«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 5 - 30 Settembre 1997

 

L'insostenibile leggerezza del sessantotto

 

 

 

Sul Sessantotto e dintorni si è scritto di tutto un po', e c'è quindi da considerare che -in ogni caso- si corre il rischio di cadere nelle ripetizioni.

È però altrettanto vero che sugli «anni formidabili» che seguirono a ruota il Maggio francese si sono spesso appuntati tanti fasti celebrativi e poche voci discordi: sicché, alla fine, accanto alle pagine esegetiche non sarebbe male aggiungerne qualcuna che fungesse da contrappeso. Del resto è ben vero che il Sessantotto rimane nell'immaginario della sinistra quel qualcosa per cui anche a destra si ritiene di rivolgere la massima deferenza. Tra i «progressisti» la contestazione è ovviamente rivendicata come esperienza propria e diretta; dall'altra parte viene considerata come l'occasione perduta per eccellenza. Due modi diversi per tributare, insomma, un riconoscimento storico e politico di primo piano. Un riconoscimento intangibile, forse fissato nella scia dei ricordi sacri. Una doppia superstizione.

Arriviamo al punto. Fra le tante tendenze contraddittorie ed incongruenti che la «contestazione» espresse campeggiava, come programma «genetico», un assunto principale: più o meno, la visione di un senso comune da cui conveniva emanciparsi. Su questo dato ruotò il magma culturale e politico di cui la piazza, e certamente non solo quella, si appropriò. Non parliamo -sarebbe troppo facile- dell'impossessamento che da sinistra si fece del fatidico Sessantotto. Ma delle sue ragioni iniziali, dei suoi umori inconsci, di quella voglia di libertà che ancora oggi è lo slogan dei suoi nostalgici.

In quegli anni, da un punto di vista ideologico, si consolidò «il mito di una parte della società che è costitutivamente migliore dell'altra e che non può che apportare bene e felicità» per dirla con Giampiero Mughini ("Compagni addio", Mondadori, 1987), un mito che si attagliava benissimo, in termini di contiguità, alla creatività politica come «valore». Mentre la sua epocalità si riduceva all'assemblearismo autogestito.

È innegabile che una polemica -palese od implicita- fosse e sia ancora alla base della valutazione in positivo delle barricate sessantottine. Sul banco degli imputati sedette allora tutta l'ombra, ma quella sola, degli anni Sessanta. Gli anni, cioè, che dalla ricostruzione condussero i paesi dell'Europa occidentale alla successiva fase del «benessere». Gli anni del «boom» economico, che in Italia avvolsero e trasformarono i preesistenti legami sociali ed introdussero mutamenti profondi, di cui da sempre -possiamo dire- si discute. Difatti, il giudizio favorevole -senza remore o dubbi- che tante volte si esprime sulla contestazione giovanile corrisponde ad una condanna aprioristica ed inappellabile degli anni «mediocri», gli anni della «normalità». È curiosissimo come si sia scritto di tutto e su tutto, della storia culturale dell'ultimo cinquantennio ma sia invece carente, sugli scaffali, una serie di analisi sul clima motivazionale, di costume ed anche politico di quel periodo. Scritti su scritti hanno affollato, a posteriori, i dati sociologici sull'immigrazione Nord-Sud, sui guasti del neocapitalismo, sullo spopolamento delle campagne. Ben poco, pare, ci induce a «ricordare», a rivedere quella Italia che rimane sostanzialmente così vicina e familiare da restare, paradossalmente, anonima ed inedita. Priva di una volontà o di una capacità di autoconoscenza, sprovvista delle condizioni per proiettarsi come passato prossimo. Nonostante i dissidi ed i «furori ideologici» tipici della storiografia a noi vicina abbiamo faticosamente ricostruito, in qualche modo, gli Anni Quaranta. Del decennio successivo riusciamo a rammentare il riavvìo dell'economia, la logica dei blocchi che passava anche sulla nostra condizione di «vinti», il neorealismo. Degli Anni Sessanta, «luogo» del passaggio da un'Italia ad un'altra siamo nella condizione di leggere e capire molto meno.

Fondate sarebbero le motivazioni di chi obbiettasse che di storia, nel significato più «alto» se ne produce poca.

Per questa ragione, tuttavia, costerebbe poco arrestarsi un momento e guardare con meno indifferenza ai prodromi di questo presente, che partirono anche da lì. La serialità, la produzione industriale diffusa, «la cultura dell'elettrodomestico», l'estetica misurata e calma, volutamente «piatta» e che richiamava la «normalità» di una generazione che lavorava e si divertiva in un contesto «socialdemocratico»: fu là che si formò il Paese che ancora oggi si riflette nei fatti e misfatti collettivi. Quella «normalità» serbava però tante cose destinate da sempre a configurare il carattere degli italiani. E serbava anche, da un punto di vista istituzionale, quel che si era ereditato dal Fascismo. Fino ad allora, in effetti, poterono sopravvivere certi valori quotidiani e schiettamente civili che il bieco ventennio aveva, nel bene più che nel male, espresso e forgiato. Valori destinati, nel dopoguerra, ad esprimersi sotto una veste conservatrice e, ammettiamolo, retrodatata e compromissoria. Pur moralmente segnato dal riciclaggio politico quel mondo restava all'orizzonte. Nel Sessantotto si apprestò ad uscire, per tanti versi, dalla scena. Incombeva la Rivoluzione, o la confusione?

Ma è bene aggiungere che chi mosse le fila del rifiuto sessantottino furono i figli di quella quiete. Come Pasolini sosteneva, a lanciare le pietre contro i figli «in divisa» dei contadini erano le creature di una borghesia e comunque di una società blanda ed opulenta che li aveva portati per mano sin lì.

Tutte le possibili teorizzazioni «strategiche» della sinistra, tese a rinsaldare i nessi tra la contestazione giovanile ed «autunno caldo» non riuscirono mai a svincolarsi dalle «contraddizioni di classe» che al loro interno esprimevano. Dalla Sorbona a Trento, dall'antifascismo militante all'antimperialismo terzomondista, il profluvio di parole partiva dal mondo borghese e «familiare» dei «sessanta».

E l'inutilità di quell'ubriacatura non fu solo politica - visti i risultati ancora più allucinanti delle stagioni successive. All'ordinarietà subentrò la sciatteria, al famoso «buonsenso» le cretinate degli agitatori universitari fuoricorso, senza che si evitasse poi la scissione tra sensibilità culturale di massa (che ancora permane sotto il segno del consumismo) e lavoro politico (che condusse all'inutile strage delle migliori energie generazionali negli «anni di piombo»). Da allora la politica è andata per conto proprio. Accusata di ideologismo e di utopia assomiglia sempre più ad una amministrazione di condominio. E viceversa, appunto, la società di ieri si è trasformata nell'affastellato postindustriale degli Anni Novanta. Globalizzato, totalmente secolarizzato, edonistico. E spesso stupido.

Come si fa a non dirsi nemici degli «anni formidabili»?

 

Roberto Platania

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