«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 7 - 31 Dicembre 1997

 

Tre considerazioni dall'incontro di Novembre


 

Ho avuto l'impressione che il Convegno che abbiamo tenuto ai primi di novembre sia stato particolarmente utile. Innanzi tutto per la sua vivacità. Mi pare che si siano messe naturalmente da parte le considerazioni da salotto, i toni troppo morbidi e le scalette.

Se le asprezze non sono mancate ed hanno così tratteggiato la discussione è emersa, del pari, la chiarezza delle argomentazioni e dei profili critici.

A parere di chi scrive, dalle tesi messe a confronto sono apparsi tre punti più significativi:

1°) la necessità di un passaggio convinto da una fase «apocalittica» ad una di più concreto impegno sui fatti;

2°) il dovere di non sentirsi i «salvatori della patria» o i portatori del Verbo in una società di peccatori;

3°) il bisogno di guardare con attenzione alle ipotesi di lavoro ragionevolmente collocabili nel panorama italiano.

Sul primo aspetto occorre osservare che la «profetizzazione» della politica suona come una moneta che non paga. Aldilà degli sfoghi e delle opzioni morali deve esistere qualcosa di organizzato, qualcosa che trovi una sponda alla quale ancorarsi e sulla quale edificare un'azione durevole.

Non si può mettere da parte la necessità di scendere sul piano delle cose che contano. La lamentela è facile, ma è una voce nel deserto. Ed è facile che, alla fin fine, si consegnino agli «altri» energie importanti, creative e volitive, attratte dalla voglia di incidere, anche un poco, sulla realtà sociale ed istituzionale.

Non solo. Mettiamo in conto che l'aria da penitenza rischia di rimanere un alibi. Le «altre mète» non esprimono le proposte, le competenze, le capacità più durevoli ed efficaci. Assomigliano ad antichi copioni per attori consumati, per teatranti di talento, pur sempre tali.

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Veniamo al secondo punto. Se c'è, in Italia, una moltitudine che ha una solidità quotidiana e sedimentata, questa è rappresentabile nel «sistema». Trasversalmente, in esso nuotano e si muovono correnti e cordate, ispirazioni e piani strategici, ma niente e nessuno discute radicalmente ciò che è o rappresenta. Il famoso bipolarismo imperfetto sta cristallizzandosi sulla base di nuove egemonie. Quelle costituite da un moderatismo che sfugge alle maglie dell'ideologia, che vive il rifiuto di progetti controcorrente, che spende tutto sé stesso nella piena consapevolezza.

Lungi dall'essere una massa di sonnambuli, o spettri usciti da un racconto dell'orrore, gli italiani sanno bene cosa succede, perché il Paese stia scegliendo una strada anziché un'altra, perché in questi cinquanta anni la «nostra» cultura non è diventata governo. Al contrario d'ogni altra diceria, se i dubbi sono esistiti, insieme alle divisioni ed alle prevaricazioni, queste hanno interessato più che altro -anche visivamente- il campo «antagonista» e nazionalpopolare. Altrove, e soprattutto a sinistra, si è perseguito un modello di gestione dello spazio politico in generale ragionato ed attento. Nel nostro campo abbiamo assistito ed assistiamo agli apprezzamenti per il Bertinotti più funambolico, all'irrazionalità che contraddistingue la nascita di «Fronti», «Movimenti» e «laboratori» che durano lo spazio d'un mattino, funestati da litigi, insulti, accuse cervellotiche di «complotti», «finanziamenti occulti» e così via.

Tutto questo non proviene da personali illazioni ma è la realtà come la si può sperimentare da tempo. E dire la verità non vuol dire arrendersi: significa, invece, guardare alle situazioni per quelle che sono, piaccia o no.

 

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Terzo punto... le ipotesi possibili. Dalla discussione sono anche emerse soluzioni, assai remote in termini di vivibilità politica. Creare dal nulla e in territori ostili un vivaio piccolo piccolo è puramente irrealizzabile. Spostare poi il baricentro della opposizione di centrodestra per guerreggiare contro Fini e Berlusconi, quasi fossero il Male per eccellenza, non può essere un obiettivo fungibile: ben poco si raccatterebbe a destra e nulla si aggregherebbe a sinistra. Questo anche perché l'antinomìa tra la nostra cultura -che molto affonda nel terreno della «metapolitica»- non si può caratterizzare in una disfida contro il vertice di AN o contro quello di FI, soggetti contingenti che si sono costituiti per raggiungere tanti scopi, ma nessuno di questi «epocale» o dottrinario. E se si detesta il ruolo di «ruota di scorta», questo rifiuto deve valere per tutti. Destra e sinistra. Polo e governo Prodi. I conti, altrimenti, non tornano.

 

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Rimane, però, un problema di aggregazioni. Vitale. Attuale. Un problema forte della sua improrogabilità. Che deve spingere a confrontarci, e si torna, al tema dominante, con le possibilità offerte dalla congiuntura. Se mi dovessi azzardare a offrire una traccia mi vedrei costretto a poche lineari considerazioni. Non si può far finta che Fiuggi non sia esistita, che la cesura non sia stata compiuta. E neppure si può credere di tornare ai modelli partito-setta (impersonato da certuni) o dal partito-adunata (identificabile in recenti esperienze, con fasci e gagliardetti). Un'intera porzione -maggioritaria- di elettorato predilige l'immagine «nuova» o «moderna» del centrodestra ignorando l'esistenza (malgrado tutto, radicata) di una cultura nazional-rivoluzionaria. Quest'ultima rifiuta, a sua volta, di fare i conti con un rinnovato modo di comunicare, di dare agli altri, di fornire nuove risposte a bisogni inediti (ben

si attagliano le osservazioni di Donnici), si culla nelle beghe e nelle incontinenze. Nessuno è detentore della Verità. In tanti lo dimenticano e la politica diventa quello che è.

Del resto -e bisogna dirlo anche a costo di attirarsi prevedibili incomprensioni- il far politica soli contro tutti è a dir poco rudimentale. Muovere alla guerra, con frasi e scelte a casaccio, solo perché nell'altro si scorge una ovvia diversità senza saper distinguere le distanze non risponde certo a criteri di opportunità o di intelligenza storica. Le cifre, peraltro, parlano più chiaramente di tutti noi. Ammettiamo -facendo un ragionamento privo di riscontri, dato il clima- che tutte le componenti «nazionalpopolari» (o di «destra radicale» o come dir si voglia) decidessero -finalmente- di aggregarsi, tutte, in un soggetto politico: quale incidenza avrebbero, in termini quantitativi, nel tessuto sociale italiano? Il cinque per cento? Quella percentuale che, più o meno, poteva corrispondere al bacino elettorale d'utenza del partito di Almirante? E da lì, il «poi» come andrebbe messo in cantiere?

Perché, per ribadirlo, il nodo gordiano rimane la mancanza del punto di svolta: nessuno ha mai spiegato come si fa a passare da una proposizione minoritaria e marginale, «rivoluzionaria», all'affettazione di un discorso pubblico su ampie basi di

consenso: consenso che deve legittimare l'incidenza di governo e la necessità di disporre dello Stato e dell'Amministrazione.

Ed ancora una volta si attende una replica all'interrogativo, un abbozzo di risposta, una discussione (almeno) sul punto.

 

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Ripetiamoci: dal cinque o dieci per cento come si fa a passare «al potere»? Troppo comodo ignorare la domanda.

Perché è proprio questo passaggio, questo confronto pratico -inflessibilmente pratico- che segna lo svolgersi di una strategia politica ed il consolidarsi di una identità. È esattamente questa crucialità che si pone come la priorità fondamentale, come quel dato per il quale mettersi in gioco ed esporsi. Tutte le parole possono essere belle, ma a contare è chi sa strappare di più alle circostanze, specie quelle avverse.

Per accedere in un circuito di intese, o di «desistenze» (sostantivo che causa forti allergie) ci vuole, è certo, una disponibilità che tutte le parti devono esprimere. Nulla può essere unilaterale. Ed a tale riguardo, specie su queste pagine, sarebbe -ancora- grossolano e facilmente manipolabile poter avanzare delle previsioni. Un ripensamento delle rispettive collocazioni richiede tempo, e forse altri uomini.

Quello che si può fare è, già da oggi, sollevare il tema, eccepire che i vecchi linguaggi sono inadeguati ed in parte svuotati di senso. Ed ecco che bisognerebbe che ognuno intervenisse, ragionando sul cammino da farsi, sui calcoli che bisogna compiere, sull'elaborazione e l'approfondimento delle prospettive. Senza questo contributo, senza questa dimensione, l'«antagonismo» sarebbe, più che «marmellata», una confusa poltiglia.
 

Roberto Platania

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