«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 4 - 31 Luglio 1997

 

Che fine hanno fatto l’«Istituto di studi corporativi» e la sua rivista?
Quel Rasi che rasentò la «rivoluzione corporativa»,
per poi mettersi a giocare a polo

 

Alleanza Nazionale, cioè il partito del «duceaddio» targato gennaio 1995 e nato dal lavacro «purificatore» nelle acque di Fiuggi, per mettersi in condizione di partecipare ad un governo da cabaret -presieduto da un supermiliardario pluritelevisivo che non capiva un'acca di politica e coadiuvato da due «vice» di cui uno proclamava un nazionalismo spinto fino alla rivendicazione della Dalmazia mentre un altro tradiva l'Italia professandosi secessionista padano- aveva proposto ad una platea di plagiati da un gruppo di mestatori della politica un testo cosiddetto «ideologico» nel quale si asseverava che «l'antifascismo era stato il momento storicamente necessario per consentire all'Italia il recupero della libertà democratica».

Oddio, si sarebbe potuto fare presente ai signori Fini e Tatarella -due personaggi il cui cinismo e la cui faccia tosta davvero non temono le più agguerrite concorrenze- che non solo e non tanto l'antifascismo aveva dato lo sfratto al regime littorio quanto la vittoria militare degli angloamericani. Ma tant'è. Nell'Italia, madre di due poco raccomandabili rampolli quali il trasformismo e l'opportunismo generati da un suo -dulterino amplesso con Messer Francesco Guicciardini, non c'è da stupirsi ormai di nulla. Neppure, quindi, del missino Gianfranco Fini che fa carriera col Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale nel ruolo di pupillo di Giorgio Almirante -ossia il vessillifero dell'intransigenza fascista, vendicatore e rivendicatore della Repubblica Sociale Italiana annegata nel sangue e nell'odio fratricida nella prima metà dello spirante secolo XX- per poi, scomparso il padre spirituale, agganciarsi alle tematiche di Radio Londra con cinquant'anni e rotti di ritardo.

Dunque, quando si era già convinti che, idealmente parlando, i partiti del Comitato di Liberazione Nazionale non erano sei bensì sette per l'aggiunta di Alleanza Nazionale, ecco arrivare la sorpresa sotto forma di un elegante cartoncino recante l'invito ad un convegno di studi dedicato al tema "Gentile, Bottai, Sironi e la Carta del Lavoro". Firmatari: il Centro Studi Futurismo Oggi e l'Istituto Gentiliano, enti promotori di una manifestazione sicuramente interessante, caratterizzata però da un notevole limite politico e, anzi, partitico: l'ostentazione del patrocinio del Gruppo Parlamentare al Senato di Alleanza Nazionale. Per inciso, rileveremo, e con grande soddisfazione, che stavolta il messaggio risulta depurato del coinvolgimento del Sindacato Liberi Scrittori Italiani, troppe volte concesso -ad onta di un preciso divieto statutario che fa di questo sodalizio una realtà culturale indipendente, sotto il duplice profilo sostanziale e formale, da qualsivoglia formazione politica- ai padri coscritti guidati dal senatore Giulio Maceratini, noto non soltanto per le sue aggressioni al Presidente della Repubblica ma anche, staremmo per dire soprattutto, per l'assoluta incoerenza dei suoi tragitti politici. E a buon intenditor poche parole, come dicevano gli antichi. Segno che il nostro carissimo amico Francesco Grisi si è convinto della opportunità di tornare alle sanissime origini del SILSI, ossia allo spirito delle presidenze Barolini, De Feo, Del Bo, Alfieri. Cosa di cui, ovviamente, con lui ci compiacciamo moltissimo e lietamente. E con la viva speranza di non vederci ad ancora costretti criticarlo, sia pure con la consueta fraternità.

 

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Manifestazione inoppugnabilmente interessante, si diceva, questa indetta per il 70° anniversario della Carta del Lavoro; dei cui documenti siamo in attesa di venire in possesso, magari per riferirne al Lettore di "Tabularasa". Al momento, tuttavia, non riusciamo a sottrarci ad una sensazione di ambiguità e di omissività, al limite della menzogna. Cosa che, del resto, ci accade ogni qual volta ci capita di soffermare la nostra attenzione sulle res gestae di Gianfranco Fregoli e dei suoi accoliti; a cominciare, naturalmente, da quelle inerenti alla sua rocambolesca transizione dall'oltranzismo fascista puro e duro di almirantiana memoria al giuramento antifascista preteso da un consesso di cadaveri morali e di rinnegati senza dignità. Senza autonomia di giudizio, senza logica politica. Di rinnegati, ripetiamo, non di superatori collegati ad una giusta prospettiva di rafforzamento quantitativo e qualitativo della libera democrazia italiana e di costruttori di un più equo assetto sociale.

Perché, come prima si rilevava, questa impressione di «ambiguità» e di «omissività»? Per esempio, perché nel programma di relazioni, nell'insieme più che valido, non vi è cenno della socializzazione, vale a dire di ciò che di più affascinante, trainante, suggestivo qualificò quella che piace a noi definire la componente creativa della Repubblica Sociale? Si dirà: cosa c'entra la socializzazione, ossia la «Carta di Verona», con la «Carta del Lavoro»? C'entra, eccome; e lo sa bene il Giovin Signore di Via della Scrofa, il quale quando trovava conveniente fare il fascista ortodosso nelle schiere almirantiane non si peritava di annunciare urbi et orbi che il Manifesto socializzatore scaligero dell'autunno '44 affondava le sue radici nella «Carta del Lavoro» e, anzi, che questa era il presupposto e il supporto necessari di quello. Di più: tutta l'esperienza sociale del fascismo riposa su tre «Carte» (e non sul «gioco delle tre carte», che tanto piace ai capataz di Alleanza Nazionale): quelle del «Carnaro», del «Lavoro», della RSI. Certo, la prima scaturisce dal fiumanesimo dannunziano, e venne ideata e stilata di pugno da Alceste De Ambris, che, a differenza del fratello Amilcare anch'egli ex-sindacalista rivoluzionario poi alto dignitario delle organizzazione dei lavoratori nel Ventennio, esaurì la sua stagione terrena a Parigi nell'esilio antifascista. E tuttavia il regime fece suo il documento carnariano, come, del resto, lasciano intendere gli organizzatori del convegno affidando a Giano Accame una relazione con il titolo «Dalla Carta del Carnaro alla Carta del Lavoro». Come mai, dunque, si è stati così solerti nel significare il vincolo che unisce l'Elaborato del 1921 con quello del 1927, mentre si è quasi provocatoriamente snobbato quello del 1944?

Va da sé che la nostra domanda è puramente retorica. Infatti la scelta smaccatamente e definitivamente conservatrice dei Fiuggiaschi nel gennaio '95 -alla paradossale quanto autorevole presenza di una delegazione del Partito Democratico della Sinistra, che nulla aveva capito di ciò che stava accadendo, neppure che la foglia di fico antifascista serviva come alibi per estendere e rafforzare uno schieramento reazionario imperniato sull'impero finanziario e televisivo del Cavalier Berlusconi- viene da lontano. Viene dalla improvvida determinazione di Giorgio Almirante, risalente agli Anni Settanta, di concentrare in uno stesso partito un programma di destra e il lascito ideale e ideologico della Repubblica Sociale Italiana, una coabitazione alla francese, insomma, del diavolo con l'acqua santa. E a questo punto è doveroso dare atto al Fini di una maggiore chiarezza di idee -pur nel male forse insanabile che sta facendo- del suo più o meno tradito Maestro. L'Inquilino di Via della Scrofa, infatti, ha capito che zolfo e incenso non possono stare insieme e così ha deciso per una opzione. Peraltro niente affatto difficile per un incallito misoneista quale è lui. E così è nato il Fisichellum, pasticcio indigeribile di monarchici alla De Maistre, di cattolici cosiddetti tradizionalisti di scuola léfevriana, di odiatori viscerali di tutto ciò che è sinistra, di gente decisa ad assaporare un potere sempre orgogliosamente rifiutato a chi mai si era sognato di offrirglielo, di ultranazionalisti sempre pronti a ricorrere alla protezione degli americani contro un immaginario «pericolo rosso». Il tutto truccato con gli accattivanti colori liberaldemocratici, con la demagogia antistatalista di stampo berlusconiano, con il liberismo selvaggio di reaganiana memoria, con la sparizione di ormai ingombranti ritratti, testi, e dottrine di Mussolini gettati al macero quando non addirittura nelle latrine pubbliche. Un mediocre spettacolo, in fondo, degno non delle Folies-Bergère ma dell'Ambra Jovinelli e di altri eleganti e finissimi locali dello stesso genere.

 

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Sarà il caso, sembra a noi, di gettare uno sguardo sull'elenco delle «relazioni-comunicazioni» e relativi personaggi e interpreti. Di Giano Accame si è già detto; e, pertanto, non ci resta che amichevolmente raccomandargli di non insistere su cose senza capo né coda, che non stanno né in ciclo né in terra, come la cosiddetta «destra sociale», da lui sempre teorizzata con grande finezza intellettuale ma utilizzata dall'ineffabile Gianni Alemanno sia come alibi per coprire il suo tradimento a Rauti dopo averlo sfruttato in tutti i modi per assicurarsi una camera elettorale, sia per rendere un segnalato servigio al Grande Gianfranco, suo nuovo protettore, ovviamente bisognoso, con i tempi che corrono, di una sorta di «copertura a sinistra», per così esprimerci.

Veniamo allora ad un altro relatore di spicco, l'on. prof. Gaetano Rasi, impegnato sul tema «Evoluzione dei princìpi della Carta del Lavoro nel XX secolo». Il Rasi, come forse i lettori ricorderanno, fu da sempre il presidente dell'ISC, ossia dell'Istituto di Studi Corporativi nonché direttore della relativa Rivista di Studi Corporativi. Insomma, il Nostro era l'incarnazione stessa dell'Idea Corporativa (tutto al maiuscolo, sia nel tono declamatorio sia nella scrittura), di cui non si peritava di asseverare la necessità, la insostituibilità, la vera irreversibile rivoluzionaria novità del XX secolo destinata a proiettarsi lungo le arterie del pianeta e, in esso, a dominare sempiternemente cuori, intelletti, istituzioni. Una volta, nel redigere un affocato opuscolo denso di fede giunse perfino ad affermare che il Corporativismo era stato, e ancor più sarebbe stato, il vero Sessantotto dei nostri tempi. Non c'era, insomma, che da attendere.

E noi stiamo ancora attendendo che l'on. prof. Gaetano Rasi si decida a farla questa benedetta Rivoluzione Corporativa. Crediamo, però che attenderemo ancora per un bel pezzo, visto e considerato che nel frattempo l'Istituto di Studi Corporativi ha tirato le cuoia e, con lui, ovviamente, la Rivista di Studi Corporativi. Da quando? Ma da quando, si capisce, il suo leader Gianfranco Fregoli in Berlusconi ha soddisfatto la sua plurilustre aspirazione a tirare i remi in barca, a fare la guardia bianca senza la camicia nera, a fondare un partito conservatore di massa per combattere meglio la Sinistra con il consenso del maggior partito della Sinistra, affascinato da quella insigne pulcinellata del giuramento «antifascista» di Fiuggi tanto estemporaneo quanto disgustoso, tanto degradante quanto pietoso.

Si vuoi dire questo: il Creso di Arcore non è tipo da tollerare rivoluzioni, corporative o meno che siano. E siccome quella parodia del post-fascismo che si è convenuto chiamare Alleanza Nazionale esiste solo in quanto esistono tre televisioni private, quotidiani e periodici, migliaia di miliardi dell'uomo più ricco e arrogante d'Italia, ecco il «rivoluzionario» Rasi alzare le braccia e passare armi e bagagli nelle schiere del già nemico liberista, senza neppure la finzione di una sia pur minima resistenza. Sì, proprio, come l'ammiraglio Pavesi a Pantelleria nell'estate del '43. D'altra parte, siamo giusti, cosa avrebbe potuto fare se Gianfranco Fini, voglioso di passare finalmente sotto un Arcore di Trionfo, si era nel frattempo trasformisticamente trasformato in Gianfranco Fininvest? A quel punto, avrà pensato l'ottimo on. prof. Gaetano Rasi, la rivoluzione, sia pure corporativa, è bene lasciarla fare ai fessi. Lui ha pensato non solo alla Cassa per il Mezzogiorno, del cui Consiglio di Amministrazione fa o faceva parte, ma anche al collegio elettorale e al posto di ministro che sicuramente gli sarebbe spettato nel malaugurato caso che la concentrazione delle destre avesse vinto le elezioni lo scorso anno. Del resto, già Dini lo aveva invitato a far parte del suo governo, ma bastarono i cipigli del Cavaliere e del suo Luogotenente di Via della Scrofa per indurlo ad un più o meno cortese rifiuto. Insomma, il Grande Profeta del Sessantotto in chiave littoria ha ritenuto che la Parigi polista vai bene una messa (in soffitta) corporativa.

 

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Noi, però, non vorremmo davvero privare il cortese Lettore del piacere, tutto intellettuale, di assaporare un sia pur minuscolo brano -non recente, ma neppure remotissimo- di prosa corporativa rasiana, utile, se non altro, per avvertire la distanza separatrice del Rasi targato 1992 dal Rasi che, inforcato ormai il destriero del rinnegamento, gioca al Polo anche se non proprio sul campo romano dell'Acqua Acetosa.

Dunque il Nostro a conclusione di un editoriale della Rivista dal classico titolo "In extremis velocior" dichiara: «Certo anche il movimento corporativo deve anzitutto essere presente per essere determinante (corsivo nel testo, N.d.R.), e quindi impegnarsi fino allo spasimo nella competizione elettorale, ma non deve però compromettere, con cedimenti di sostanza e di immagine che lo si possa collocare entro (corsivo nel testo, N.d.R.) la rissa fra coloro che sono sostanzialmente i sostenitori del vecchio sistema che sta per morire».

Onorevole professor Gaetano Rasi, si metta una mano sulla coscienza: è davvero certo di avere onorato da allora -con la favella, con la penna, soprattutto con i concreti comportamenti politici- gli asserti presenti in modo tanto impegnativo in queste poche righe? A noi, francamente, non pare. E qui le facciamo una specifica accusa di eccezionale incoerenza: nella sua qualità di responsabile della politica economica del Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale alla vigilia del vergognoso congresso di Fiuggi -che un Piero Gobetti, cavaliere senza macchia e senza paura nella battaglia contro la italica perversione del trasformismo opportunistico, non si sarebbe peritato di colpire con gli strali di corrosive requisitorie- contribuì alla stesura del sesquipedale centone pseudo-ideologico della nascente Alleanza Nazionale per la parte che le concerneva e volutamente evitò di adoperare la parola corporativismo, perché ormai sapeva dove soffiava quel vento dal quale intendeva farsi trascinare onde assecondare la sua carriera politica. Così come, del resto, mise al bando la parola socializzazione, insopportabile per la caratura reazionaria del multimiliardario pluritelevisivo proprietario del sedicente Polo delle Libertà.

Ma come ha potuto sbarazzarsi con tanta cinica disinvoltura di una parola facente parte di un trinomio Italia - Repubblica - Socializzazione»- per il quale, a torto o a ragione, fra il '43 e il '45 ebbero a immolarsi decine e decine di migliaia di «ragazzi di Salò», come li definisce il Presidente della Camera Luciano Violante, fra i quali militava anche lei con l'uniforme di Fiamma Bianca, cioè di Avanguardista della Gioventù Italiana del Littorio? Rinnegamento inatteso, questo, anche alla luce di un ulteriore brano del suo summentovato articolo da cui estrapoliamo i seguenti, concettuosi termini: «Non esiste mutamento politico che non sia anche mutamento sociale ed economico. E noi sappiamo che il termine "sociale" non va solo riferito alla "giustizia sociale", ma anche all'adeguatezza degli istituti ad una doverosa società, quale si è andata formando in questo secolo (in questo senso "sociale" e "nazionale" sono sinonimi); così come il termine "economico" si riferisce non solo all'adeguatezza dei mezzi scorsi ai fini alternativi da scegliersi di volta in volta, ma anche al mutamento avvenuto nei rapporti di produzione, dove l'apporto del fattore umano (scientifico, tecnico, organizzativo) è diventato determinante, in maniera superiore al fattore capitale».

Dica la verità, on. Rasi: pensa davvero che questo tipo di musica suonerebbe gradito all'orecchio del fondatore di Forza Silvio e dei suoi sodali? Noi, a vero dire, non ne siamo convinti né punto né poco. Quanto poi al Giovin Signore di Via della Scrofa, come prestargli una sensibilità sociale se dal giornale in cui il suo sponsor Giorgio Almirante incautamente ebbe a rifilarlo al popolo missino ha dedicato la sua vita a cancellare la parola «sociale» dalla targa del partito, infine magnificamente riuscendoci?

 

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Tanto più grave il tradimento rasiano del momento socializzatore della sua esperienza intellettuale, politica ed esistenziale in quanto fino al momento in cui Gianfranco Fregoli non ha coronato la sua opera nefasta accomodandosi da quel perfetto reazionario che è nell'Asse Arcore-Marino, il già presidente dell'Istituto di Studi Corporativi non aveva mancato di cogliere tutte le occasioni offertegli da varie circostanze o celebrative o di ricorrenza storica per sollecitare questo o quel collaboratore della Rivista ad intrattenere i lettori su tematiche e rimembranze inerenti, giustappunto, alla socializzazione. Così, sempre sul numero ospitante l'editoriale "In extremis velocior" ci capita di imbatterci in un bellissimo e documentatissimo saggio dovuto alla penna di Mario Viganò recante il titolo «I comizi di Bombacci sulla socializzazione attraverso la stampa della RSI (1944-1945)».

Neppure Benito Mussolini fu giammai estraneo ai sentimenti, agli interessi culturali, all'impegno di ricerca storica di Gaetano Rasi e del gruppo di scrittori raccolto intorno alla rivista. In vari numeri della quale troviamo la vistosissima pubblicità -una pagina intera- di un volume di Anthony Calateli Landi: "Mussolini e la rivoluzione sociale". La scheda segnaletica di detta opera è formata dalle seguenti parole: «II volume ripercorre la vicenda politica mussoliniana dall'originario socialismo alla Repubblica Sociale Italiana. L'abbandono del concetto di classe, l'assunzione della Nazione come momento fondante del nuovo Stato, l'obiettivo della rivoluzione sociale attraverso la costituzione di uno "stato sociale" rappresentano le tappe del percorso mussoliniano. Emergono nel volume le istanze che nella polemica antiborghese vedevano uno dei veicoli per realizzare i progetti rivoluzionari del regime».

 

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A proposito dell'ardente trasporto del camerata Rasi per la figura storica e umana di Benito Mussolini, la nostra mente corre ad un episodio, minuscolo ma significativo, che ci vede coinvolti. Ci capitò di partecipare ad un dibattito sulle pagine della Rivista di Studi Corporativi di cui non ricordiamo il tema. Trattavasi di un confronto aperto a persone e personalità delle più svariate affiliazioni culturali e partitiche. Quando ci recammo da lui per consegnargli le nostre cartelle ci accolse con la consueta, inappuntabile signorilità che lo distingue, salvo manifestare, sia pur controllati, disagio e contrarietà mentre scorreva il pezzo. Cosa mai poteva essere successo? Quale risentimento potevamo avere provocato nell'ineffabile propugnatore della restaurazione delle Corporazioni a mezzo secolo dalla loro dipartita? Facciamola breve: il fascistissimo Gaetano Rasi non riusciva a mandare giù il peccato mortale da noi commesso scrivendo la parola duce con la minuscola. Ovviamente ben lungi da noi era stata ogni intenzione dileggiatoria. Si era trattato solo di normalissima applicazione di una nostra antica diffidenza verso la retorica e, conseguentemente, verso le maiuscole che ne costituiscono il naturale involucro. Ci affrettammo, dunque, a soddisfare il mussolinismo formalistico del Professore non ancora Onorevole per meriti finiani-berlusconiani, Gaetano Rasi. E va da sé che eravamo distanti un trilione di anni luce dal pensare che l'ex Fiamma Bianca della RSI celasse dentro di lui l'identità del futuro killer ideologico-letterario di Mussolini e del suo sistema corporativo. In noi la diserzione rasiana ha fatto scattare una rimembranza adolescenziale: quella dei Moschettieri del Duce. Erano costoro un reparto specialissimo formato da personaggi autodefinentesi «votati alla morte» -e infatti sulle loro elegantissime uniformi spiccavano un numero imprecisabile di teschi d'argento- che avevano giurato di versare il loro sangue, ove necessario, per difendere il Duce. Ma, ad onta di tutti i teschi e giuramenti, il 25 luglio 1943 i primi a tagliare la corda furono proprio i Moschettieri.

Ecco, Gaetano Rasi è un Moschettiere del Duce degli Anni Novanta. Nessuno gli chiedeva di versare del sangue, ma solo dell'inchiostro. E ha fatto lo gnorri. Anzi, ha colpito il suo Idolo per salvare la sua carriera. E così, da quel calcolatore che è, facendo i suoi calcoli a Fiuggi è diventato anche lui un Fiuggiasco. Così come del resto, si evince dalla lettura del "Secolo d'Italia", organo disorganico della destra organica, diretta dal noto intellettuale democratico e progressista Gennaro Malgieri, teorico della dialettica hegeliana applicata all'aumento di stipendio, della cui figura speriamo di poterci prossimamente occupare.

Enrico Landolfi

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