«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 1 - 28 Febbraio 1998

 

Note sparse per il nuovo anno

 

 

 

L'anno che si apre chiama, com'è d'uso, alla «vita nuova». I suoi esordi ricalcano però tempi inquietanti che stanno attraversando l'orizzonte delle società più avanzate. Un filo conduttore è costituito dal progressivo consolidarsi della globalizzazione dei mercati. La liberalizzazione su scala planetaria dei comparti produttivi è stata sancita dai più vari trattati e convenzioni che hanno aperto - in punto di fatto e di diritto - tutte quelle barriere che inibivano l'instaurazione di meccanismi economici e finanziari destinati ad essere enormi ed incalcolabili. Era quello che, con una intuizione che forse poteva apparire esagerata, si era definito - e lo si fa tuttora - «mondialismo». Questo particolare termine, anticipato sulle colonne di periodici «nazionalpopolari» ignorati dalla «cultura ufficiale», ha oggi una pregnanza incontestata ed è di larga diffusione. Con esso si identifica una corrente di pensiero ed una serie di centri di potere che sono al centro di una strategia di controllo e sviluppo delle economie transnazionali e di più assi privilegiati tra le sponde dei continenti.

Parlarne non è fare della dietrologia a buon mercato o del complottismo spicciolo: l'apparato logico che sostiene questo assetto è caratterizzato da una egemonia culturale che non lesina né spazio né mezzi.

Ogni pubblicazione, anche quotidiana, destina uno scorcio consistente di pagine al «marketing», all'«auditing», al «management». È il segno di un'attenzione originata da certi interessi economici sempre più diffusi. È anche una moda, intendiamoci; che fa sentire meno «out» chi partecipa molto marginalmente, con piccole attività professionali o solo da utente, a questo grande paesaggio finanziario e tecnologico. Ma si sa, le realtà -sempre in crescendo- si costruiscono con le mode, con il costume, con l'immagine. E, pian piano, la superficie tempera e consolida la sostanza.

Addirittura, si paragonano le strategie industriali e le tecniche di investimento ad una sorta di manualistica di guerra. «Attacco», «analisi dei rischi», «obiettivi da conquistare» sono infatti locuzioni che rimandano ad una mentalità bellica. Non sono solo consonanze, c'è un'identità di fondo. Lord McAlpine, «treasurer» conservatore britannico si segnala ad esempio per un saggio che rivisita Machiavelli, proponendolo come modello nelle gestioni economico-manageriali. Ce ne parla "Il Sole-24 Ore" del 3 gennaio scorso recensendo ("The New Machiavelli Renaissance Real Politic for Modern Managers", 1997).

A questo punto si può facilmente parafrasare, in qualche modo, il "Vom Kriege" di Von Clausewitz, considerando l'economia come il campo in cui si continua la guerra con altri mezzi. Ad insegnarcelo sono i teorici del «libero» scambio, appunto. E così avanti, verso il prossimo Millennio.

 

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Tempi inquietanti, annotavamo in premessa. Nel senso che la deriva alla quale destinano i sudditi rappresenta un fattore generale con cui porsi ad una debita distanza. Con capacità di analisi, ma anche riuscendo a sacrificare ideologismi e vagheggiamenti.

D'altra parte, il progetto primario a cui è opportuno legarsi si fonda sulla necessità di affermare un principio di sovranità; che deve rimanere un principio politico forte, anzi il principio.

Per rispondere alla sfida lanciata nel crepuscolo di questo secolo, rimane certamente a metà strada un bivio. Quello da cui si dipartono due sentieri che Weber, già nel 1918, aveva messo in evidenza: nell'agire politico fanno da sfondo un'etica della responsabilità ed un'etica della convinzione.

Nel primo paradigma si evidenziano le conseguenze determinate dall'opzione politica. Nel secondo è centrale l'intenzione, la motivazione morale che ha dato il via all'azione posta in essere.

Un dilemma che potrebbe sintetizzarsi anche -forse volgarmente- nella scelta tra «fare il possibile» ed il fare (aldilà di ogni raggiungimento) quanto è nella necessità dettata al nostro spirito. Sono due modi di servire un'idea, che si rapportano però assai diversamente con la versatilità a definirsi politici. Nel concretizzare un modus esclusivamente morale, fatto di buone intenzioni si rischia un'aberratio delicti: si determina un evento diverso da quello voluto, essendo del tutto privo un legame strumentale, una discriminazione strategica -e quindi «tecnica- che riguardi il dopo.

 

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La volontaria e deliberata ignoranza del «dopo», dell'esito che cessa di essere un «valore» è sospesa a metà strada tra «impegno» e «divertissement», tra contemplazione del gesto -perpetuamente estemporaneo, o quasi- e passatempo, come un alito leggero e lontano.

Non si tratta di processare i buoni propositi e neanche le speranze. Si deve solo discutere, per capire. E per agire e costruire, dandosi una forma.

Su un certo solco si inserisce il bell'articolo di Ostidich sulla "Metafisica della città" che, a parere di chi scrive, ben meriterebbe di essere approfondito dal suo Autore, specie nella rappresentazione della «città interiore» come risalto di una tensione ideale (e quindi politica?) capace di mobilitare le coscienze. L'idea di un centro di riferimento che si ponga sopra il labirinto metropolitano, al di fuori del dedalo della modernità è estremamente interessante, e non solo nelle sue valenze sociologiche, quanto per quelle simboliche e culturali. Che possono costituire una possibile e decisa replica ai processi di globalizzazione che ricordavamo. Certo, non ci si può opporre all'omologazione ed alla massificazione senza considerare che questi condensano i frutti delle società di massa se non delle società in quanto tali. Le dimensioni contemporanee che caratterizzano i movimenti sociali nascono dalle basi gettate nel secolo scorso, con l'avvento dei nuovi mezzi di comunicazione e con la crescita dei potenziali produttivi. Negli Anni Trenta gli stessi governi fascisti o filo-fascisti (oltre alle democrazie liberali, che poi erano sistemi politici «forti» ed autoritari, ed alla Russia dei Soviet) diedero consistente spinta all'allineamento sociale ed estetico dei governati. Lo Stato era lo Stato, e non per nulla la critica libertaria alle attuali democrazie post-industriali le accredita come le eredi di quella fase storico-sociale.

Il tema prioritario sta, in una distinzione a monte dei fattori profondi che danno sostanza ad un Paese, alla storia a venire, al suo sviluppo ed al suo ruolo. I «valori» risiedevano e risiedono nelle minoranze, nella consapevolezza espressa dalla leadership, sia essa «liberal» o «antagonista», di sinistra o di destra. Il resto è moda, «appiattimento» o -meglio ancora- adattamento. Così come è stato Oltrecortina, così come fu nell'Italia di ieri, così come è oggi: il centro delle idee è animato dai pochi. E dal centro alle periferie sociali ed economiche tutto si scolorisce e si svaluta, di norma. La coscienza democratica -vissuta per davvero- appartiene a pochi idealisti; e così la coscienza antidemocratica. Così il Fascismo, così l'antifascismo se rettamente e sinceramente avvertiti nel proprio animo.

Se questo è un castigo, o la realtà effettuale che va presa com'è, potremmo osservarlo nelle prossime occasioni.

Roberto Platania

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