«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 6 - 31 Ottobre 1997

 

l'ultima

 

 

«Ero tra i savi, mi han riportato tra i matti»

 

«Autorità!... au ...to...rità!... e chi gliel'ha data? Gli uomini non possono, Iddio non esiste!».

Giulietto -il Vate del di- com'egli soleva dirsi, ruttava, a pezzi e a bocconi, questa parola magna contro due signori garbati che si erano seduti ad un tavolo, dirimpetto al suo. Gli altri clienti: Ferruccio, il monchino, con le mani mozze, Merendone, con la faccia larga come la luna piena, Valentino Della Tocca, il Vandalo con i baffi a tedesco, Giulio Dell'Antinori, il maniscalco, che aveva preso un cottimo per ferrare le galline del pollaiolo di piazza, Balugano, dalla barba annodata come quella di San Giovanni nel deserto, che ammazzava le giornate a contare i granelli di rena sulla battima del mare, Tono della Bruciata, che fischiava come un serpente arlecchino, il Draghetto, Gambassino Alberto, detto Alberto da Giussano... li avevano salutati con deferente rispetto.

Perché i clienti dell'Infernetto volevano essere rispettati ma rispettavano. Qualcuno di loro, dopo aver bevuto la settima cavalleria, diceva grave: «Su questo non si transige» e accentava la proposizione con un ponce alla fiamma.

Il Vate tendeva il braccio verso di loro, e, con impeto fiero, esclamava: «Gli uomini non possono e Iddio non esiste!»

Il braccio di Giulietto, perso il primiero ardire, cadde afflosciato sul tavolo e la testa, che era eretta, come quella di un galletto marzolo, gli si adagiò lentamente sopra un spalla, e tutto il corpo, aderiva alla spalliera del divano come una vescica smunta.

Ogni tanto si riscuoteva, rimuginava il braccio, che si stecchiva inerte sul tavolo, dimenava la testa, accallava un occhio, tentava di disarticolare la lingua, che gli si era come incollata al palato.

 «Au ...to...ri...tà..., au... to... au... au...»

I signori, seduti al tavolo, dirimpetto a quello di Giulietto, bevvero prestamente, e, uscendo, domandarono con sussiego al padrone: «Chi è costui?»

Il padrone, togliendosi il sigaro di bocca, rispose mortificato: «È un alcolizzato, un maniaco...»

Giulietto si senti trapanare gli orecchi dall'ultima parola, e, tra la bocca e il marmo, brontolò: «Io?! Il Vate del dì! Al maniaco... comio?!... Dove? che hai detto?»

Quando i signori ebbero messo i piedi fuori dell'uscio, il padrone, imbestialito, prese Giulietto per la collottola, come fosse un gatto:

«Ohé... ohé!... sveglia!» e gli batteva la mano di taglio sul collo, come quando ammazzava i conigli.

«Sveglia!... altrimenti c'è il Sifone!»

Il Vate del dì, che temeva più il Sifone di uno schioppo carico a palla, si alzò, stiracchiando le braccia aggranchite, e morse uno sbadiglio.

«Cranio disabitato!» sbuffò al padrone sulla tua fronte dovresti scrivere: «Affittasi!»

 

*   *   *

Ma la mattina dopo, avanti giorno, il Vate Giulietto era lì, acciocchito sul tavolo fuori l'uscio, sotto la canna d'india, coi piedi sul conchino.

Aveva dormito fuori ed i vestiti erano umidi di guazza, il cappello nero, come un fungo prete, gli stava acciuccignato in cima alla testa e gli sgrondava da tutte le parti, i capelli annodati, gli si spiaccicavano sulla fronte, gli occhiali, a dottore, gli calavano sul naso infiammato, rosso come un peperone e scoprivano gli occhi impaniati; la bocca morella s'inumidiva di bava che gli faceva lustrare anche il mento.

Dal puzzo di pesce, che gli era rimasto addosso, si arguiva che Giulietto aveva dormito sulle tavole della pescheria.

Il padrone sfaccendava arcigno e, ad ogni momento, usciva sul marciapiedi, tenendo in una mano il manico della granata e nell'altro un cencio molle.

«Tu stai fuori, eh, moscaio? Sei più leto d'un baston da pollaio!»

«Te -lo investiva torvo il Vate del di- avanti di proferir parola, risciacquati la bocca. Dammi, piuttosto, un altro Cenerone e silenzio perfetto!»

Il Cenerone l'aveva inventato lui, il Vate; recipe: fumetto, grappa, rhum, due dita d'acqua in un bicchiere a calice, e dal fondo saliva un intruglio effervescente simile alla rannata: il Cenerone.

 

Lorenzo Viani
"Gli ubriachi", Vallecchi Editore, Firenze, 1988

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