanimità tra le vittime non appaia piuttosto come la più evidente circostanza di una verità incontrovertibile. E se non appaia allora precostituita la versione unanimistica dei marinai italiani che su quel battello non vi fossero e comunque non fossero visibili in coperta né quei bambini né quelle donne.

 

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Ma se questo non dovesse ancora bastare a convincere, viene da chiedersi se, accolta come vera la circostanza che i profughi fossero soggetti ad un vero e proprio racket criminale che li taglieggiava prima dell'imbarco anche su «navi militari» alle quali era stato espropriato il comando dei legittimi militari, sia possibile credere che un simile racket stilasse una regolare «carta di imbarco», e fosse pronto ad esibirla per ogni evidenza, come si trattasse di una ordinata compagnia di navigazione, in caso di incidente. E cioè come sia stato possibile che in quelle condizioni di gestione che si vuole criminosa del flusso di profughi, gestita per di più in un territorio come Valona che si voleva assolutamente sottratto al controllo del potere politico centrale, il rappresentante del Governo albanese potesse opporre, nel giro di 24 ore, al nostro Governo, una lista «accreditata» di cittadini albanesi morti nella sciagurata esecuzione.

 

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La sola ragione possibile è che quel Governo fosse il vero organizzatore occulto di quei flussi migratori al fine di «costringere» un altro Governo a scegliere di intervenire in territorio albanese per tutelare direttamente i suoi interessi contro la rivolta popolare. L'affondamento è dunque, e comunque costituisce, una azione di ritorsione che, mentre accetta di subire o assecondare la forzatura per un intervento politico-militare, lancia un forte monito di voler e poter gestire come soggetto autodeterminante la situazione politica, in cui si «accetta» di intervenire come risposta ad una esigenza e ad una richiesta, e non come soggezione ad una forzatura e ad una imposizione. Deve dunque cessare un flusso incontrollato di profughi, dove a semplici e disperati cittadini si confondono artificiosamente e strumentalmente criminali e destabilizzatori. E di fatto il flusso dei profughi si interrompe dopo l'affondamento, con la sola eccezione, dopo sei giorni, di un piccolo contingente di 56 persone, accolte con affettuosa disponibilità. Piccola cortina fumogena perché non fosse così spudorata la evidenza causa-effetto.

 

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E affrettatamente si dispone l'operazione militare, mascherandola in forme ridicole inaccettabili e pericolose per i nostri uomini. E la polemica rimbalza, strisciante, sui pericoli cui sarebbero esposti i nostri uomini in «missione di pace». Il mondo dei vertici militari risponde con «entusiasmo» e «prontezza». Ma sono solo disponibilità funzionali ad un altro «specifico» progetto: una approvazione parlamentare, senza alcuna vera meditazione e scelta politica, delle condizioni del Nuovo Modello di Difesa. Tutti costoro, militari improbabili o politici improvvisati, sono cinicamente consapevoli, io ritengo, della necessità del sacrificio di almeno una decina di uomini, uccisi da quella parte sociale e politica che il responsabile militare della missione ha già definito: «Ribelli. Ed io non tratto con i ribelli» (si noti che non dice «non sono autorizzato dal mio Governo»).

 

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E dunque quelle morti, così provvidenziali se arrivassero, libererebbero il nostro Governo dalla ambiguità della pluridichiarata «equidistanza e neutralità». Ma come fa a definirsi neutrale una presenza che viene prevista ed armonizzata con un Governo riconosciuto come legittimamente in carica (e riconoscendolo implicitamente e di conseguenza come legittima la autorità originale del mandato governativo, e cioè la presidenza Berisha, dalla cui contestazione nasceva invece la rivolta popolare sfociata nella violenza e nel totale disordine); Governo con il quale si concordano le forme e le modalità dell'intervento? È solo una spudorata menzogna, che non acquista maggiore dignità perché ribadita con supponente saccenteria da un «esperto» (Silvestri) nella trasmissione del piazzista Vespa (si chiama «Porta a Porta», no? Dunque una forma di piazzismo, per di più occulta perché non è dichiarato il prodotto che si vorrebbe spacciare, si tratta). Noi siamo in Albania, e dovremmo riconoscerlo, da una parte precisa e per fare il suo gioco, assecondare il suo progetto. Quella che dovrebbe essere la parte legittima, si spera, dovendoci augurare che essa non nasconda un volto antipopolare ed antidemocratico e non abbia precostituito artificiosamente le condizioni di instabilità del Paese e di depredazione finanziaria del Popolo, e non abbia organizzato strumentalmente il successivo esodo. Ma siamo comunque da quella parte.

 

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Ed è inutile spacciare l'idea di voler ricondurre il Paese verso una espressione libera del consenso elettorale, perché era quello che la gente chiedeva, con la rimozione di Berisha. Non è un caso che a Fassino sia scappata la inconfessata speranza della necessità di «liberare» la scena politica di Berisha e che questo abbia sconvolto l'equilibrio degli interessi politici, per quanto non dichiarati, di appoggio al creatore di «Forza Albania». Ora è evidente che i nostri morti, quando venissero, sarebbero stati «ufficialmente» uccisi da quei rivoltosi, che perderebbero ogni credibilità come interlocutori, si trasformerebbero in criminali da reprimere, e ci costituirebbero e giustificherebbero nel solidale schieramento con «l'ordine legittimo». Come già avviene per i Kurdi cioè cambierebbe in fretta la valutazione dei nostri organi politici e della informazione sulla «natura» di uno stesso soggetto. I Kurdi infatti sono patrioti se perseguitati da Saddam, sono ribelli se perseguitati, e con maggiore violenza se possibile, dal Governo Alleato Turco. Così la nostra ambiguità trasformerebbe in brevi attimi un popolo di disperati e di spossessati in bande criminali ed omicide.

 

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E si stanno precostituendo anche le condizioni più immediate perché ciò avvenga, e perché, dopo l'iniziale esecrazione e l'auspicato effetto di stabilizzazione dei ruoli, si possa poi mitigare «il giudizio politico e la valutazione delle reazioni». Andreatta afferma infatti pomposamente che ai militari è riconosciuto solo un «diritto alla autodifesa». Ma questo sarebbe solo un vuoto eufemismo se non nascondesse il recondito scopo di dire, in fondo, che la morte dei ragazzi è stata determinata da un eccesso dei compiti affidati che «non includevano il dovere di disarmare ogni formazione ovvero ogni singolo che non fosse legittimamente inquadrato nelle Forze dell'Ordine del Paese». E dunque la sorte di quei giovani si incanalerebbe verso un giudizio di eccesso che solo la morte sottrae ad una imputazione di «Violata o forzata Consegna». E questo è il punto più scellerato. Perché quando si sceglie lo strumento militare, anche adeguandolo a compiti di Polizia internazionale (cosa lontanissima dalla cultura degli italici operatori, politici e militari, e di cui si parla con vaghezza di coordinate solo ogni volta che nasce una emergenza senza mai fissare, fuori dalla incombenza delle stesse necessità, quali siano i criteri politici ed operativi di una simile Forza di Polizia) due sono i punti cardinali irrinunciabili: l'uso legittimo, per quanto regolamentato, della forza e delle armi (cui deve legarsi il consapevole rischio della vita degli operatori), ed il referente politico e giudiziario cui lo strumento militare possa e debba poter riferire con certezza e disciplina.

 

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Inibire l'uso della forza e delle armi, piuttosto che regolamentarlo con limpidezza, ad una forza comunque militare, significa renderne inefficace ogni capacità (anche quella del Peace Keeping o del Peace Maintaining) e umiliarne ogni potenzialità e correttezza, lasciandola affidata alla volontà degli operatori ed al caso. L'impiego di forze armate o di polizia armata testimonia invece la volontà di perseguire un obiettivo politico (qual è anche l'ordine pubblico e potrebbe esserlo quello internazionale) attraverso la forza deterrente o dispiegata dell'uso delle armi, in situazioni valutate di oggettiva pericolosità e sfuggite al controllo politico ed amministrativo ordinario, tanto da rendere necessario l'impiego della forza. Pensate a dei poliziotti inviati sul luogo di una rissa in atto, con il compito di sedarla «senza impiegare la forza» -se non per autodifesa (sic!)- e rimanendo «neutrali» tra le parti. Oppure a quei medesimi uomini che chiamati a fronteggiare una criminalità violenta e sanguinaria siano deprivati di una chiara normativa che -avendone regolamentato l'impiego della forza e delle armi; ma già prima ed indipendentemente dalla azione specifica che si è chiamati a svolgere- sappia anche valutare se l'uso della forza abbia ecceduto le consegne ed i poteri attribuiti. Responsabilità, questa dell'eccesso e del suo accertamento, che fa davvero la differenza tra la nobiltà di una forza armata rispetto alla violenza sorda, incontrollata ed irresponsabile di uomini senza inquadramento specifico, senza riferimenti politici e di controllo. Un vero militare è serenamente consapevole di questo vincolo di controllo, ma contemporaneamente esige, deve esigere, una chiarezza sulle proprie consegne.

 

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Nasce dallo snaturamento di questi metodi ordinari della decisionalità politica per l'uso degli strumenti che le sono propri, quell'assurda condizione per cui i militari affrontano spesso missioni con inaccettabile impreparazione, anche psicologica. Cosicché ad esempio i Paracadutisti, inviati in Sardegna per contrastare una criminalità ormai invasiva, ritennero di lamentare «di non essere protetti a sufficienza» dallo Stato. E si annunciò, dopo i primi attentati di quelle stesse forze criminali che avevano determinato l'intervento, che i Carabinieri sarebbero stati impiegati... per difendere i Paracadutisti! ! E così accadde che una «specie» di rappresentante dei Carabinieri (Pappalardo) potesse lamentare in televisione che gli uomini dell'Arma fossero esposti a rischio ed isolamento in quelle zone del Paese che erano ufficialmente dichiarate come tenitori nel pieno controllo del nemico criminale, la 'ndrangheta!! E che dunque lo Stato dovesse mobilitarsi per difendere quegli uomini «sul confine, ed in trincea» (doppio sic!).

 

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Ora, io non condivido una cultura politica che troppo chiaramente rinuncia a soluzioni pacifiche e strumenti di pace. Ma se è questa cultura ad affermarsi (anche fosse strumentalmente, evitando ogni educazione e ricerca di strumenti pacifici per la politica) è assolutamente necessario essere conseguenti e corretti verso i cittadini in armi cui si chiede rischio per i propri progetti e per la propri retorica. Sono certo, purtroppo, che ai nostri soldati non siano stati detti invece, con la assoluta chiarezza che sarebbe stata necessaria, quali siano i compiti assegnati, i poteri attribuiti per il loro assolvimento, le garanzie anche assicurative e stipendiali del loro impiego. Si va in Albania, per stare ad un tavolo politico, come in Crimea, come in Somalia. Dove -non va dimenticato- i nostri militari si trovarono nella piena possibilità di arrestare Aidid, scoprendo solo allora che quella possibilità non era «gradita» all'alleato americano e i nostri diplomatici in zona, incapaci di genialità e dediti ai soli personalistici interessi, si mostrarono totalmente succubi di quella volontà, non mai prima dichiarata dal «vero comandate» della operazione. Spiace che una dignitosa reazione di un militare poco cortigiano -al di là di ogni altra valutazione sulla sua persona e sulle responsabilità in altre vicende- quale fu il Gen. Loi, fosse seguita qualche tempo dopo dal sanguinoso attacco ai nostri militari al Punto Pasta. Dove alcuni morirono, ed altri rimasero colpiti. Improbabile attacco popolare, e piuttosto terribile monito di un dovere di sudditanza non assecondato. Si va dunque, come andò Mussolini, con alterigia e fin troppa inconsapevolezza. Con affermazioni di «amicizia politica secolare» tra i due popoli, che almeno negli ultimi sessant'anni non trova riscontro alcuno nella storia reale.

 

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E così infine i nostri morti potranno ritornare utili per un ultimo obiettivo: sfruttare la indignazione popolare italiana e legittimare una azione di rientro forzoso dei cittadini albanesi rifugiati in Italia, che comporrà definitivamente le divergenti motivazioni politiche sulla natura e le cause dell'esodo e del nostro intervento militare. Sarà possibile esibire questa «dignitosa» reazione solo con i più deboli tra quei profughi e quelli che non si saranno già rifugiati nelle complici ombrosità della criminalità organizzata. Ma questo è un altro discorso. L'importante è ricordare che la storia di soggezione, del nostro e di qualsiasi Paese, è fatta sempre e passa obbligatoriamente per discorsi politici non mai sviscerati fino in fondo, e semmai accusati di essere deliranti e frutto di speciosa avversità politica, se divengono troppo scomodi per gli interessi di un establishment di potere economico-politico-finanziario che non ha mai rinunciato totalmente all'uso strumentale della violenza e della criminalità, e che si è sempre sottratto ad ogni confronto vero sulle proprie scelte. Chiedetelo ad Andreatta, o se vi riesce all'uomo politico che offre alla incompetenza e passività del suo Ministro il proprio volto e il proprio «carisma»: il sottosegretario Brutti. Due Sfingi che purtroppo non diranno mai al Paese i veri compiti, i veri rischi, i veri obiettivi, le vere consegne di questa «missione di pace» in terra d'Albania.

Mario Ciancarella

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