«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 1 - 28 Febbraio 1998

 

spazio libero

 

Riflessioni a partire dall'incidente aereo USA in Trentino
 

 

Un velivolo americano trancia un cavo portante di una cabinovia, 20 persone vedono spegnersi, in sette secondi di consapevole terrore, le loro vite e con esse i sogni, i progetti, le speranze e tutto ciò che accompagna una vita. Forse una tragica fatalità? Non credo sia lecito ad alcuno -né ai responsabili, pur nelle doverose garanzie di accertamento giudiziario, né alle nostre autorità- parlare di fatalità.

 

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Appena conosciuta la notizia ho subito scritto ai giornali senza molta speranza di essere pubblicato. In queste ore sto anche preparando uno scritto tecnico-politico al Comandante della base americana ed all'Ambasciatore degli Stati Uniti, che sarà estesa ai nostri vertici politici. Non per vezzo, ma perché non credo (per l'incoercibile convinzione di sentirmi un Ufficiale in servizio di questo Stato, per la sicurezza del suo Popolo) che debba essere lasciato senza una  voce dissonante, il coro di protesta solo apparente, il quale sembra piuttosto funzionale alla necessità dei «nostri politici» di «darsi un tono ed un volto di dignità», prima di tornare a collaborare -politici e mass mediologi- alla sfumatura dei toni, all'allungamento dei tempi, alle riflessioni della ragionevolezza politica e geostrategica, fino alla dimenticanza ed all'oblio.

 

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Ha detto spudoratamente Luttwak in una recente «tavola rotonda» che ogni Ufficiale americano o Funzionario di quel Governo quando incontra un corrispettivo italiano sa di trovarsi di fronte a persone meschine ed infide. Scrivo e scriverò allora perché almeno si sappia che, se i nostri «politici» al Governo possono incassare con servile silenzio certe accuse infami per conservare il ruolo di «re clienti» loro elargito dal «dominus», c'è una genìa di persone nel nostro Popolo che non hanno bisogno di cariche e funzioni per rivendicare una assoluta «dignità nazionale» che la nostra Costituzione impone nei rapporti internazionali, esigendo che sempre sia garantita la «parità di condizioni».

 

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La richiesta del Carli di scrivere qualcosa per il suo foglio torna dunque a convincermi, se mai ce ne fosse bisogno (ché l'interruzione della collaborazione è solo dovuta ad un processo rimandato), che gli spiriti liberi non appartengono a nessuno, e neppure allo schieramento ideologico e politico in cui pur si riconoscono in qualche misura. Provo dunque ad offrire, da uomo di «sinistra», un contributo di qualche serietà a questo amico «vecchio fascista, giovane combattente della Repubblica Sociale» ed ai suoi lettori della «destra più destra». Non dimenticando di dire fin da adesso, e nelle conclusioni, che non sto neppure nel coro puerile del «Contro la NATO» o del «Fuori l'Italia dalla NATO». Insomma rimango il solito «cane sciolto», e non sto né con i Rauti, sulla cui «marcia pisana» ho moltissime riserve legate al suo passato di attiva e funzionale collateralità agli interessi stragisti dei Governi USA in Italia, né con Cossutta ed i suoi uomini, né con gli uomini della maggioranza che egli sostiene in Parlamento, la cui ignoranza dei meccanismi politico-diplomatico-militari è sconcertante fino ad apparire sospetta, furbescamente interessata e strumentale.

Cosa è rimasto infatti della indignazione del Manconi di fronte all'Amm. Venturoni, per i fatti di Somalia? Dove sono finite le durissime richieste di scioglimento della Folgore? Scemate fino a spegnersi, come le luci della ribalta sulla quale furono esibite e dichiarate. Avendo così interpretato il proprio ruolo antagonista agli occhi del proprio elettorato, pronti a riattivarsi alla prossima ghiotta occasione massmediologica dove apparire seriosamente intransigenti. Che dire ad esempio della sconcertante interrogazione parlamentare del «verde» Paissan, di cui oggi la stampa riferisce, volta a sollecitare il Ministro della Difesa, perché intervenga al fine di far rientrare sulla base aerea di Pisa, dalla Francia dove si erano trasferiti per i lavori di manutenzione dell'aeroporto pisano, dei velivoli americani adibiti al rifornimento in volo degli aerei impegnati nella missione in Bosnia, cioè degli aerei che decollano da Aviano? Così mentre l'uno invoca l'allontanamento degli americani, l'altro pur del medesimo schieramento politico, invoca il ritorno degli aerei cisterna che, senza i velivoli ad Aviano però, non avrebbero alcun motivo di stazionare su nostre basi militari. Si è forse posto il parlamentare, al di là della svenevole incongruenza, la questione irrisolta della sicurezza della base pisana, ormai immersa nella città e con la Torre Pendente sulla testata pista 22, sicché anche su Pisa pende da anni una tragedia annunciata? Si è forse posto un problema di opportunità per la concomitanza della vicenda del Cermis, o si è affrettato a ritirare una interrogazione che avesse preceduto -pur rimanendo scelleratamente puerile- la tragedia di Trento? No, il nostro parlamentare si è fatto solo voce degli «innocenti» commercianti pisani, categoria socialmente disprezzata dalla sinistra ma particolarmente interessante come serbatoio di voti, i quali lamentavano forti perdite di incassi per la assenza dei contingenti statunitensi!!!

 

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Oggi è comunque ancora il momento dello strazio e delle dichiarazioni di indignazione. A partire da domani però, progressivamente si spegneranno i riflettori dei media e tornerà a scendere il silenzio che abbandonerà ad una solitudine totale il dolore dei familiari. Da domani si comincerà a ricostruire la nuova «Casalecchio»: «Il fatto non costituisce reato».

 

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Perché dovremmo aspettarci qualcosa di diverso per gli americani, infatti, se abbiamo potuto accertare che a Casalecchio venissero rovesciati i ruoli, e le vittime della scuola divenissero, nei fatti, i veri responsabili, per essersi fatti trovare «illecitamente» sulla rotta di un «nostro» velivolo militare? Sembrò dettata da acredine antimilitarista ogni valutazione rigorosa delle responsabilità militari e della vigliaccheria del pilota. Il Governo di questo Paese scelse di utilizzare la Avvocatura di Stato per tutelare piuttosto i carnefici, che non le vittime benché appartenessero anch'esse ad una delle sue Amministrazioni. La nostra Aeronautica oppose, con successo visto l'accoglimento delle sue tesi, che non fossero soggetti né assoggettabili ad alcuna indagine di accertamento né i criteri di addestramento, né quelli di impiego operativo, né quelli di manutenzione. Il Generale responsabile della Sicurezza del volo denunciò sui giornali, senza che alcun ministro ne disponesse la rimozione con infamia, che i piloti aggrediti dalla pubblica opinione si rifiutavano di andare in volo, perché non si sentivano più garantiti. Essi cioè, dopo che uno sciagurato collega aveva causato una strage insensata, pretendevano la garanzia preventiva di una assoluta ed incondizionata impunità, qualsiasi fosse la colpa di cui avessero potuto macchiarsi. Senza di che essi avrebbero rifiutato di assolvere i propri obblighi politici e militari, di cui l'addestramento è parte essenziale.

 

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Verrebbe da chiedersi: cosa avrebbero dovuto allora, e con ben altra ragione e senza avere i medesimi vincoli di obbedienza propri dei militari, tutte le famiglie italiane dopo la aggressione alla garanzia di sicurezza per i loro figli nelle sue strutture scolastiche? E se avessero imposto che essi disertassero aule e lezioni, finché lo Stato non avesse assicurato i loro figlioli da incursioni mortifere e devastanti di aerei militari su edifici civili e scolastici? Si è arrivati invece a negare persino l'obbligo del pilota militare di salvaguardare anzitutto, in caso di avaria, le vite dei cittadini prima di tentare di mettersi in salvo. Ma forse quelle pagine che leggevo da cadetto, quei vincoli di professionalità ancor prima che di fedeltà che andavo stampando dentro di me, sono state strappate perché superate ed inutili. «Il fatto non costituisce reato». Davvero pensiamo che sia possibile che gli americani non giochino su questo precedente, se già non avessero altre armi di pressione, condizionamento e ricatto delle nostre autorità, come ad esempio Ustica?

 

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Fin da ieri sono stati fissati dai rinnovati colpevoli i paletti fondamentali della futura linea difensiva: «Si trattava di voli di esercitazione legalmente svolti, con la autorizzazione delle autorità italiane, per addestrare equipaggi alle missioni di pace in Bosnia». Sono state le parole di un chiarissimo messaggio (benché criptato nella chiave «diplomatico-mafiosa» che da sempre è riservata ai nostri rappresentanti istituzionali dal «dominus» americano) del comandante militare statunitense Peppe, alle nostre autorità. Infatti, al di fuori del ristrettissimo spazio aereo di un aeroporto in gestione americana, ogni minimo movimento nei nostri cieli e sul nostro territorio è vincolato ad autorizzazioni esplicite e rigorose. Quanto poi queste siano rilasciate dalle autorità italiane in perfetta aderenza alla legalità ed alla sicurezza è un dato tuttora verificare. Specie quando la concessione diviene atto di «ossequio» al «dominus». Non dimentichiamo per favore che Cossiga abbia ritenuto di rinunciare -e di confermarlo con sfacciata improntitudine ai Commissari parlamentari- al vincolo della doppia chiave per l'impiego delle armi atomiche. Sicché l'Italia poteva essere trascinata in un conflitto atomico, o in una azione di ritorsione atomica, senza una consapevole scelta del suo Parlamento. Questo ha ricordato Peppe con le sue parole ai nostri rappresentanti politici.

 

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Gli ingredienti per la rinnovazione della impunità ci sono dunque tutti: la nazionalità del velivolo e dell'equipaggio killer (USA, come sigla del padre-padrone del nostro destino); la corresponsabilità, esplicitamente evocata, per le autorizzazioni rilasciate ai sorvoli -in quelle particolari zone ed a quelle specifiche quote- dalle nostre autorità, politiche, amministrative e militari (ben aduse a schernirsi e sottrarsi quando si tratti di rispondere dell'esercizio del potere e non solo di gestirlo, quel potere); la natura umanitaria ed ai fini di pace (anche se gravida di rischi per le nostre popolazioni, come ebbe a dire il Gen. Nardini ad alcuni genitori dei ragazzi di Casalecchio) del necessario addestramento degli equipaggi. Di uomini cioè che, nella abusata retorica dell'eroismo «espongono costantemente a pericolo la propria vita per garantire la nostra sicurezza». Peccato che tanto eroismo affoghi poi nella immediata conseguenza che, vivendo di rischio, essi debbano, vogliano e possano estrinsecare le proprie paure seminando terrore e morte, come cow boys ubriachi al sabato sera. Tutto perfetto come al solito.

 

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Sarà lunga e parolaia, fino allo sfinimento, in una astuta sceneggiata perfettamente studiata, la finta contrapposizione politica sui profili di volo e di addestramento, sulle quote di sorvolo «comunque autorizzate», e realmente autorizzate, da un ministro che oggi nega ma appare così pavido da non aver neppure indagato la segnalazione di una Amministrazione Locale, né preso in considerazione una interrogazione parlamentare. E così sarà anche delle rivendicazioni al diritto di indagine, della «denuncia» della manomissione delle prove iniziata con la scatola nera, toccando tutti i toni ed i tasti di sceneggiate già viste.

 

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Potremmo continuare per ore, prefigurando un processo senza la presenza fisica degli imputati, responsabili materiali della tragedia che da tempo saranno stati sottratti alla giustizia italiana e destinati -con voli «diplomatici» di aerei militari senza la dichiarazione della lista passeggeri- ad altre basi di impiego; senza familiari delle vittime, troppo lontani ed impotenti per reggere lo scontro; ed infine con le luci dei media spostate dal processo sui fatti a quello più importante ed evanescente sulla politica ed i comportamenti del Grande Alleato. Mentre «gravi situazioni internazionali» richiameranno infine ad una «necessaria composizione delle divergenze» e, rimborsati con qualche milione i familiari delle vittime, «imporranno maggiore unità tra i partners della coalizione occidentale». Vedrete, se sarà utile ed opportuno, per calmierare la grande opinione pubblica -senza tuttavia rendere giustizia alle «poche» vittime ed ai loro familiari- si condanneranno in contumacia due avieri americani che non saranno mai estradati alla nostra giurisdizione. Non successe forse così per gli inglesi uccisi dal fuoco «amico» di velivoli ed equipaggi USA nell'Irak, condannati in Gran Bretagna ma mai «consegnati» dagli USA alla Giustizia inglese, né tantomeno sottoposti a processo o pena nel proprio Paese? Pochi coglierebbero forse la strana contraddizione di un Governo che rivendica tenacemente il diritto alla applicazione della pena di morte -anche per i suoi stessi cittadini- come compensazione per i delitti commessi, e spesso rifiutando di indagare le cause originali di quei crimini ed impedendo la presentazione di prove a discarico.

 

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Lo stesso Governo che già oggi invece, e per questa strage oggettivamente consumata, si richiama a ambigue convenzioni per rivendicare il suo quasi esclusivo diritto alla indagine ed al giudizio, ed alla eventuale detenzione per la espiazione di pena. Ma è il medesimo Governo che rifiuta ostinatamente di riconsegnare alla nostra giustizia una donna, la Baraldini, ritenuta colpevole di reati non conclamati ma solo potenziali contro la sicurezza dei cittadini americani. Tutto ciò ci ricorda molto la stagione della grande frontiera quando gli «indiani cattivi» dovevano essere giudicati e puniti dai bianchi «civili»; ma i «bianchi cattivi» non potevano essere giudicati e puniti dai «selvaggi indiani» ma solo dai «bianchi buoni». È un Governo che, alimentato a quella stessa cultura per cui tutti gli altri popoli sono semplicemente degli «indiani selvaggi», persegue ostinatamente le responsabilità «internazionali» di vari personaggi comunque ritenuti criminali, i quali, in sostanza attentano alla «sicurezza ed agli interessi degli Stati Uniti». Così fu anche di Allende, così è stato per il Nicaragua, così è per Castro. Mentre i Pinochet, i Somoza, i Batista, i Papà Doc e via dicendo godevano i favori e le premure di quel Governo, essendo capaci di «rassicurare i mercati» e stabilizzare, in forme funerarie, le condizioni sociali dei loro Paesi ostaggio. Dite, per quale sorta di diritto -se non quello divino o della forza- si pretenderebbe di sottrarre alla Giustizia -e non solo alla nostra- i responsabili accertati della strage consumata sul nostro territorio e contro nostri cittadini ed ospiti, mentre si minacciano da anni ritorsioni militari contro il Governo libico reo, non di sottrarre al processo, ma solo di voler far giudicare da un Tribunale Internazionale, piuttosto che dagli Stati Uniti, i suoi cittadini, presunti responsabili della strage di Loockerbie?

 

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Ai nostri Rappresentanti istituzionali non si chiede una analisi altrettanto feroce; ma almeno si richiederebbe una maggiore dignità. Non si può dire, secondo le frasi virgolettate e non smentite riportate dalla stampa, che «non faremo confusione con altre tragedie», e al tempo stesso che pretendiamo «il rispetto dei nostri diritti. Non avremo un'altra Ustica». Se non è un contro messaggio mafioso, ci dica il Presidente del Consiglio cosa volesse intendere. Forse che ad Ustica furono violati i nostri diritti dagli stessi autori del crimine odierno, senza che i nostri Governi rivendicassero a qualsiasi costo Verità e Giustizia? Oppure, in risposta alla minaccia di Peppe di esibire le autorizzazioni italiane ai sorvoli su quei territori ed a quelle quote, si voleva suggerire che è bene trattare sottobanco una qualche «soluzione reciprocamente onorevole» prima di cominciare a cambiarsi palate di merda?

 

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La tragedia della cabinovia sarà comunque una volta ancora, una volta di più, una tragica fatalità. Perché sorprenderci? Gli americani in questo non c'entrano! Viviamo in un Paese che accetta come fatalità che possano bruciare vivi, alle soglie del Duemila, 140 cittadini, passeggeri di un traghetto, praticamente sul bagnasciuga del litorale di Livorno. Che accetta come tragica fatalità l'omicidio, camuffato da suicidio o disgrazia, del giovane pisano Leonardini alla leva militare a Roma. Che accetta come fatalità che il dissesto idrogeologico determinato dalla depredazione del territorio e dalla corruzione istituzionale che lo accompagna comporti ogni anno, per poche ore di pioggia, alluvioni micidiali con morti e distruzioni. Che accetta come fatalità che muoiano 38 cadetti della Accademia di Livorno, il loro accompagnatore ed un equipaggio di aviatori in un volo di ambientamento nei cieli di casa. Che ha cercato di spacciare come fatalità, in uno scenario di guerra e violenze civili, la esecuzione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Che ha sentenziato essere stata una tragica fatalità la morte di Marcucci e Lorenzini, negando di valutare ogni evidenza che potesse prefigurare quelle morti come una scientifica eliminazione. Che ha sentenziato essere una tragica fatalità lo scempio di Casalecchio. Che si appresta a chiudere come tragica fatalità l'abbattimento del DC9 di Ustica, il quale si sarebbe trovato - inopinatamente, come ogni altra vittima di ciascuna delle tragedie ricordate - al centro di una battaglia aerea ingaggiata per «la sicurezza dei cittadini». E quella battaglia per la sicurezza, proprio in quanto tale, deve essere mantenuta nel rigido velo della ostinata «riservatezza» e della impunibilità, per ragione di Stato!

 

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Quella ragione di Stato in nome della quale il Sottosegretario alla Difesa on. Massimo Brutti, esponente di spicco della «Sinistra storica», in perfetta consonanza di idee con il Presidente della Commissione Parlamentare di Controllo sui Servizi Segreti, on. Frattini, esponente di spicco della «Destra di AN», ritiene che si debba garantire da parte del Governo «la legittimazione delle illegalità necessarie ai Servizi per assolvere i propri compiti (fino al delitto, se pur come estrema ratio, lo incalzava il Generale francese Lacoste)». E che ritiene si debba spingere tale garanzia governativa fino a prevedere per i Parlamentari che venissero meno alla riservatezza, e superando i limiti costituzionali che si opporrebbero a tale previsione «la decadenza dal mandato parlamentare» (ma non era un mandato intoccabile, in quanto affidato alla esclusiva e libera espressione della sovranità popolare?!). Così risulta essersi pronunciato il viceMinistro in settembre, in una «tavola rotonda» tra esperti internazionali dei servizi segreti svoltasi a Forte Braschi, come riportata, benché fosse «riservata», dalla Rivista "Limes", 3, 1997. Cossiga ha dunque fatto scuola come bieco ed impunito attentatore della nostra Carta Costituzionale! Ma non abbiamo più capacità di indignazione, volontà di scelta, politica ma anche di Società Civile, per ribellarci e rinnegare e rifiutare un simile ed infame destino di sudditanza.

 

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Dobbiamo dunque abituarci alla fatalità? Dobbiamo riconoscere finalmente questo nostro storico ed ineludibile destino? E dunque deve essere accettato come «fatale» che ogni crimine commesso, anche colposamente, nelle FF.AA. e dalle FF.AA., e comunque da funzionari dello Stato «non costituisce reato», perché sovrano sia divenuto il Potere, e non più il Popolo? Qui, come in Somalia, allora, deve accettarsi che «chi muore giace e chi vive si dia pace»? Ciascuno faccia come crede, ma non dimentichiamo che «fatale» fu anche «l'ora delle scelte irrevocabili» che ci precipitarono in una guerra sciagurata al fianco dei nazisti. Noi, io almeno, saremo da un'altra parte, su un altro fronte, a combattere ancora per una battaglia di dignità, senza guardare in faccia nessuno, e tanto meno la tessera che ciascuno abbia in tasca. Certi uomini politici, d'altra parte, fossero anche Ministri degli Esteri o della Difesa, basta guardarli o ascoltarli per «vedere» compassi e squadre incisi sulla loro fronte e nei loro cuori, e riconoscere la acquiescenza dovuta dal «fratello» alle disposizioni del più grande ed illuminato Maestro. Ciascuno dunque riceverà il frutto di ciò che avrà seminato, ma questo Popolo dovrebbe davvero finirla di piangersi addosso quando viene colpito e umiliato, finirla di aspettare salvezza da improbabili uomini e Governi della Provvidenza, per prendere in mano il proprio destino e vincere il proprio riscatto.

 

Mario Ciancarella

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