«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 5 - 30 Settembre 1997

 

appunti di viaggio

 

La strada dei pittori della luce

 

 

Arles (Francia)

In genere, parliamo e scriviamo del nostro Sud, come se fosse l'unico. Invece -è ovvio- ogni nazione ha il suo Mezzogiorno. Quest'anno, finalmente alla ricerca di un altro Sud, di un'altra cultura e, soprattutto, di un altro turismo, mi sono regalato un itinerario nuovo, veramente indimenticabile, che vorrei suggerire ai miei più sensibili lettori, in sincera franchezza.

Il paesaggio provenzale, quello che tra il 1875 ed il 1920 attirò i più grandi pittori di Francia, era un mio antico miraggio; dovete permettermi di riportare, senza tradurre, alcuni apprezzamenti, ben più autorevoli di quelli del pur entusiasta sottoscritto. Per esempio: «Je vais au paysage tous les jours, les motifs son beaux et je passe ainsi mes jours plu agréablement qu'autre part» (Cezanne, septembre 1906)

In verità, è successo anche a me.

I colori tutt'oggi immutati e la da noi inesistente quantità di musei regionali mostravano luoghi resi celebri da un quadro, luoghi di ricerche innovatrici compiute in pieno sole, luoghi divenuti tappe fondamentali della storia della pittura. Tra Provenza, Alpi e Costa Azzurra, tenterò una sommaria rassegna, sospinto da un'affermazione, che si era rivelata semplicemente profetica: «Tout l'avenir de l'art nouveau est dans le Midi» (Van Gogh, 1888)

Il naturalismo stava divenendo impressionismo, ricco di violenza cromatica intrinseca. E giunsero Gauguin, Matisse, Braque a ritrarre luoghi magici, quali SaintTropez o Cassis. Ma -ripeto- bisognerebbe leggere le loro lettere nei testi originali, come «Ce paysci sont des bateaux, des voiles blanches, des barques multicolores. Mais surtout, c'est la lumière» (Derain) Oppure: «J'ai loué une petite maison à l'Estaque, fuste au dessus de la gare... Au soleil couchant, en montant sur les hauteurs, on a le beau panorama du fond de Marseille et les iles, le tout enveloppé sur le soir d'un effet très décoratif ...» (Cezanne all'amico Zola)

 

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Ci troviamo, ora, nel piccolo porto di Martigues, già dipinto da Charles Pellegrin, ma reso famoso dal pittore esule, Félix Ziem, amico dei pescatori; il cui museo, sorto nel 1908, è sistemato e completato in una suggestiva ex-caserma ottocentesca della dogana. Sono stati questi coraggiosi accostamenti a colpirmi; tuttavia l'incontro fondamentale rimane quello con Arles, antica metropoli della Gallia Romana, che oggi è il più grande comune di Francia.

Qui, il 20 febbraio 1888, era giunto da Parigi un artista trentacinquenne, deciso ad attirare in questo sito luminoso una fraterna comunità d'altri pittori, assetati di luce cruda, di neri cipressi, di aguzze montagne, d'un cielo implacabile. Mi riferisco a Vincent Van Gogh (1853-1890), che proprio ad Arles, nello spazio di alcuni mesi, comporrà duecento tele e circa altrettanti disegni e lettere.

È, infatti, l'8 maggio 1889 quando, sfumati i progetti, tanto cari anche a Gauguin, dell'auspicato «Atelier du Midi», Van Gogh lascia la dolce Arles di Mme Ginoux («L'Arlesienne», Musée d'Orsay a Parigi), per l'ospedale di Saint-Rémy, dove la sua follia intermittente gli permetterà di ricavare dalla circostante campagna, che il dottor Peyron gli permette di visitare sotto sorveglianza dei guardiani, opere uniche come «Les Iris». Sto facendo un tipo di turismo culturale, dove le guide hanno cose umane da raccontarti, per niente recitando dotte didascalie impersonali.

Lascio Arles e mi dirigo, ubriaco d'arte e di vita vissuta, verso Avignone. Mi hanno appena raccontato che tutti i quadri, meno uno, donati dal pittore pazzo al proprio medico finirono come bersagli al tiro della carabina d'un giovane ignorante.

Ammiro «la città dei papi», godo il vento Mistral e scopro una Provenza dalle linee essenziali e sobrie, effetto della locale costruzione in roccia, adatta a palazzi-fortezza. Sono giunto nella regione dei paesaggisti «potenti» del tipo di Paul Sàin e di Pierre Grivolas, che i nostri giovani amici del colore dovrebbero conoscere.

 

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Eccoci ad Aixen-Provence. La lezione indiretta continua: «... Ne pas séparer le dessin de la couleur. Ne pas modeler mais moduler. Lorsque la couleur est à la richesse, la forme est à sa plénitude» È ancora Cezanne che c'intrattiene, strada facendo.

Forse per questo mi sento stanco, anche se il caldo è feroce e la luce acceca. Siamo in tempi più vicini a noi. Nel Musée de l'Annonciade, ammiro un «Porto di Saint-Tropez» del 1905 di Albert Marquet e sento Pierre Bonnard che, all'improvviso, mi sussurra: «J'ai eu un coup des Mille et Une nuits: la mer, le murs jaunes, les reflets aussi colorés que les lumières ...»

A quell'epoca Saint-Tropez era una piccola borgata, ma ben presto i pittori della luce la resero conosciuta in tutto il mondo. Basti pensare a Henri Matisse, a Francis Picabia, a Charles Camoin. Il mio insolito turismo continua e, all'improvviso, concede spazio a meno poetiche impressioni. Mi trovo nella Prefettura del Var. Un arco di montagne calcaree ed una baia azzurrissima sono il nuovo paesaggio.

Siamo a Tolone, già porto di transito militare e commerciale, in parte distrutto durante la seconda guerra mondiale, poi ricostruito con intelligenza negli Anni Cinquanta. Anche qui la pittura è di casa, rispettata però come realtà storica e non, come spesso dalle nostre parti avviene, come presenza folkloristica passeggera. Tolone è vicinissima all'Italia; consiglierei una visita al suo Museo delle Belle Arti, per soffermarci, tralasciato oramai l'idillio romantico a vantaggio di più concrete esperienze pittoriche, davanti alle limpide tele di Fréderic Montenard, di Eugène Dauphin, di Louis Nattero e di Frangois Nardi. A proposito: quanti nomi di origine italiana!

Lo so; ho esagerato proprio elencando nomi; ma ne venivano fuori a iosa, di città in città; ed era una festa nuova, alla quale non intendevo rinunciare. Si trattava inoltre d'onorare l'efficienza d'un «Comité Régional de Tourisme», dipendente -questa è l'altra educativa sorpresa, uscita dal mio viaggio consolatorio- da una quanto mai benemerita e mai supposta «Direction de la Qualité de la Vie». Cioè, una Direzione che ogni Civiltà dovrebbe avere.

Lasciatemelo dire: noi siamo specialisti nel creare le più varie e burocratiche Direzioni Generali; eppure, se non sbaglio (ne ringrazio «quei perditempo di pittori asociali», da cui in qualche modo detta qualità derivò, deriva e deriverà) i nostri altrettanto «illuminati (?) specialisti» avrebbero dovuto regalarcela da tempo.

Giusto come questo mio tardivo viaggio, nella vicinissima Provenza.

 

Florio Santini

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