«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 4 - 31 Luglio 1997

 

Una teoria del totalitarismo per non capire i totalitarismi

 

Per aver tentato di costruire una teoria del totalitarismo di validità generale, Hanna Arendt ha subito nel dopoguerra l'ostracismo di Sartre e dei gauchistes ed ha, invece, trovato un rapido successo nell'America della guerra fredda. Con qualche decennio di ritardo, questa biblicamente escatologica pensatrice ebrea viene santificata dal nostro trasformismo di destra, non solo per aver formulato l'equazione stalinismo-nazismo, ma anche per aver graziato le altre dittature, fra le quali quella di Mussolini e quella di Franco, accantonate nello stesso limbo, appunto in quanto non totalitarie. Fin dall'esordio, la Arendt indica quelli che nel suo convincimento sono gli elementi costitutivi essenziali del totalitarismo: la sostituzione della ideologia alla libertà e l'uso del terrore. Tutte le argomentazioni che seguono sono basate su questo assunto, il quale viene confermato, approfondito e dettagliato, fino a configurare un fenomeno storico senza precedenti e uno schema teorico senza confronti. Ma quanto più l'argomentazione filosofica si fa serrata e ricca di riferimenti classici tanto più ne traspare il timore che ogni concessione ad una indagine più pragmatica, più spregiudicata, più obiettiva possa modificare un giudizio iniziale intoccabile. Anche molte altre tirannie, argomenta la Arendt, anche i giacobini e Pol Pot tagliavano o tagliano tutte le teste possibili, ma il nesso fra la loro ideologia e le loro azioni è meno stretto, l'organizzazione meno capillare, meno sistematica. Bisognerebbe dire, la demonizzazione è meno significativa.

In realtà, l'aspetto più interessante della ricerca della Arendt non sta nelle conclusioni, tutto sommato abbastanza ovvie, bensì nel singolare procedimento grazie al quale a quelle conclusioni essa giunge. Il punto di partenza, la negazione della validità del nesso di causalità nell'analisi storica, ha un evidente intento antideterministico. Essenza della politica è l'inizio, l'innovazione, il mutamento di direzione, e quindi il momento della libertà. Ma, paradossalmente, è proprio su questa affermazione della libertà come costituente essenziale della politica che la Arendt fonda una condanna senza appello. Dai precedenti, afferma, non si possono dedurre conseguenze necessarie, mentre sono i fatti successivi che rivelano il significato di quelli dai quali essi hanno avuto origine. Di primo acchito, non è facile indovinare perché la Arendt insista in tal modo nel discriminare il senso «politicamente corretto» della interpretazione storica. È ovvio che il tentativo di prefigurare il futuro è inane, mentre i risultati finali delle azioni umane colorano e plasmano le proprie origini. Ma è vero anche l'inverso: non si possono comprendere i risultati se non se ne studiano le cause. La storia non si fa con i «se», ma la storia senza «se» non ha significato. Soltanto che i due procedimenti, ascendente o discendente nel concatenamento storico, possono portare a risultati diametralmente opposti. Mentre lo studio delle cause può consentire la giustificazione e quindi la pacificazione, e mentre la denuncia delle provocazioni, delle correità può ridare qualche luce al passato e qualche conforto alle coscienze, l'ingabbiamento dei fatti precedenti nei loro risultati porta al processo alle intenzioni, alla caccia alle streghe, alla damnatio memoriae. Ma poi quali fatti? Quelli che il monopolio della comunicazione ha fissato nell'immaginario delle masse, indiscutibili e irrevocabili.

La Arendt non manca di dichiarare l'esigenza di uno sforzo incessante per afferrare la verità, che ha un volto mutevole. Tanto che in testa al suo libro "La natura del totalitarismo" sta la definizione di Kafka, Ein lebendig wechsendels Gesicht. Avverte il bisogno di vederci chiaro, diffida dell'indottrinamento, che è di natura totalitaria e può essere presente anche nelle società ritenute e definite libere. Ma il suo «Progetto di ricerca sui campi di concentramento» non è mai stato attuato (forse per il venir meno delle promesse fonti di finanziamento). Dunque la comprensione è necessaria, ma non può essere confusa con il perdono.

Né si può attenderne la perfezione per lottare: perciò occorre affidarsi ad una «precomprensione» dettata dalla voce popolare. «La comprensione si fonda sulla conoscenza, e la seconda non può operare senza una comprensione preliminare di natura ancora implicita. Questa sorta di comprensione denuncia il totalitarismo come costituente una tirannide e presuppone che la nostra lotta contro il totalitarismo rappresenti un combattimento per la libertà.» Attenzione -sente il bisogno di avvertire la Arendt-, non facciamoci travolgere dall'intrico delle considerazioni, dall'accumulo dei dati di fatto, dalle statistiche, altrimenti la comprensione non porta ad alcuna conclusione! Vox populi vox dei. Il totalitarismo, polverizza la società distruggendone ogni struttura collettiva indipendente, riduce l'individuo all'isolamento al fine di condizionarlo totalmente. Ipse dixit. La contraddizione è evidente fra questa «precomprensione» che la sovrasta. La posizione che ne risulta è dichiaratamente dottrinale. La storia vi è ignorata.

E il preconcetto affiora anche dal percorso teoretico. La Arendt cita Agostino, quello dell'evangelico compellite eos intrare, che servì al re di Francia per massacrare gli albigesi e così gettare le basi di quello stato e di quella società consolidati nelle proprie leggi e nei propri costumi ai quali doveva ispirarsi la dottrina di Montesquieu. La Arendt segue Montesquieu, il quale costruisce la sua teoria dello stato ben organizzato, equilibrato, democratico, sulla secolare esperienza della monarchia assoluta, senza chiedersi con quali mezzi questa abbia risolto il proprio problema fondamentale, quello di esistere. Nella teoria della separazione dei poteri «la paura» viene espulsa e lasciata in dotazione ai regimi tirannici. Se la Arendt avesse seguito Machiavelli avrebbe capito che il terrore è il mezzo estremo e disperato dei deboli per stabilire il potere, e che il fine è più importante dei mezzi.

Uno schema rigido come quello costruito dalla Arendt non consente di capire alcunché del mondo attuale, denso di totalitarismi, religiosi o mercantili. Per far questo occorre un metro che consenta di distinguere le differenze, di inseguire le diverse origini, soprattutto di scorgere le vie d'uscita. La Arendt ricambiava l'antipatia di Sartre, al quale, non senza ragione preferiva Aron e Camus. Aron non sta nello schema, vede delle differenze e per lui il nazismo è peggiore del comunismo, il punto d'arrivo per il secondo essendo il campo di concentramento e di lavoro mentre per il primo è il campo di sterminio. Allo stesso modo, per altri aspetti si può osservare che il nazismo ha lasciato intatta la struttura economico-produttiva tedesca, tranne il potere centrale di indirizzo, e la stessa società tedesca, tranne un certo livello istituzionale e associativo e che lo stalinismo gran parte del suo totalitarismo non l'ha affatto inventata, ma ereditata dal plurisecolare burocratismo zarista, compreso il gulag. La Arendt deve non aver letto il Dostoevskij delle «Anime morte».

E Aron, per quanto spirito libero e intelletto acuto aveva a disposizione del materiale storico in parte accessibile in parte campo minato. Anche le sette moderne isolano il futuro adepto dal suo ambiente familiare e dal suo lavoro per farne un automa; anche i grandi mercanti internazionali favoriscono le migrazioni e il rimescolio delle razze nell'intento di distruggere le patrie e le famiglie con lo stesso scopo di atomizzare la società e renderla più docile al messaggio mercantile. Eppure, né i mercanti né le sette, che certamente usano metodi totalitari, sono raffrontabili e interpretabili con lo schema nel quale la Arendt vorrebbe rinchiudere il totalitarismo. Schema cristallizzato che non lascia apertura né interstizio per sospettare, per capire nient'altro. Per esempio, quel momento del sorgere, del combattere, del vincere che è l'entusiasmo, l'idea dentro l'ideologia. Momenti nella storia in cui l'assenza di libertà coincide con la libertà totale, come per i greci alle Termopili, come per gli adolescenti della Hitlerjugend alla difesa dei ponti sul Reno, forse anche per i kamikaze integralisti.

Cesare Pettinato

Indice