«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 7 - 31 Dicembre 1997

 

Al suono della "Vie en rose", Pinuccio al posto di Marx

Albeggia sul nuovo. «millennio» il socialismo tatarelliano


 

L'on. Giuliano Urbani, alto dignitario montecitoriale di Forza Silvio, così si esprime sul socialismo nel corso, nel corpo, di una intervista rilasciata a Paola Di Caro per "Il Corriere della Sera" a proposito del ridicolo comportamento del partito-azienda nel corso del dibattito parlamentare sul decreto IVA, durante il quale, more solito, aveva minacciato sfracelli per quindi consentire alla maggioranza di centrosinistra di avere tranquillamente partita vinta dando soluzione di continuità all'ostruzionismo di un giorno prima della scadenza obbligatoriamente fissata. Dice ben poco urbanamente l'Urbani: «Ora il minimo che possiamo fare è dare visibilità alla nostra battaglia. Perché è proprio su questi temi che emerge la grande differenza tra un'idea socialista, come la loro, e una liberale, come la nostra. Noi siamo per l'eliminazione degli sprechi, loro vanno avanti a colpi di tasse».

Ora, bisogna sapere che l'Urbani è considerato uno delle teste forti, pensanti, del partito berlusconiano, una «testa d'uovo», come dicono gli americani, anche se, nel suo stesso ambiente qualcuno azzarda la tesi che sia una testa di qualche altra cosa. E anche noi saremmo tentati di crederlo -ma restiamo impavidi, nonostante qualche rischio di cedimento- perché un giudizio men che severo è impossibile quando un vero o presunto intellettuale si mette a raccontare che il socialismo altro non è che un insieme di tasse e di sprechi. Di più: che quello di Romano Prodi è un governo socialista, anche se è infognato fino ai capelli nelle privatizzazioni -ossia nella dilatazione praticamente illimitata del sistema capitalistico- e nelle sue file fanno il bello e il cattivo tempo noti sovversivi classici che rispondono ai nomi di Lamberto Dini, di Antonio Maccanico, di Beniamino Andreatta, di Tiziano Treu, di Augusto Fantozzi, dello stesso Romano Prodi et similia.

 

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Ma noi, a dire il vero, dei vari Urbani e delle varie guardie bianche in camicia azzurra raccattati dal Cavaliere nelle zone grigie della cultura e subcultura del Bel Paese non interessa né punto né poco. Queste annotazioni, infatti, attengono innanzitutto e soprattutto a una inopinata iniziativa assunta da un esponente di livello di Alleanza Nazionale, il beneamato Pinuccio Tatarella, sempre in vena di novità, di peculiarità, di sorprese anche se poi, arrivati alla verifica, non di rado tutto si risolve in fantasmagorie, in bolle di sapone, in nirvana, in miraggi, in fate morgane. La qual cosa non esclude necessariamente, la buona fede di colui che all'epoca della breve comparsata del governo Berlusconi venne definito, più o meno appropriatamente, «ministro dell'armonia». Non cattiva fede come acclarata intenzione, dunque, ma quanto meno, una notevole leggerezza propositiva, è da sospettare nella novella alzata d'ingegno pinucciana sulla quale ci accingiamo a riferire. E la suspicione nostra ha, di certo, un fondamento reale se il ricordo si volge a un relativamente recente passato. Come non rammentare, infatti, che il Nostro, fra il '93 e il '94, ritenne di poter mobilitare i magni spiriti di Giuseppe Di Vittorio e di Gaetano Salvemini -magari in omaggio alla pugliesità, pur molto generica e differenziata, che ad essi li univa- per benedire il trasferimento con armi (poche) e bagagli (molti) dell'allora MSI-DN dal campo di un fascismo inequivocabilmente interpretato a destra alla cosiddetta «area democratica»? E per presentarsi con qualche credibilità a Fiuggi, dove Gianfranco Fini aveva dato appuntamento al suo partito per imbastire quella autentica pulcinellata del giuramento «antifascista»?

Come però gli osservatori più attenti delle cose politiche e simil-politiche della penisola rammentano, il buon Tatarella non tardò a onestamente restituire ai loro capi le venerate immagini dei due antichi animatori del movimento operaio e democratico cui la Puglia aveva dato i natali e fama internazionale per, più modestamente, ripiegare sul sindaco di Taranto, Cito, e sul di lui degno successore alla sindacatura tarantina, finito giorni or sono nelle patrie galere mentre il suo illustre protettore sembrerebbe ormai a distanza ravvicinata dal non ambito traguardo. Con codesti poco incoraggianti e non troppo brillanti precedenti, pare a noi che non sia davvero il caso di accordare troppa fidanza alla recente, singolarissima performance tatarellesca. Di cosa mai si tratta? Ecco: questo callido ma non algido personaggio -una vera mente operativa della Destra-, a metà fra Richelieu e Talleyrand, ha deciso di occuparsi a fondo degli affondati e anzi affondatissimi socialisti. Lo ha fatto adoperando una sua rivista mica male, "Millennio - Le ragioni della politica", un numero speciale della quale è dedicato al tema: "Dove vanno i socialisti?".

 

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Per la verità solo una parte della rivista è dedicata al suddetto tema e poche sono le firme di provenienti dallo spazio PSI-PSDI, tutte di craxiani o di chi è politicamente apparentabile all'ex leader residente ad Hammamet che qualche suo seguace, degno di collaborare a un giornale umoristico si è compiaciuto di paragonare, niente popodimeno, a Mazzini. Tuttavia l'impronta tematica è quella detta, l'assunto campeggia nella copertina e vari quotidiani che vanno per la maggiore si sono premurati di segnalare all'inclita e alla guarnigione le nuove pulsioni in rosso del simpatico (davvero, dissensi politici a parte) ras della destra parlamentare.

Gli scrittori di origine socialista -e che magari ritengono di muoversi nel clima del Garofano Rosso e del Sole Nascente di saragattiana ascendenza- sono i seguenti: Gianni Baget Bozzo (che nella sua ennesima ultima incarnazione è stato eurodeputato del PSI bettiniano), Massimo Pini, Emmanuele Emanuele, Luigi Preti, Angelo Sabatini. Quanto a Giorgio Albertazzi e ad Antonio Spinosa si può dire di loro che hanno caratterizzato in non organiche né frequenti apparizioni nelle varie socialdemocrazie garofanate o «soleggiate» un tiepido interesse politico. Tutto considerato, il meglio in termini di socialismo lo ha espresso nelle pagine culturali stricto sensu un non socialista anzi un antisocialista onestamente non mascherato da socialista, il senatore e storico Marcello Staglieno, militante, se ben ricordiamo, nel partito di Berlusconi, autore di un eccellente ancorché discutibile profilo di Andrea Costa. Superfluo aggiungere che, trattandosi di un «socialismo» vagheggiato di taglio «tricolore», non poteva mancare Giano Accame, ormai prezzemolo buono per tutte le minestre variamente e perfino maldestramente arieggianti il «sociale».

Sarà appena il caso di avvertire che ci guarderemo bene dal seguire questi distinti signori nelle loro prose dedicate all'ardua nonché capriolesca dimostrazione della omogeneità del socialismo con la destra, antisocialista per definizione, per vocazione, per destinazione. Del resto, anche volendo, non basterebbe un corposo volume di numerosissime pagine per fargli capire che stanno dando i numeri pretendendo di portare avanti l'operazione che hanno in testa. Se non ci credono, si rivolgano all'on. Tiziana Parenti per farsi ragguagliare sulla fine fatta da lei e dalla lista liberal-socialista che ha avuto la malaccortezza di capeggiare nelle recenti amministrative di Roma.

 

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Noi pertanto limiteremo l'analisi della suggestione tatarellesca all'esame dell'editoriale introduttivo recante il titolo "La questione laico-socialista", che abbiamo scorso con attenzione non disgiunta dalla speranza che essa non costituisca un pretesto per meglio mettere in condizione il padrone di casa di questionare con la Sinistra. Ma prima di penetrare morfologicamente nel tessuto argomentativo dell'ex Vice Presidente del Consiglio, ci punge vaghezza di chiedergli, e di chiederci, come pensa di poter avviare un rapporto dialogico con dei socialisti, fossero pure di matrice craxiana o pretiana, essendo alleato, e strettamente, con un partito come Forza Silvio nel quale albergano -è proprio il caso di usare questo verbo- personaggi come quel Giuliano Urbani sul quale ci siamo venuti testé soffermando, che in materia di socialismo sono usi esternare le sopraccitate coglionerie vietate ai minori di novant'anni. Ciò, ovviamente, a tacer d'altro e d'altri. E ancora: se si sentiva vellicato dall'uzzolo socialista, o laico-socialista che dir (impropriamente) si voglia, come e perché mai non si è preoccupato di arginare a livello ideologico il filo-berlusconismo patologico e galoppante di Gianfranco Fini -sicuramente il leader più reazionario che abbia poggiato i glutei sul Soglio della Destra nonché la propensione a coinvolgere il partito nella perversa spirale delle rozze dottrine del mammasantissima di Arcore, nella ferocia antisociale, cioè, della giungla liberista e privatizzatrice, dove i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri? Giuseppe Tatarella con ogni probabilità non ricorda una lontana cena estiva, all'aperto, in un ristorante romano dove alla stessa tavola sedevano, pacatamente dialogando, socialisti e missini. In quell'occasione il niente affatto cattivo ed anzi accattivante gerarca missino a una nostra precisa domanda rispose che la socializzazione non era per nulla incompatibile con una destra quale quella da lui rappresentata. E, con attitudine di simpatica e costruttiva sfida, soggiunse che la prova del suo asserto non avrebbe tardato a manifestarsi. Stranamente, incontrandolo alla presentazione del nuovo settimanale di Marcello Veneziani, "Lo Stato", abbiamo notato che né il naso gli si era allungato, né le gambe accorciate. Eppure, durante quella remota cena nella Città Eterna la bugia l'aveva detta! E grossa. Che la Provvidenza abbia deciso di accordargli una prova di Appello? A questo mondo nulla è da escludere e, pertanto, restiamo in attesa. Ad onor del vero, senza esagerare in fiducia.

 

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A noi due, presidente Tatarella. E cominciamo con una prima estrapolazione, disvelatrice di qualche buona intenzione affrettatamente coniugata con qualche idea confusa. Dice il Nostro, nell'inaugurare la sua conciliante (apparentemente?) prosa: «Nell'auspicato sistema bipolare perfetto la questione laico-riformista socialista non può essere elusa». Cerchiamo, caro Pinuccio, di non essere artificiosamente riduttivi. Quella che tu definisci troppo approssimativamente «laico-riformista socialista» -noi ci limiteremmo ad usare la parola «socialista», sia perché, oggi, anche un cattolico è messo in condizione di militare nel campo del socialismo, sia perché il termine «riformista», di per sé inappuntabile, è strumentalmente usato da ambienti rinunciatari della sinistra per superare in chiave conservatrice la prospettiva socialista anche a livello di linguaggio- è «questione» ineludibile indipendentemente dal sistema elettorale adottato. È questione, cioè, storica e sociale, giacché attiene alla esigenza di emancipazione piena e di costruzione di una egemonia delle classi lavoratrici. Egemonia, chiariamo, che gramscianamente non significa dominio; ed è alternativa a quella che, più che proporre, vuole imporre il sedicente Polo delle Libertà, vale a dire la primazia, la supremazia anzi, dei cosiddetti «ceti medi produttivi», vulgo capitalismo, che col ceto medio -naturaliter da indurre ad alleanza stretta con le classi lavoratrici- hanno ben poco, diremmo nulla, a che spartire.

Prosegue quindi Tatarella: «Si può invece dire e si deve ragionevolmente sostenere che e nell'Ulivo e nel Polo l'area deve essere vitale e visibile, protagonista e determinante insieme ad altre aree politiche e culturali della storia risorgimentale e post-risorgimentale, alfine di decidere, operare, scegliere insieme. I riformisti-socialisti sono nella stessa situazione di legittimità, di ruolo e di scelta dei cattolici impegnati al centro in politica».

Qui bisogna onestamente dare atto all'esponente di Alleanza Nazionale di esporre le proprie idee esaustivamente ispirato ai canoni della civiltà dialogica, della correttezza democratica, della pacatezza argomentativa. Ma, ciò riconosciuto, non possiamo che notificare al nostro autorevole interlocutore la fragilità della base ragionativa su cui egli poggia la tessitura del suo discorso. Incagliato nel meccanismo mentale della sua esposizione Tatarella finisce per non rendersi conto della impossibilità di una vagheggiata distribuzione dei ruoli che vorrebbe essere oggettiva, «imparziale», frutto di larghe vedute mentre si appalesa, viceversa, totalmente astratta e, dunque, impraticabile.

Ma insomma, come è pensabile l'inserimento di una componente socialista, che non si risolva in un collaborazionismo minore strumentale e spregevole, in uno schieramento il cui partito-guida diffonde, con la scusa della fine delle ideologie, una ideologia pseudo-liberale, raccattata nel liberismo-spazzatura di netta coloritura economicista antipopolare reazionaria che viene in evidenza come una caricatura sia del reaganismo che del tatcherismo, cui pretende seriamente di collegarsi? Un blocco sociale neo-conservatore, aggiungiamo, la cui versione è affidata a una leadership incarnantesi in un personaggio che -a parte ogni altra considerazione relativa ai famigerati conflitti di interesse, a prescindere dalla megalomania di cui dà costantemente e pubblicamente e televisivamente prova illustrandosi come l'ombelico del pianeta- nella esternazione vuoi privata che ufficiale è uso adoperare un linguaggio improntato a violenza politica, a mancanza di rispetto nei confronti sia degli avversari che degli alleati, a odio classista, a spirito maccartista, a irrisione per la politica anche intesa nel senso alto della parola («il teatrino della politica», gli imprenditori operosi contrapposti ai «professionisti della politica», trattati da parassiti e fannulloni), a viscerale avversione e disprezzo per la Sinistra, per il popolo della Sinistra. Il tutto condito con un disperante latitare di cultura politica.

Della irrefutabile attestazione di quanto ora asserito c'è traccia pure nella più recente episodica elettorale. A Roma un sedicente partito socialista filo-berlusconiano costituito da ultras del craxismo e capeggiato dall'ex ministro Gianni De Michelis si è presentato alle elezioni per il Campidoglio con alla testa Tiziana Parenti ottenendo un risultato ridicolo prima ancora che umiliante. A questo fatto, già prima richiamato, ne aggreghiamo un altro: una lista, sempre romana, di socialisti sostenitori di Rutelli che però in sede nazionale si fanno banditori di un centro sinistra esteso fino a Forza Silvio con relativo, cosiddetto «taglio alle ali» non è andata oltre la conquista di un seggio nella Sala Giulio Cesare. Come si vede, la realtà, la verità, dell'agire politico non tollera forzature, pasticci, astrazioni.

 

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Quanto testé detto batte in breccia, in modo irrimediabile, un aspetto della elaborazione tatarelliana pinucciamente consegnato nelle seguenti parole: «C'è cioè la doppia tradizione di un'area vasta riformista-socialista culturalmente e politicamente contraria all'egemonia del PCI prima e del PDS dopo, e contemporaneamente attestata sulla grande riforma e il grande cambiamento!». E ancora, venendo al nocciolo del problema: «Tutto ciò premesso, è possibile nel Polo e soprattutto per "oltre il Polo" avviare un discorso in nome della doppia tradizione per la creazione e l'identità di un'area, mai satellite, che concorra con tutte le altre forze politiche e culturali per elaborare il programma comune da sottoporre in vincolante contratto con gli elettori per la competizione bipolare perfetta tra i due schieramenti? A questo interrogativo noi rispondiamo di sì».

Ed ecco le nostre considerazioni sinteticamente e partitamente esposte:

1) Un'area socialista degna del nome, specie se «vasta», prima ancora di respingere (come è giusto) pretese egemoniche del fu PCI e del PDS, deve rifiutare coinvolgimenti in strategie e tattiche poste in essere da movimenti, come quello polista-berlusconiano, che fanno riferimento a posizioni di egemonia capitalistica, di conservazione sociale, di reazione antipopolare.

2) Non sappiamo cosa intende significare con lo slogan «oltre il Polo» il presidente Tatarella. Quando saremo stati -da lui e da altri- edotti circa il contenuto ambiguo e anche un po' misterioso di codesta indicazione, non mancheremo di pronunciarci. Per ciò che viceversa concerne il Polo, diciamo subito che riteniamo semplicemente assurdo il solo ipotizzare la possibilità per della gente di sinistra come sono, o dovrebbero essere, i socialisti, di costruire un «programma comune» con personaggi come Berlusconi e Fini che fin da prima di nascere vivono non soltanto di anticomunismo, ma anche di antisinistrismo in genere e di antisocialismo in particolare.

3) I socialisti, se ancora non sono una razza estinta, se ancora conservano l'orgoglio della loro identità (da ritrovare totalmente, purché non in chiave rinunciataria) e della loro funzione storica (da rinverdire e rifondare) non possono e non debbono sparpagliarsi in due o più coalizioni grosse per farvi i lillipuziani della politica, ma debbono aggregarsi all'insieme della Sinistra per volgere in essa compiti autonomi. Sulla caratteristica di questi impegni possibili -anche in rapporto al mondo che taluni hanno ritenuto di dover definire «post-fascista- non mancheremo di esprimerci prossimamente nel modo più vasto e approfondito possibile.

 

Enrico Landolfi

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