«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 4 - 31 Luglio 1997

 

Capitalismo: le distinzioni necessarie

 

Sul numero scorso abbiamo cercato di porre riguardo alla necessita di aprire un dialogo a tutto campo sul futuro di un possibile progetto antagonista. Del pari, è stato forse non inopportuno mettere in luce alcuni dei limiti di questa aggettivazione che politicamente e prima ancora dottrinariamente può risultare piuttosto vaga se non puramente suggestiva. Non perché il trend istituzionale del Paese non meriti di trovare sulla sua strada oppositori fermi e motivati: difatti proprio cogliendo i lineamenti del «nemico principale» è d'obbligo attestarsi su una linea fatta di chiarezza e di proponimenti che rappresentino con efficacia quell'alternativa a cui tributiamo il comune impegno. In sostanza, le formule possono essere indovinate, ma le difficoltà vere stanno nell'attribuirvi un contenuto.

È vero -come dice il Carli- che ci sono «ferite che ancora sanguinano». Ma il risentimento, la bruciante sensazione che queste cagionano, alimenta, più che altro, un senso precario delle situazioni e delle origini. Ed un nesso incerto e reticente non può legare i dissensi sparsi se non con breve vita. Al confronto bisogna giungere coprendo una percorrenza per tutti comprensibile.

Ciò premesso, e forse utile aggiungere una annotazione -con ovvi connotati di genericità- sulla contestazione, con la quale stiamo attrezzando la nostra identità, dello status quo capitalistico. Essendo questo il nemico intorno al quale ruotano le ipotesi di lotta mi sento di rilevare che non tutte mi paiono «capacitanti». E cioè in grado di svolgere una funzione critica credibile. La forte opposizione di principio al sistema del libero mercato -che tutti condividiamo- cela una serie di collocazioni morali ed ideologiche che non collimano. Nel fare, a volte, le varie liste dei mali del mondo si è accomunato il declino delle identità, la povertà del Terzo Mondo, la logica dei blocchi. Cose che, tutte insieme, sembrano enumerate apposta per invocare la Redenzione Universale ma che, nel corso dei secoli, ci sono sempre state. Carestie, guerre (anche civili, soprattutto civili), denutrizione: tutti elementi che hanno sempre esercitato il loro triste ruolo nel cammino impervio e contrastato delle Civiltà. Tutti eventi nati ben prima del Capitalismo e che, sotto l'egida delle società «liberali e libere» fanno la loro ricomparsa. A due passi dal confine italiano i Balcani sono esplosi in un'orgia di sangue e distruzione; rammentando con cruda spietatezza le vicissitudini analoghe che quelle terre e quelle genti hanno sempre fatto patire.

Le vaste praterie dell'America del Nord, i massicci impervi del suolo latino-americano, il Continente Nero e quant'altro hanno conosciuto, ben prima del Colonialismo europeo (che non fu solo sterminio di tribù) le divisioni in clan, l'odio, l'efferatezza e la superstizione: che potranno essere stati una condizione bucolica e felice dell'esistenza ed una «modalità di espressione del sacro». Che però hanno comportato dei costi umani brutali ed inesorabili.

Ecco perché il problema dell'attuale fase di sviluppo della società postindustriale si deve materiare nella sua giusta ottica. Non quella di dispensatrice del sommo male ma di condizione patologicamente strutturale che si accompagna alla decadenza di valori spirituali.

Si potrebbe anche obiettare che il modello produttivistico che si sta sperimentando, nel «Nord del Mondo», conduce alla miseria. Da parte mia -e forse sbaglierò- sono più portato a ritenere che la complessità delle risorse tecnologiche e intellettuali dell'establishment capitalistico conduca alla più propizia massimizzazione dei livelli di espansione. Mentre nei contesti meno avanzati si riduce la capacità di essere flessibili il capitalismo ha messo in moto una strategia consolidata di adattamento e cambiamenti congiunturali capaci di trarre profitto (come è sempre purtroppo avvenuto) anche dalla fase di crisi. La caratteristica della «società aperta» -inconcepibile in altro habitat economico- sta proprio qui: nell'essere figlia della moderna potenza tecno-produttiva e nello utilizzare delle formule sull'«Italia che cade a pezzi» o di un «Medioevo prossimo venturo» mi pare di poter sostenere che la «crisi» e la recessione trovino i «lavoratori» ben muniti. Anche psicologicamente le cose, su questo terreno, sono in un certo senso sedimentate: nessuno si sogna di fare la rivoluzione per motivi economici. Ognuno sa che «rende» più l'asservimento al sistema di potere in termini retributivi personali. E questo perché il circuito consumistico garantisce beni voluttuari o necessari destinati ad un nevrotico rinnovo. Il meccanismo abbraccia tutto quanto rientri nel rapporto domanda-offerta.

Il prezzo che comunemente, consapevolmente e cinicamente si paga è la rinuncia alla partecipazione politica. La rinuncia a domandare il retroterra ed il senso della costruzione del Villaggio Globale. I governati non chiedono il conto del declino del loro passato, della perdita delle identità etniche, sociali e culturali. Le garanzie di un processo decisionale allargato sono del tutto inadeguate ed aleatorie. Le forme del mercantilismo azzerano in questo modo le differenze e blandiscono le opposizioni. Ma le linee strategiche ed i metodi impiegati divengono sempre più raffinati, adatti ad aprire la strada verso un futuro ipotecato.

Il Fascismo e le Rivoluzioni nazionali europee tra le due guerre seppero e vollero disgiungere l'idea della Civiltà dalla condizione deviante determinata dall'economia capitalistica. Fu un'impresa che non proclamava princìpi cosmopoliti od umanitari, non guardava a tutti i popoli del globo come ad una società per la fratellanza incondizionata.

L'idea di Socialismo Nazionale percorse le élites dei movimenti totalitari in quanto strumento di elevazione della Comunità-Stato. In un'ottica nella quale l'economia era posta al servizio di un Ordine politico. Nell'oggi chi vuole riprendere quella lotta, secondo me, deve continuare a discernere i due aspetti ontologici del presente. Il primo riguarda la necessità di circoscrivere ponderatamente e profondamente (e qui sta la necessità della «riflessione») i valori e le realtà fondanti di una idea rinnovata di destino comunitario (nazionale ed europeo). Il secondo è riferito, nella sintesi, di percorso inquinato che i nostri popoli hanno compiuto riversando i loro ritmi di crescita in una dimensione economicistica che ben merita la definizione di Totalitarismo implicito. Ma per coniugare le forze di un nuovo «fronte del no» -capace di comprendere un nitido confronto anche con la Sinistra, o con quel che oggi ne resta- è importante ridisegnare le coordinate ed i punti fermi della nostra cultura politica e sociale e, più ancora, della nostra visione del mondo.

In modo da poter dare alla attualità un contributo di idee che non si inchinino al conformismo ed al qualunquismo. Con la massima oggetti-vità e senza concedere nulla agli equivoci.

Roberto Platania

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