«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 7 - 31 Dicembre 1997

 

Fini: la sindrome del mal caduco

 

 

«Crediamo che la misura della vitalità d'una razza sia nelle fazioni.
Nel tempio della Concordia cantano gli angioletti, ma il lupo sbadiglia»
Berto Ricci

 

 

Data la sua posizione di vertice, qualcuno potrebbe pensare che il «signorino», covato nella bambagia dei palazzi romani, amorevolmente accudito da «donna» Assunta, abbisogni di una équipe di neuropsichiatri. Riteniamo, invece, sia sufficiente una combriccola di medicastri, briachi fradici, per emettere una semplicissima diagnosi: in Fini c'è l'insorgenza di un disturbo che va sotto il nome di «aura sensoriale». Una malattia che pervade, sovente, chi esagera in protagonismo narcisistico.

Chi ne viene colpito, è sottoposto ad apparizioni di miraggi effimeri. Tali visioni, siano esse semplici o complesse, gli si presentano come teoremi dei quali non riesce a capacitarsi e men che meno ha capacità di risolverli. Psichicamente. Fisicamente, per fortuna, questi attacchi (terra terra: epilessia) si concretizzano nell'incontinenza e gli sfinteri trovano sfogo e sbocco naturale, in linea diretta, nel cervello. Sicché, i poveri malcapitati, sono costretti a ragionare col... didietro.

E non meraviglia più di tanto che a coccolare il Nostro vi siano samaritani che accorrono in suo soccorso - quasi fosse il giudeo della parabola evangelica. Oltre ai giudei veri e propri, che con lui solidarizzano nell'attesa (messianica?) che si decida a farsi finalmente circoncidere onde introdurlo nel «tempio». Per il definitivo tradere, «la consegna dei libri» dei quali si era dichiarato inflessibile e intransigente custode.

Purtuttavia gli siamo grati -e grati soprattutto a chi gli ha trasmesso il morbo del mal caduco- perché ciò ci permette di riconoscerci in quei sacri sentimenti medievali che sono l'ira e l'odio. Che ci rendono ancor più caparbiamente convinti della necessità di spazzare via da questo paese, l'Italia -divino regno dell'imprevisto, questa nazione illogica e miracolosa che non si regge con i libri-mastri-, gli adonizzati d'ogni specie. Chi ha militato in RSI, più volte si è vergognato di non aver lasciato la pelle in quel periodo. Provando imbarazzo nella costrizione di vivere in mezzo ad un popolo ubriaco di discorsi che si muove, imprecando, come una turba della suburra in cerca del padrone. Ma ora ci viene offerta la possibilità di riscatto. C'è aria di cadavere, aria di disfatta che ammorba. Volteggiano i corvi. Abbiamo finalmente uno scopo per la nostra ancor breve vita: sollevare il vento della rivolta. Far conoscere a quel 30% di giovani (sondaggio CIRM) che ignorano l'esistenza della RSI, ciò che essa fu: una passione giovanile da tragedia. Lo sconfinato amore di adolescenti per un'Italia che si vedevano sfuggire dalle mani; un'Italia che i loro padri avevano costruito forgiandola nella fucina dei valori; un'Italia in cui le leggi non erano affidate ai tribunali, ma alla parola d'onore ed alla stretta di mano. Adolescenti che sapevano di offrirsi in sacrificio, avendo però la certezza che il loro olocausto non sarebbe stato vano; che quelli cui lasciavano il testimone ne avrebbero mantenuto il ricordo e su quelle orme si sarebbero incamminati. Invece sono caduti nell'oblio di chi, in loro nome e carpendo la buonafede dei familiari superstiti, ha fatto le proprie fortune. E dalla poltrona in cui è assiso, emette giudizi sprezzanti.

Per il tanto amore che quegli adolescenti a noi donarono, chi resta ha il dovere di fertilizzare l'odio e, su quello stesso terreno (nel MSI ieri, AN oggi) che ha per lungo tempo assolcato credendo di coltivare le radici, mietere la zizzania, isterilirlo. Inutile colloquiare con chi, per arrivismo (il più delle volte senescente) o per la bramosia di conservare «il posto» (i cosiddetti «destr'asociali» - termine coniato da Rasputin, collaboratore di "Tabularasa" per definire gli ex-ragazzi di bottega, oggi «colonnelli») lucra sulle sofferenze, indugia sugli equivoci, si abbevera del sangue versato e finge di piangere. Riducendo l'estremo sacrificio degli adolescenti della RSI a momento di gaia incoscienza. Costoro, i «destr'asociali», sono i peggiori. Meglio, mille volte meglio il rapporto di amore-odio, «possibile» con i tradizionali nemici (purché non democristiani), piuttosto che sopportare la vicinanza di vigliacchi della peggior specie che non sanno usare neppure il pugnale, dacché, la loro arma preferita, è il bilioso espettorato. È meschinità umanizzata invocante un tiranno che sappia prendere il popolo per la gola e mutarlo a forza. Lì sta la differenza tra noi e loro. Noi abbiamo l'inquietudine del cuore, della giovialità, della fantasia. Avidi di avvenire, disposti a tutto rischiare ed a lottare affinché, la nostra sofferenza, renda più rigogliose le radici che i giovani della RSI piantarono.

E sia chiaro: con gli «anini» non è possibile andare a bere o a cena, se non per aprire il coltello ed imbastire liti da osteria.

a.c.

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