«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 6 - 31 Ottobre 1997

 

Discorso sulla linea di Fausto Bertinotti in omaggio ad un lontano incontro
 

Rosso, rossissimo, quasi azzurro ...
rosso, rossissimo, insomma rosa ...

 

 

Il giorno in cui Rifondazione Comunista ha tolto la fiducia al governo Prodi con un discorso del presidente del gruppo di Montecitorio, Oliviero Diliberto, abbiamo sudato freddo. Perché? Perché abbiamo temuto che Fausto Bertinotti si sputtanasse mettendo la sua onorata firma sotto una operazione destinata, con ogni probabilità, a riconsegnare entro il 1997 l'Italia  e, con essa, la classe lavoratrice italiana- alle destre concentrate nel «Polo» e, magari, perché no?, anche a quelle collocate fino ad oggi fuori di esso. Poi, deo gratias, il pericolo è stato scongiurato dalla sollevazione della stessa base neo-comunista e dai lancinanti, tormentosi dubbi insorti nell'ambito stesso del gruppo dirigente e dei parlamentari rifondazionisti. E così, osiamo credere, quanto meno per un bel gruzzolo di annetti il Cavaliere e il suo degno pupillo Fini alias Fininvest Palazzo Chigi se lo godranno guardandolo col cannocchiale.

Tengasi presente che il buon Fausto è da un bel pezzo ritenuto infausto non solo e non tanto dagli anticomunisti viscerali ma pure, staremmo per dire anzitutto e soprattutto, dai suoi più o meno occasionali compagni di cordata dell'Ulivo nonché dai carissimi nemici del Partito Democratico della Sinistra. Lo giudicano, di volta in volta, «ambiguo», «inaffidabile», «altalenante», «massimalista», «vetero-comunista», «sleale», «scorretto», «astratto» e chi più ne ha più ne metta. Ovvio è che non hanno completamente torto, anche se dobbiamo escludere, almeno fino a prova contraria, la malizia dei suoi comportamenti politici. Gli si addebita, di tanto in tanto, o l'esasperazione artificiosa della concorrenzialità con il PDS, frutto della teoria delle «due sinistre» collegabili ma incomponibili; ovvero la drasticità dell'opposizione al governo Dini, dalla Quercia reputato necessario sotto il profilo tattico per impedire alla destra di riagganciare il potere; oppure la candidatura di disturbo nel Mugello del pidiessino (ora autosospesosi dal partito) Sandro Curzi, scagliato dal «sub-comandante Fausto» -così ironicamente appellato dalla stampa, con riferimento al suo rapporto con il Marcos messicano- contro quella di Di Pietro costruita da Massimo D'Alema. Et coetera, et coetera, et coetera.

Tutti tuttavia avevano finito per ingollare, bon gré mal gré, le varie alzate d'ingegno bertinottiane -ma anche cossuttiane, possiamo ben dire, pur se l'Armando già vessillifero dell'italico filo-sovietismo è più tipo da «compromesso storico» che da scontro frontale di taglio gruppettaro- rassegnati com'erano a dover sopportare questa croce onde fruire dei 35 voti 35 di Montecitorio necessari per far vivere il governo del Professore. Però l'allocuzione del Diliberto, con la quale codesto maturo Saint Just del neocomunismo post-occhettiano faceva pollice verso al primo esperimento governativo con dentro tutta la sinistra -la prima volta dopo l'era ciellenista, cioè mezzo secolo fa- si è scatenato l'uragano. E di proporzioni tali da indurci a ritenere che i vari partners della Falce e Martello -a cominciare dai fratelli separati del vecchio PCI- non soltanto non ne potessero più, ma avessero deciso di regolare una volta per tutte i conti con Bertinotti, Cossutta e Diliberto, la Trimurti di Via del Policlinico, un indirizzo che è tutto un programma, come direbbe un malizioso.

Debito di onestà intellettuale comanda, però, di rilevare che «Lord Fausto» -come lo definisce, quando c'è bonaccia, un settimanale da cui è cordialmente odiato, "L'Espresso", con scontato riferimento al suo look, al suo esprit de finesse, al suo tratto signorile e in apparenza accattivante- non era del tutto dalla parte del torto mentre infuriava il breve ma intenso contenzioso con Prodi e sodali. Infatti il suo partito era stato rigorosamente escluso dalla elaborazione della Finanziaria prima durante e dopo. Gli era solo stato concesso l'altissimo onore di votarla a occhi chiusi e di incamerare senza batter ciglio i fischi e le pernacchie della sua platea elettorale. Che poi la sua reazione sia stata impropria, improvvida, improvvisata è sicuramente vero. Ma questo è un altro discorso.

Insomma: se la crisi si fosse sviluppata sino all'abbattimento del centrosinistra e relativo rischio del Polo a fare il bello e cattivo tempo nei quartieri alti della Repubblica, avremmo così configurato, in estremissima sintesi in chiave cromatica, la situazione di Rifondazione Comunista: rossa, rossissima, quasi azzurra...

Siccome però le cose non sono andate in maniera catastrofica, eccoci ad apportare il seguente emendamento figurativo: rossa, rossissima, quasi rosa.

Quando il siluro neo-comunista scagliato dal gelido e ruvido Diliberto su precisa disposizione del tandem Bertinotti-Cossutta sembrava avere affondato il già governo-amico una volta per tutte, siamo stati dominati dalla tentazione di inviare al «Parolaio Rosso», secondo lo definisce su "L'Espresso" -ebdomadario della sinistra radical-chic- un suo feroce antipatizzante, Giampaolo Pansa, il famoso saggio di Lenin «"Estremismo malattia infantile del comunismo". Naturalmente ne siamo stati impediti dall'ormai storico revirement di Rifondazione Comunista che, con raffinata sprezzatura, ha piroettato in modo tale da trasformare nel giro di un paio di giorni o giù di lì un ministero di «nemici del popolo» in un esecutivo degno di essere supportato anziché sopportato da un partito dove ancora si saluta col pugno chiuso, si accetta la presenza in direzione dei rappresentanti di una minoranza trotzkista (Ferrando, Grisolia, Maltan), si discetta nelle pagine del quotidiano ufficiale "Liberazione" oltre che delle riviste "Rifondazione" e "Il Comunista" di «antagonismo di classe» e si pratica ad abundantiam il più preferito fra gli sport: la caccia all'errore (ideologico-culturale-politico) di parenti più o meno stretti quali "l'Unità" e, addirittura, "Il Manifesto".

Ben ce ne incolse, perché un supplemento di riflessione sui reali dottrinari di un pensiero polemico e, in certo senso, straordinario come quello dell'on. Bertinotti, addizionato all'emergere del ricordo di una lunga conversazione con lui nella sede della CGIL poco prima che trasferisse mani e penati al vertice di R.C. -originata da una intervista di cui eravamo stati incaricati dal mensile socialista "Ragionamenti"- ci aveva resi edotti che ben poco dell'agire bertinottiano era riconducibile a Wladimiro Ilic Ulianov detto Lenin. Di più: anche gli scarni cenni biografici dell'effervescente sindacalista di Novara portavano lontano dal fondatore della Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, elegantemente azzerata nella prima metà degli Anni Novanta da un cinico ubriacone imbecille chiamato Michail Gorbaciov, famoso per aver tentato di democratizzare l'URSS in rapporto sinergico con la destra americana di Reagan e di Bush, per essersi fatto spernacchiare da un'accozzaglia di zaristi insieme all'Ufficio Politico del PCUS durante le manifestazioni per il Primo Maggio sulla Piazza Rossa, per aver ubbidito all'ingiunzione dell'etilista rinnegato Eltsin di abbandonare senza discutere il Cremlino anche se da nessuna consultazione popolare era scaturita una delenda URSS, ossia la decisione di consegnare la Russia e le altre Repubbliche alle multinazionali statunitensi.

Orbene, se si analizzano approfonditamente i dati della strategia bertinottiana non soltanto durante la crisi, ma lungo tutto l'arco dell'impegno nella maggioranza di Prodi e di D'Alema, si perviene alla logica conclusione di una sorta di ritorno di Fausto alle origini. Si tenga presente che la iniziale militanza politica del lider maximo rifondazionista risale alla prima metà degli Anni Sessanta e si svolge nei ranghi del Partito Socialista Italiano dove lo introduce l'on. Vittorio Foa, all'epoca fra i maggiori esponenti della fronda non solo anti-nenniana ma anche anti-autonomista. Nel PSI, però, il compagno Bertinotti si schiera con l'on. Riccardo Lombardi, che impersona una diversificazione interna all'autonomismo orientata a sinistra. La corrente lombardiana, a differenza delle componenti di sinistra capeggiate da Vecchietti e da Basso ostili ad ogni ipotesi di collaborazione con la Democrazia Cristiana e con i partiti laici di centro, accettava viceversa la soluzione governativa di centrosinistra ma ne dava una interpretazione lontana trilioni di anni luce da quelle riformista, socialdemocratica, «occidentale». In che cosa consisteva? In questo: nell'utilizzare il PSI come «elemento di pressione, di contestazione, di lotta programmatica e programmata -come fattore di lotta di classe, potremmo ben dire- all'interno delle maggioranze riformatrici ma moderate per ottenere il massimo possibile lavorando sulle "interpretazioni", con rischi calcolati che giungevano fino a rotture apparenti o momentanee, a crisi pilotate, sempre tuttavia amministrate in modo tale da fermarsi prima del baratro, dell'isolamento e della cacciata nel nullismo di una opposizione senza sbocchi. Una vera e propria danza sull'abisso, dunque, praticata fino al momento in cui operando sui rapporti di forza fra le classi e le formazioni politiche non si creassero le condizioni per una autentica alternativa antagonistica che avviasse la "sinistra di classe", alleata alle aggregazioni più avanzate dell'avanguardia cattolica, al superamento del sistema capitalistico».

Signori, cosa ha fatto, cosa sta facendo, cosa si dispone a fare di difforme dallo schema strategico lombardiano Fausto Bertinotti? Proprio niente, perché, politicamente parlando, egli è rimasto un lombardiano. Anzi, tale definizione ci appare troppo riduttiva, essendo giusto parlare di lui come del creatore di un filone, di una tendenza, di un modo di concepire la sinistra targabile come lombardismo-bertinottismo. E che in lui l'ascendenza lombardiana sia forte e costante è provata da due fatti. Il primo: il recupero alla politica militante di un lombardiano DOC, il cosiddetto «banchiere rosso» Nerio Nesi, ovviamente proveniente dal PSI, oggi autorevolissimo presidente della Commissione Industria della Camera dei Deputati -dove è entrato per la prima volta- oltre che responsabile della politica economica del partito. Il secondo: il notevole rimarco dato alla «questione cattolica», al Papato accentuatamente «sociale» e, per certi versi e in certo senso, addirittura «rivoluzionario», dell'attuale Pontefice (l'anti-comunismo, l'anti-materialismo, l'anti-individualismo; perfino la critica dura al capitalismo, all'idoleggiamento del mercato, al liberismo selvaggio, al produzionismo disumano; il tutto legato al tema della centralità della persona umana e degli «ultimi» che già in questo mondo debbono diventare i «primi»); il superamento dell'anti-religiosità, dell'anti-clericalismo, del degenerare di ciò che è positivamente laico in ciò che è negativamente laicista, intesi quali categorie culturalmente fondanti della sinistra.

Di più: il dispiegarsi pieno delle propensioni catto-massimaliste -adoperiamo il termine in un senso non pregiudizialmente oppugnativo- del rampante Fausto trovano puntuale conferma oltre che in talune sue iniziative dialogiche anche in alcuni suoi lontani e attuali dati biografici. Non c'è festa della stampa di "Rifondazione" nella quale non venga invitato un prelato di accertato spessore intellettuale col quale intrecciare pubblici confronti in un clima di costruttiva cordialità. Bertinotti ha una vera passione per Sua Eminenza Ersilio Tonini con il quale questa estate ha dato vita in Roma, al festival di "Liberazione", a un duetto sicuramente fra i più interessanti e impegnativi su tematiche sociali di grande momento. Certo, ciò non è sufficiente di per sé per ipotizzare nel segretario generale del partito rosso che più rosso non si può un credente. Però se lo si collega a qualche significativo cenno biografico, callidamente messo in evidenza per esempio da "Il Corriere della Sera", come quello relativo al suo matrimonio religioso; e se ci si proietta con la memoria su di una non recentissima intervista con la quale coglieva l'occasione per sottolineare la sua adesione al principio di fedeltà coniugale strettamente correlata ad una rigida morale sessuale, ecco che comincia a prendere sostanza e forma la figura di un leader della sinistra di classe e antagonista collocato nel solco di una densa spiritualità cristiana, di fede, con aperture progressiste, o addirittura rivoluzionarie sul «sociale». Indiscutibilmente un evento storico, benché ai tempi di Enrico Berlinguer si ebbe la sensazione che qualcosa del genere affiorasse nella poliedrica personalità del Number One del PCI.

Chi redige questo scritto è da lunga pezza convinto della artificiosità di una rappresentazione di comodo della figura di Fausto -Faust per i suoi nemici demonizzatori?- che è venuta affermandosi per impulso di operatori dell'informazione i quali, grossolanamente errando, ritengono che l'ampliamento dei livelli di fruizione mediatici dipenda dal massimo grado di banalizzazione che si è in grado di conferire ai fatti e ai personaggi della politica. Ecco quindi nascere sul piccolo schermo e sulla carta stampata un Bertinotti di volta in volta «Lord Fausto» quando si reca in quel di Londra per parlare ai banchieri della City, naturalmente giocando su di un look a nostro giudizio -giudizio di profani in materia- più appariscente e di buona scelta che costoso o, addirittura, raffinato. Ecco, ancora, sorgere negli stessi luoghi vitrei e cartacei l'immagine ironicamente «guerrigliera» del «sub-comandante Fausto», artatamente ritagliata su quella di Marcos, agitatore eponimo di una megasinistra extra-istituzionale messicana, cui il Nostro è stato del tutto arbitrariamente apparentato solo per avergli fatto visita onde recargli una intensa ma astratta solidarietà propria e del suo partito.

No, Fausto Bertinotti è persona personalità personaggio da prendere con le molle ma anche con grande serietà. Sarà pure il «Lord Brummel del movimento operaio», vestirà pure come un baronetto britannico (ma una moglie innamorata e sapiente sa bene come fare del marito un figurino mondano spendendo poco), parlerà pure con l'erre moscia ma, vivaddio, in tutte le occasioni di scontro di cui è stato protagonista, fossero giustificate e razionali o meno, ha sempre dimostrato che di moscio aveva soltanto la erre. Inutile farsi vane illusioni: trattasi di un leader che «esiste» e con il quale, fuori o dentro la maggioranza, tutti dovranno fare i conti.

A cominciare, pur modestissimamente, da noi, che, benché ultima ruota del carro della cultura di sinistra, siamo al tempo stesso in credito e in debito del completamento di un confronto ideologico con Fausto il Rosso iniziato alcuni anni or sono nella sede della CGIL pochi mesi prima che il castigamatti in falce e martello assurgesse ai fasti del summit rifondazionista. Quando era ancora nella cabina di regìa della sinistra cigiellina "Fare sindacato", innervata sulla piattaforma teorica proposta, giustappunto, da un saggio compilato a quattro mani da Fausto Bertinotti e Paolo Lucchese, licenziato alle stampe per battere in breccia la linea moderata di Bruno Trentin, un ingraiano che -o tempora o mores- aveva ormai versato abbastanza acqua nel suo antico vino rosso. Lo avevamo contattato per una intervista su di una pubblicazione riferibile a quanto residuava dell'area socialista. L'uomo era simpatico, disponibile, accattivante, per nulla settario. E a dispetto di ogni pur impressionante apparenza, sentiamo che, mutatis mutandis, non è cambiato. Iniziò il suo dire descrivendo le tappe del suo percorso di militante: sinistra lombardiana del PSI; sinistra del PSIUP con Foa, Libertini e Basso; sinistra ingraiana del PCI; qualche anno nel PDS a far la fronda interna contro Achille Occhetto nel gruppo dei sindacalisti accoliti di Pietro Ingrao; uscita dal PDS con quest'ultimo e arroccamento nella battaglia culturale e congressuale nella CGIL; infine, risposta entusiastica e positiva, ovviamente, all'appello di Armando Cossutta -ormai in rotta con Sergio Garavini praticamente su tutto- che gli consegnava lo scettro del comando, ben sapendo di consuonare pienamente, o quasi, con colui che aveva incoronato. È marxista-leninista, il Fausto? Ci rispose che il pensiero di Lenin e, in modo particolare, quello di Stalin non fanno parte del suo bagaglio ideologico. Quello di Marx sì, invece, soprattutto in una versione nella quale trovano ampi spazi le intuizioni di Rosa Luxembourg -Rosa la Rossa-, la competitrice di Lenin sui temi della democrazia operaia, del primato della masse popolari rispetto al partito, rifiutato nella sua accezione leninista di «aristocrazia» di «rivoluzionari professionali», pedagogo della classe operaia, vocazionalmente destinato a un ruolo di sua guida nelle varie fasi storiche di lotta per l'accesso alla «città futura», di costruzione della società socialista, di espansione a livello planetario della rivoluzione proletaria. Ideologicamente marxista, politicamente lombardiano, Fausto Bertinotti si diffuse molto sull'argomento dei cattolici nella sinistra o alleati della sinistra. Di quella sinistra bicefala -riformista, moderata, di governo, la prima; classista, antagonista, «della società», la seconda- di cui già allora si faceva assertore strenuo, e che, mentre verghiamo questo brano, forma oggetto di polemica al calor bianco con Massimo D'Alema propugnatore della unicità, o anche solo della unità della sinistra, magari fondata su di un rapporto di emulazione fra le culture che ne costituiscono i pilastri, giammai su di una tensione contrappositiva. Ci lasciammo senza approfondire la questione del legame fra prospettiva rivoluzionaria e lievitazione attuativa dei contenuti trasformatori del messaggio cristiano, del Vangelo, dell'Annuncio. Bertinotti aveva altri impegni. Ci ripromettemmo, tuttavia, di rivederci per riparlarne. Non se ne è fatto più niente, o niente ancora. Perché poco tempo dopo il dinamismo bertinottiano proiettò «Lord Fausto» al vertice del partito più rosso d'Italia e, di lì, al dilagare del suo nome nella grande area della mediatica italiana ed estera. Maiora premunt, dunque. Però se avremo occasione di ricolloquiare con l'elegante -elegante anche, soprattutto, nell'eloquio e nella elaborazione concettuale- «sub-comandante Fausto», non mancheremo di fargli presente che, a nostro sommesso avviso, la pluralizzazione della sinistra richiederebbe la sua articolazione non in due bensì in tre branche. La terza dovrebbe offrire connotazioni nazionalpopolari, socializzatrici, autogestionarie, aperturiste verso il popolo post-fascista ingannato e condizionato e strumentalizzato dalla destra economica comunque e dovunque mascherata. Direttore di "Tabularasa permettendo", illustreremo elementi aspetti momenti di questa sinistra nel prossimo numero a coloro che ci fanno l'onore di seguirci nella nostra modesta azione pubblicistica. In attesa di, eventualmente, parlarne con il leader di Rifondazione se, naturalmente, si ricorderà di noi, dei nostri discorsi e vorrà concludere quella remota interlocuzione.

 

Enrico Landolfi

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