«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 7 - 31 Dicembre 1997

 

Metafisica della città
 

Nel 2000 un essere umano su due vivrà in città e, da qui a trent'anni, oltre 2 miliardi di individui andranno ad assommarsi all'attuale miliardo (circa) che popola le grandi aree urbane della Terra...

Una simile previsione statistica, che ci proietta al vero nodo epocale, suggerisce a F. Mayor, direttore generale dell'UNESCO, di «affrontare la complessità dei problemi emergenti contando sulle nostre risorse e sulla nostra fantasia [...] Sono convinto -ha dichiarato l'autorevole esponente mondialista- che per venire a capo occorre scommettere sulla città, perché è li, che oggi si trovano le soluzioni. L'odierna concentrazione nella vita urbana di un così gran numero di elementi decisivi fanno, appunto, della città il laboratorio più promettente per costruire assieme il futuro».

È una sfida, quella della città-laboratorio, che non raccolgo. Che vorrei, in verità, poter non raccogliere e tantomeno sperimentare...

Il perché è presto detto.

Mi trovo, nel mio piccolo, ad essere agli antipodi della real filosofia di F. Mayor & Co., da quel loro ottimismo di maniera ed umanitarismo di facciata. Agli antipodi, soprattutto, delle miopi e sfalsate prospettive che il loro Sistema propone/impone a tutti noi appartenenti al genere umano. Basta del resto dare uno sguardo -uno sguardo non abbagliato dalle luci metropolitane- sulle città del Primo Mondo, come pure sui... meno luminosi agglomerati del Terzo o Quarto, per accorgersi che quelle disorganiche realtà, fatte di cemento e lamiera, plastica e rifiuti, non solo nulla hanno a che vedere con la misura della polis classica, o con l'umanistica città ideale di rinascimentale memoria, ma ben poco si trovano a spartire con le stesse conurbazioni sorte e sviluppatesi nel primo periodo dell'età industriale.

In altri termini, gli odierni habitat urbani, dai labili confini, in espansione incontrollata, evocano piuttosto l'immagine di una metastasi senza fine.

O, a voler essere ancor più impietosi, di una fine tout-court: della speranza di una civiltà a misura d'uomo.

 

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Ma la cultura contemporanea è essa in grado di indicare alternative, alternative al processo di urbanizzazione selvaggia?

Ci consentono, la nostra storia e le sue ragioni economiche, soluzioni diverse, più sensate e civili del tribalismo metropolitano di individui, comunità, popoli?!

Si ha motivo per dubitarne. Nel presente ed ancor più nel futuro. Sempreché, per avventura, un qualche imponderabile fattore non dovesse condurre l'uomo a cambiar direzione, facendogli abbandonare la illusoria via dello sviluppo e del progresso, di cui le nostre città di fine millennio sono emblema...

Per dirla con Lombardi Satriano, etnologo, «la città» già oggi «rappresenta un gigantesco labirinto», dove è resa impercettibile la presenza di una «fonte di luce» o di un «filo amoroso» in grado di guidarci «fuori dal definitivo smarrimento». E domani quei 2 miliardi di abitanti in più?

La città, la grande città moderna, che le anime belle (e non) sembrano ritenere humus facendo di idee ed iniziative, straordinario intreccio di creatività e di progresso, si rivela essere -nella realtà quotidiana- una babele di viventi.

Le città contemporanee si configurano, e con sempre maggiore evidenza, dei luoghi anonimi di anonime solitudini, riempite di rumori, di egoismi senza volto, di aggressività senza senso. Luoghi privi di punti di riferimento, che non siano le nicchie individuali o di gruppo dove cercar rifugio dei propri simili e da sé stessi.

Ha scritto Italo Calvino ne "Le città invisibili" che l'inferno è qui tra noi. E che vi sono due modi per uscirne. Il primo, accettando di farne parte, sino ad identificarsi con esso e non vederlo più. È questo l'atteggiamento prevalente fra gli abitatori dell'inferno terrestre. Il secondo modo riguarda, invece, una minoranza di non-assuefatti, ed «esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno». Ma per poter ritrovare questo altro e questo altrove, bisogna prima possedere la propria città interiore. Da erigersi su spazi, fisici ed ideali, aperti a nuovi incontri e a nuove e diverse esperienze. Fermo restando, però, il ritrovamento, alla base di ogni possibile intesa, del comune rifiuto all'omologazione, al conformismo, alla massificazione.

A tali condizioni -assai difficili da realizzare, ed alquanto rischiose, non c'è dubbio- le fiamme di quell'inferno potranno non dannarci, ed avere anzi per noi, per noi antagonisti, effetti vivificanti...

Ciò, se non altro, vuol essere un augurio per quanti seguono (e precedono...) su "Tabularasa"...

Alberto Ostidich

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