«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 6 - 31 Ottobre 1997

 

le recensioni

Marco Amerigo Innocenti
"II podere a mezza costa"

Maria Pacini Fazzi Editore

 

Quando a recensire è l'Asino Arpista

 

Finalmente un libro diverso

Diverso, poiché nulla contiene di romanzesco, né di romanzato. Diverso, poiché la nitida prosa del giornalista suo autore mai vezzeggia col pubblico. Diverso, poiché per la prima volta la storia di una discarica diviene fatto emblematico dei nostri giorni; diverso, perché i personaggi di questa possibilissima vicenda sembra di averli incontrati già dalla nostre tutt'altro che letterarie parti. Leggasi: Italia. Marco Amerigo Innocenti, data la sua professione, li ha incontrati e visti da vicino ancora più spesso di noi. Ne escono pertanto ritratti fedeli, con sapienti sottolineature, che rendono queste 194 pagine, piene di cose miseramente umane e giornaliere, alla fin fine altamente educative e riabilitanti, nel quasi patetico finale.

Per esempio: «I più feroci contro l'industriale erano gli ambientalisti» (pag. 14); oppure: «Di pari passo con il successo nel lavoro, la vita di Alfiero era diventata quasi interamente programmata». Purtroppo, per il mio «pezzo», le osservazioni intelligenti sono troppe; l'elenco si farebbe eccessivamente lungo: un autentico saggio di costume. Intorno all'instancabile Marangoni si muovono e si agitano, ognuno secondo le proprie istanze, sempre convincenti (sic!), personaggi maschili di varia estrazione, come Perrotti, Gualtieri, soprattutto Papetti; e di nuovo gli ambientalisti: «L'elemento più preoccupante poteva allora essere la crescita degli ambientalisti. Timore non sufficiente tuttavia ad impedire che sui terreni agricoli di Marangoni, fatti divenire industriali, si aprissero i cantieri destinati alla realizzazione dei capannoni.» Gli ambientalisti -insisto- sono i più simpatici; ma sembrerebbe, con questo suo concedere spazio narrativo a personaggi maschili, esperti nell'intrigo politico-economico, che Marco Amerigo Innocenti, caposervizio della redazione d'un quotidiano in Toscana, necessariamente spettatore di quella realtà effettuale e pragmatica, che non per caso il Machiavelli illustrò così bene, guardandosi in giro, proprio in quelle terre, ritengo meno importante sprecar pagine per figure femminili.

Invece, Vera e Sandra, la segretaria e la moglie, sono personaggi che parlano meno degli uomini, ma convincono ed interessano di più, grazie ad una loro profondità di sentimenti, nonché ad una notevole resistenza nell'essere leali verso chi non sempre le vide e le apprezzò nel loro vero valore.

Eppure, la vicenda narrata può soltanto essere letta; con la dovuta attenzione. Più facile è ricavarne, come nelle parabole, una morale conclusiva. Una morale, che in questo caso non nasconde un amaro cinismo, misto ad un'ironia sostanzialmente onesta nella capacità di ammettere la ferocia del perbenismo di provincia. Riassume bene, quanto sopra, la copertina interna di questo studio d'esterni, com'io vorrei chiamarlo: «... la galera, forse, la gente la perdona, ma la perdita della ricchezza no».

I dialoghi sono tesi, fittissimi, tutt'altro che riempitivi; anche questi, per ricavarne la lezione implicita, devono esser letti con necessaria lentezza.

Da buon relatore professionista Innocenti diffida della retorica e del moralismo; le conclusioni spettano al lettore; egli si limita a narrare, quasi si trattasse d'un banale accadimento di cronaca; e quando l'avventuroso industriale Alfiero Marangoni, individuo letteralmente «fotografato» nella temperie storica, cui siamo abituati, inevitabilmente precipita nel caos delle proprie finanze disastrate e delle proprie idee non più vincenti, egli cede la parola al suddetto, senza alcun commento, ma fa centro nella psicologia di chi perde, cercando alibi e corresponsabili: «Li ho mantenuti, ingrassati per anni e ora mi buttano a mare sperando in questo modo di salvarsi [...] Nessuno mi toglie dalla testa che i primi nemici siano diventati proprio i miei consulenti...» (pag. 133)

E più oltre, quando i colpi contro si fanno proibiti e personali: «Mi avete dissanguato per anni, vi ho fatto ricchi e potenti e ora vi siete messi d'accordo per darmi in pasto ai giudici al posto vostro, vero?».

Ammetto di aver pensato a certi casi, dei quali oggi si parla e si scrive. Al contrario, nessuna allusione; bensì, soltanto il per niente sadico desiderio di mettere in evidenza il mondo com'è, piuttosto che come dovrebbe essere. Bravo Marco; per migliorarlo può bastare la semplice (però coraggiosa!) constatazione. Il coraggio di questo libro diverso sta, infatti, nelle descrizioni oggettive: basti quella del giornalista Podavini, il cui modo di agire non consiste certo nel «rischiare di inimicarsi qualche potente con articoli poco graditi».

Anche la descrizione dell'inchiesta giudiziaria fa pensare stranamente a certe cronache, intricate e cangianti, dei nostri bizantini giorni. Eccovi uno sconcertante passo, che non dà l'impressione, oramai, di leggere un romanzo inteso come tale: «L'avvocato spiegò che, in un caso del genere, sarebbe stato un gioco da ragazzi far diventare Marangoni e gli altri indagati vittime della persecuzione di un giovane magistrato prevenuto e forse etero-diretto ...» (pag. 151)

Nelle ultime pagine, quasi a dimostrare che siano le donne le più forti e le più coerenti nelle difficoltà d'una complicata disgrazia, si ritorna a parlare di loro. Non più di avvocati, né di capannoni invenduti. L'identità reale non proviene da patenti industriali e nemmeno da privilegi sociali. Vera e Sandra rinverdiscono qui l'interesse del lettore, un po' stanco e confuso. Ma, anche nella coscienza di colui ch'era stato una macchina per soldi, finalmente la catarsi albeggia. Questo è il gran merito del libro, un merito quasi inatteso: ripartire da zero non è una colpa. La vita stessa, a mio avviso, consiste nella dialettica del ricominciamento continuo, fatto di rotture inevitabili e di tristi esperienze benefiche. Insomma, un libro a sorpresa, tutto da leggere - ripeto - con lentezza e attenzione, nelle righe e fra le righe. Io ho tentato di farlo, tant'è vero che mi vendico cordialmente della sua non-poesia e del suo antilirismo (Marco è mio amico, mi conosce!), segnalando alla pagina 105 un «sarebbe stato diventato» discutibile assai. Tutto il resto, nel discorso globale, al contrario lo accetto e lo sottoscrivo con stima. L'«abbattere i tempi» di pag. 62, dunque, non conta.

Florio Santini

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