«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 2 - 30 Aprile 1998

 

Gianni, l'antiamericano

 

 

A Gianni Benvenuti la retorica non piaceva. Era di poche parole, non solo per una certa innata pigrizia, quanto per un che di timidezza e discrezione nascoste tra le pieghe del carattere schivo. Quasi uno stile di vita che mi provo a rispettare, mentre raccatto alla meno peggio qualche scarno pensiero, tra i tanti che si affastellano nella mente. Non è facile, con la commozione che ancora t'assale; con i volti, gli sguardi, le immagini... i silenzi di quei giorni, che non riesci a cacciare via. Eppure, con quel suo modo fanciullesco di esprimere concetti impegnativi, dando per scontato che li avresti compresi, Gianni usava dire che una Comunità «rivoluzionaria», quale quella cui era fiero di appartenere, non può fermarsi a inseguire sentimenti ed emozioni se non per un attimo. Poi deve rimettersi in marcia, andare avanti.

Mi sono chiesto, in queste settimane, cosa resti della sua testimonianza, del suo insegnamento, cercando al di là delle virtù, pur preziose e rare, di cui era abbondantemente dotato: la lealtà, il coraggio, la coerenza, lo stile.

Qualcosa di meno personale e più «politico»: come un messaggio profondo, la traccia di un sentiero. Me lo sono chiesto e, a modo mio, una risposta l'ho trovata. Ciascuno di noi, militando nella stessa formazione politica o, semplicemente, avendo comuni riferimenti culturali ha condiviso e condivide con il gruppo diverse aree importanti ed essenziali della vita: gli ideali, le lotte, i «nemici», gli amici, le tante storie che si sono intrecciate, o soltanto sfiorate, gli anni della giovinezza, qualche volta quelli dell'adolescenza, le passioni, le speranze, le delusioni, i sogni. Tutti aspetti che, da soli, danno significato e valore ad una scelta; sufficienti a comprendere il perché si stia da una parte o dall'altra; in questa trincea piuttosto che in quella. Tuttavia, rispetto a tanti altri suoi camerati, Gianni era così poco assimilabile. Sacrificava al partito, come pochi, tempo, risorse, affetti, ma non la sfera più autentica della sua personalità: la vocazione a trasgredire, ad andare controcorrente. Era contro il sistema, le sue regole, i suoi compromessi, le insopportabili mediazioni più per una condizione psicologica che per una scelta ideologica e dottrinaria. Più d'istinto che con la ragione.

Quante volte gli ho sentito ripetere che se gli fosse capitato di vivere durante gli anni del Regime fascista si sarebbe ritrovato sui monti col fucile in spalla?

Stava nel suo «branco» ma era un lupo solitario. Cercava animali come lui, di altre razze e «colori», vagheggiando ibridi connubi. Aveva, in definitiva, qualcosa di diverso e di più, che per molto tempo, nel suo ambiente chiuso, arroccato, l'ha fatto passare per un insopportabile eretico. Intanto un'avversione antica e sempre nuova per tutto ciò che sapeva di «destra», poi e soprattutto il disprezzo rabbioso per tutto ciò che era americano.

Perché, a ben vedere, l'America non era un luogo fisico, geografico, ma una categoria negativa dello spirito. Era la palude, l'omologazione, il grande supermercato, i disvalori, i falsi miti. Era il fast food, l'hot dog, gli intrugli maleodoranti emergenti da plastiche variopinte. Era la fame nel mondo, i bambini massacrati, lo sfruttamento, le multinazionali, la Borsa, gli usurai. Era le nuove tecnologie, la scienza che voltava le spalle all'etica. Era il nuovo, stramaledetto, ordine mondiale, il gendarme planetario, la globalizzazione. Era l'Europa che non riusciva più a scuotersi, a ritrovarsi, la politica che non c'era più, la distruzione della memoria, la fine della storia. Ed essendo tutto questo, ovvero la negazione dell'uomo e della vita, l'America era dunque il «nemico principale» per combattere il quale Gianni avrebbe stretto patti col diavolo. Figurarsi con i reduci del comunismo, per di più sconfitti ed umiliati. Il rosso e il nero, l'antico sogno che tornava, l'utopia fascinosa. Basterebbe scorrere i suoi scritti per cogliervi queste coordinate strategiche, questi aspetti ontologici, veri e propri «istinti primordiali».

In questa concezione della vita e del mondo, decisamente nel solco dell'eredità del Fascismo rivoluzionario, nazionalpopolare e socializzatore, egli è rimasto aderente a quella scuola di pensiero, a quella tradizione tutta toscana, che da Berto Ricci arriva a Beppe Niccolai e dentro la quale oramai si iscrive a pieno titolo la sua vicenda politica ed umana. Che aggiungere, ancora? A dispetto della lontananza che rendeva, purtroppo, rare le frequentazioni, credo di poter affermare di averlo conosciuto in profondità. Non sarebbe altrimenti possibile condividere tante scelte impegnative, difficili, «impopolari».

Soprattutto, la sfida di Tabularasa! Ripenso spesso allo stato d'animo di quei giorni quando, insieme agli altri spiriti «ribelli», spronati da Antonio Carli, abbiamo rotto gli argini e gli indugi, stanchi di pregiudizi e tabù, di vecchi itinerari, di stupidi orpelli: determinati ad andare oltre.

... No! non mi riesce proprio di convincermi che sia stata una banale coincidenza! Non può essere un caso che Gianni Benvenuti se ne sia andato improvvisamente via dopo la manifestazione di Pisa contro la NATO: a missione compiuta.

Anche perché, commentando quella manifestazione, ha scritto di pugno su un biglietto: «avanti così». Ricordo una vecchia saga nibelungica nella quale si racconta di una nonna intenta a rassicurare il nipotino che le ha appena domandato dove sia finito il suo papà. La nonna alza lo sguardo sereno e, indicando col dito un pugno di stelle, dice: «Ecco, tuo padre è lassù, nelle grotte degli antichi guerrieri coi capelli di rame e con gli occhi di cielo. Dorme, perché adesso è il tempo della pace».

Finché non verrà anche per noi quel tempo, andremo avanti così. Perché quella battaglia è da sempre la nostra. Non è finita e non è persa ancora.

 

Beniamino Donnici

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