Anno VII - n° 1 - 28 Febbraio 1998
le Recensioni
Florio Santini
un libro confessione, un libro mosaico, un libro itinerario, un libro sincero: questo è Santini
Da quando pubblicò "L'Asino arpista", Florio Santini, il solitario del Castello di Casamassella in Terra d'Otranto, d'originalità letterarie ce n'ha donate più d'una. Tutto quello che rimaneva alla sua libresca trasgressività, era il far sortire un romanzo, sulla cui ultima pagina fosse chiaramente impresso: «Finito di stampare il 24 gennaio 1998 ecc. ecc. », come per legge. In altre parole, l'ex-operatore culturale giramondo ha voluto togliersi una soddisfazione ulteriore, quella di veder pubblicare la propria autobiografia proprio nel giorno del settantacinquesimo compleanno. Sì; perché «E trovai lo spirito del mondo» (Mario Congedo Editore) è in definitiva un complesso diario, vissuto tutto in prima persona, anche se non v'è differenza tra lo stile dell'Autore e le cose che narra e, soprattutto, visse di continuo bilanciato, con grande mestiere, tra sogno e realtà. Infatti, si possono rivedere e correggere i ricordi? Ma questa volta, v'è del nuovo: Santini non aveva mai scritto della sua fanciullezza, né della gioventù stessa. Lo avevamo sempre trovato già «in carriera» che per lui significò viaggio, a descrivere usi e costumi, panorami e popoli; mai, intento a «sognare all'indietro» quei momenti di vita ai quali non aveva dato importanza, in quanto borghesemente normali. Ci sembra di poter dire che il personaggio Santini padre, è un vero e proprio inedito assoluto. Ora, non è più solo; ha riscoperto valori antichi: come la famiglia. La sua attenzione sembra essersi spostata dalla natura all'uomo; migliorando, in quanto capace di affetti e non soltanto di voglia del nuovo, del mai visto, né pensato prima. Questa volta, la chiave di lettura onirica lo fa piacere di più che quando seguiva il suo Shelley, contro Giove. Ritornano l'Africa, il Medio Oriente e l'Asia, quelli che Santini chiamò «paesi dell'anima»; e le descrizioni s'intrecciano, come del resto gli stessi pensieri; ma tutto è sognato, lungo un interminabile sogno volontario, il cui scopo è quello di risolvere in un dolce «pianissimo», come certe sinfonie che avevano iniziato con gran fracasso. L'allegoria è semplice: il nostro vero traguardo di aspiranti titani è la dolcezza, figlia del vero amore; nient'altro che la dolcezza, unico veicolo di pace. Ci sembra che, in questo libro d'un Santini che tiene a bada con successo il male di cui tanto si parla, sia inopinatamente riemerso l'antico professore di filosofia e storia, che aveva in Socrate, «pesce torpedine», il suo diuturno consigliere. Una lettura difficile si trasforma in lezione facile... In effetti, la «scossa» non manca e ci sentiamo migliori. Basterà leggere (tra le righe) qualche poesia, se non lo stesso utile glossario, di questo romanzo «composito», per non sapere più (nemmeno noi), se viviamo all'interno d'un sortilegio, capace di rendere volontario il sonno, pur di non vedere quanto accade intorno ai presunti esseri civili. Santini non è mai stanco; dai Paesi più lontani ritorna dove amò l'unica donna della sua vita, la madre, dagli occhi pieni di lacrime. A Lucca si rifornisce di affetti, a Lucca è felice con i figli «belli, intelligenti e sani»; ma deve ripartire. In un castello del profondo Sud lo attende «Piccola Nuvola» (SiouWan), lo attendono i suoi Terranova, lo attendono quei mille oggetti (ch'egli chiama «feticci»), venuti con lui da tanto lontano, per coesistere, per convivere in una specie d'«armonia discorde», bruniana traccia residua di eroici furori, che, oramai acquietati, cantano tutti insieme la gloria umana dello Spirito del Mondo.
(nota di Redazione) |