«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 6 - 31 Ottobre 1997

 

Attenti a non rifiutare la politica

 

 

 

«Oltre gli schieramenti»: tema affascinante, accattivante; capace di risvegliare entusiasmi e speranze, ma che certamente impone qualche domanda, soprattutto per riflettere su certe cose. Per evitare di cadere nel gorgo delle ambiguità, della confusione in mezzo alla quale tutto si vende e si compra, per non cedere un'identità in cambio del nulla.

Forse si corre il rischio d'esser bruschi ma la ricerca di un «oltre» -a tutti i costi- induce a protendersi verso la declamazione: dialetticamente motivata ma sostanzialmente priva del senso della realtà. Premettiamo un'annotazione. Una cosa è credere nelle proprie idee, comunicarle agli altri e rivendicarle di fonte al cinismo ed all'indifferenza contemporanei. Una cosa diversa è la costruzione, partendo dal dialogo, di una strategia comune, di un'intesa tra alcune forze in campo in vista di una serie di obbiettivi politici. Altro, ancora, è riuscire nella sintesi, di un qualcosa che risulti altro rispetto ad un pregresso impegno.

È intuitivo per tutti non solo che il punto di sutura tra i singoli aspetti dell'azione politica è difficile da trovare, ma anche che queste tre partizioni sono in realtà ontologicamente assai diverse tra loro.

 

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Il punto principale del problema è in fondo qui: andare oltre gli schieramenti è il frutto di un'istanza politica o -forse- è un fattore di ripiego e di rifiuto della politica, un superamento delle sue forme e del suo principio primo, la fattibilità? Un quesito al quale va data una risposta. Il respingere gli «schieramenti» potrebbe infatti, in linea teorica, trovarci anche d'accordo. Magari andrebbe precisato che la logica del sistema maggioritario ci piace poco anche perché poco piacciono i protagonisti più forti dello scontro. Ma andiamo avanti.

Il mio dubbio è che questa contestazione, che è sincera, vada quasi a corrispondere non solo ciò che viviamo oggi, ma con la politica stessa, nelle sue espressioni più late. Con la politica, intendo, non di questo ultimo mezzo secolo, e neanche con quella dei tempi di Cavour o Rattazzi, ma con la sua essenza in quanto concreta dialettica di forze e istituzioni capaci di dare corpo a princìpi superiori. Come tali soggetti ad incontrarsi, in ogni caso, con il piano della contingenza. Un piano che non conferisce alcun premio a chi se ne tira fuori e che non concede possibilità alcuna di essere chiamati a operare fattivamente nella società civile. Non è tanto sull'impossibilità (sulla quale si può evidentemente discutere, chiariamolo) di uscire dalla dicotomia destra-sinistra che si appuntano le ombre, quanto sulla sua ricerca ansiosa. Che sembra nascere non da una presa d'atto dei limiti di schieramento (e si può essere d'accordo) ma da un presupposto inderogabile del quale c'è invece il bisogno di ricevere più d'una spiegazione.

Scendendo nel concreto c'è altresì qualcosa di più che aumenta il carico delle incertezze. Non solo il velo ammaliante del «nuovo» sic et simpliciter.

Sulle possibilità di una comune ascendenza culturale -da tradursi poi in termini operativi- pesano troppe incongruenze. Sul tema della globalizzazione assistiamo ad un'assoluta carenza di punti comuni tra la sinistra ed un progetto antagonista di rifiuto della mondializzazione dei mercati. A sinistra si contesta -se lo si fa- il processo di integrazione forzata tra i popoli non per la perdita delle identità, non per la decostruzione dei tessuti culturali autoctoni ma per le «asimmetrie» ed i «ritardi» con i quali il Terzo e Quarto Mondo sarebbero costretti a partecipare al Mercato interattivo. Altri ancora vanno oltre, auspicando che il Villaggio Globale produca la possibilità di creare identità sociologicamente individualizzate, antipolitiche, post-tayloristiche. Nel Paese, questo riconduce alla fin fine ad un linguaggio esclusivamente antiberlusconiano dove il nemico principale è il contraltare di una «rifondazione della sinistra» dove non c'è spazio per le «sintesi» che all'inizio evocavamo. Lasciare le coordinate originarie non sarebbe dunque una ricerca di compromesso?

Sul giudizio che si dà rispetto al fascismo non è poi il caso di parlare, perché equivarrebbe a far piovere sul bagnato. Da parte di chi scrive permane l'ulteriore postilla del non poter concedere alcunché all'afascismo dei noti «ravveduti»: figuriamoci a chi si attesti dentro una malinconica e ostinata trincea antifascista. Ma non apriamo l'argomento: assomiglierebbe in questo momento, alla solita aria fritta. Che impedirebbe di contarsi. E bisognerebbe farlo, in ogni caso.

E rieccoci alla domanda: il dialogo o la sintesi? Non so se esistano i mezzi della comune storia politica, i tramite emozionali e dialettici per diradare lo scetticismo. È però certo che la discussione rimane aperta; si vedrà, insieme, quanto e come l'opposizione allo status quo che ci lega pur con le diverse sfumature possa collocarsi in una sfera di chiarezza e ricupero del «fare politica». Per ritrovare i «segni» di una nuova stagione di attive proposte. Cariche di significato, spoglie di ogni suggestione priva di approdi.

 

Roberto Platania

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