«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 2 - 30 Aprile 1998

 

Quel Fiuggi Fiuggi dalla storia di Gianfranco Fini
Da Verona a Verona passando per Arcore

 

"Il Corriere della Sera", in costante vocazione per il pilotaggio di ogni operazione politica di grosso spessore verso le placide ripe del moderatismo, saluta il dì 27 febbraio l'inaugurazione in quel di Verona del meeting della Coccinella con un editoriale di Paolo Franchi.

L'avvio della prosa franchiana è assolutamente sconcertante: «Chissà se Gianfranco Fini, quando l'ha scelta come sede della conferenza programmatica di AN, si è soffermato a riflettere sul ruolo che Verona ha avuto nel fascismo di Salò». Trattasi, certo, di domanda retorica, o, almeno, vogliamo crederlo. Perché se così non fosse il dott. Franchi ci costringerebbe a credere che l'on. Fini non è, poi, quel genio della politica di cui si favoleggia, al punto di considerarlo candidabile addirittura al Quirinale, bensì uno scolaretto qualsiasi che ignora perfino il ruolo avuto dalla città scaligera nella breve, tormentata ma significativa vicenda della Repubblica Sociale Italiana.

La verità è che il Giovin Signore di Via della Scrofa sa tutto della Verona politica targata '43-'44, se non altro perché le buone letture si sono in lui accompagnate al magistero del suo monitore mentore e aio nonché amatissimo -almeno così dice- Capo, Giorgio Almirante, il quale sicuramente non mancò agli storici appuntamenti della RSI nei luoghi che videro gli amori di Giulietta e Romeo. Egli, allora, da quell'autentico Premio Nobel del cinismo che è, ha eletto Verona capitale «programmatica» di Alleanza Nazionale per una provocazione repugnante e riprovevole anzitutto, paradossalmente, verso sé stesso, e, forse, magari inconsciamente, verso il suo Benefattore, sommamente criticabile per il confusionismo della sua linea -connotata dalla insostenibile commistione del discorso della destra con il retaggio rivoluzionario della RSI, o, quanto meno, della sua prevalente componente creativa-, però irreprensibile relativamente alla esigenza morale di evitare che il necessario, fecondo, patriottico superamento dei propri migliori ideali e, soprattutto, dei tantissimi «ragazzi di Salò», per usare la definizione del presidente della Camera, Luciano Violante, che per essi avevano generosamente immolato la vita.

La provocazione -nell'accezione negativa del termine, ovviamente- di Gianfranco Fini è condensabile nel seguente concetto: «Vedete che non vi inganno quando dico che sono veramente cambiato? Qui oltre mezzo secolo fa nacque la socializzazione, ora io, che per lascito storico, avrei avuto il dovere di esserne il tutore, il garante, l'apostolo, il mallevadore e chi più ne ha più ne metta, invece di assolvere a questa missione, con la faccia tosta che mi ritrovo vengo proprio a Verona a fare il tutore, il garante, l'apostolo, il mallevadore della valanga di miliardi, delle tre TV commerciali, della Standa, delle ville hollywoodiane alle Bermude e sulla Costa Smeralda e ad Arcore del falso liberale e autentico maccartista, ultraliberista e reazionario Silvio Berlusconi, linciatore morale dei magistrati che lo hanno imputato di questo e di quello. E per ciò fare ho messo la mordacchia alla umbratile "destra sociale" della rivista "Area", ho ridotto al silenzio noti intellettuali autosconfitti, ho brillantemente concluso la campagna acquisti con rautiani anticapitalisti e nazionalpopolari nonché con certuni corporativisti rivoluzionari e con sindacalisti della ex-CISNAL naufragati nel ridicolo per essersi schierati con la destra dopo aver preteso di fare la concorrenza alla CGIL. da posizioni bertinottiane. E adesso, sposata fino in fondo, per così esprimermi, la piattaforma mega-laburista e furiosamente privatizzatrice della Confindustria e del Cavaliere Azzurro, fattomi legittimare da Massimo D'Alema, entusiasticamente abbracciate le riforme istituzionali ma non quelle sociali che continuano allegramente a latitare sia nel mio programma che in quello della sinistra, eccomi pronto per nuovi esami di riparazione antifascisti. Non è forse vero che ho abolito la socializzazione nella cultura di Alleanza Nazionale così come nel '45 il Comitato di Liberazione dell'Alta Italia la abolì nella decretazione della RSI dopo averne congruamente sabotato l'applicazione nelle aziende?»

 

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Il leader della destra ha spiegato la scelta di Verona con il disegno di contestare la Lega in chiave di italianità proprio nella città eletta da Bossi a capitale della fantomatica Padania. Evidentemente la supponenza di Fini è tale da indurlo a ritenere tutti coloro che possono vantare una qualche dimestichezza con la carta stampata una manica di imbecilli. È infatti noto lippis et tonsoribus che nella fantasia malata del senatùr la città-madre della Padania non è Verona bensì Mantova, sede di un sedicente parlamento o addirittura di un governo «verde» o di qualcosa del genere. Dov'è, allora, la sfida nazionale al secessionismo rampante?

No, Fini non ha inteso sfidare Bossi, bensì Mussolini, Bombacci, Silvestri, Spinelli, Tarchi, Manunta e, soprattutto quelle migliaia e migliaia di «ragazzi di Salò» -ragazzi, magari, con parecchi e svariati lustri alle spalle- che non si erano arruolati sotto le insegne della Repubblica Sociale Italiana solo per romanticamente «cercare la bella morte», ma anche per contribuire alla realizzazione di quella rivoluzione sociale sempre promessa sempre ribadita sempre rinviata e che, finalmente, e sia pure in articulo mortis, Mussolini sembrava deciso a porre in essere con la socializzazione incastonata nello «Stato Nazionale del Lavoro» espresso da una Costituente pluralista nella quale, unitamente ai vari partiti, sarebbero stati attivamente rappresentati i soldati semplici, gli operai, i contadini.

 

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Paolo Franchi, sempre nel suo fondo e non senza una qualche poco innocente malizia, ricorda più ai coccinellari e al loro amato capo che ai lettori del "Corsera" quanto segue: «Qui sono stati processati e giustiziati Galeazzo Ciano e gli altri "traditori del 25 luglio" nelle mani dei repubblichini. Qui si è svolto il primo e unico congresso del Partito fascista repubblicano. Qui ha visto la luce quella "Carta di Verona" che è il principale documento del disperato tentativo di ritorno alle origini socialisteggianti del fascismo morente e, non a caso, il manifesto ideologico cui si è ispirato nel dopoguerra il Movimento Sociale Italiano. Per il MSI, di cui Fini è stato l'ultimo segretario, quel processo, quel congresso, quella Carta hanno rappresentato più che dei ricordi».

Due eventi, dunque, richiama il dott. Franchi. Per quel che riguarda il primo, potremmo anche comprendere il revirement finiano. L'autore di queste note, naturalmente, esterna un parere del tutto personale, essendo un uomo di sinistra, della Sinistra, fortemente impegnato, e da sempre, sul tema, sul terreno, della «non violenza» e della polemica non solo contro la pena di morte ma pure contro la carcerazione, quando non si tratti di pericolosità sociale attuale e provata del condannato. Quindi nulla quaestio, per quel che direttamente ci riguarda, ripetiamo, per il riluttare di Fini e dei suoi amici e sodali a quella Verona del processo intentato a coloro che avevano dato la maggioranza all'ordine del giorno Grandi nell'ultima seduta del Gran Consiglio del Fascismo il 25 luglio del 1943. Del resto, secondo quanto riferisce Renzo Montagna, uno dei giudici «veronesi» e successivamente ultimo e moderatissimo capo della polizia repubblicana, in seno al tribunale il dibattito risultò molto più animato di quel che poi raccontarono coloro che intendevano contrabbandare la tesi di una sentenza già preparata, magari dai tedeschi, e affidata per la semplice lettura a delle marionette. Ma anche fuori del tribunale le opinioni manifestate o furono molto sofferte, o lasciate all'analisi e all'apprezzamento di giudici sicuramente di partito -certo un limite, questo-, o non pubblicizzate per i più svariati motivi. Stando al grande storico inglese, l'antifascistissimo Walter Deakyn, contrariamente a quanto comunemente ritenuto, i tedeschi non misero bocca in questa tragica e ferale vicenda. L'ambasciatore Rahn sarebbe stato addirittura contrario alla condanna, ritenendola controproducente ai fini del rinsaldamento psicologico della RSI nell'incerto humus di una opinione pubblica ancora da conquistare. A sua volta Hitler aveva disposto che le autorità del Reich si acconciassero a considerare il processo un fatto interno al regime, cui la Germania non era interessata né punto né poco.

E in Italia? Anzitutto il titolare del dicastero della giustizia, l'avvocato Piero Pisenti, riteneva molto dubbie le basi giuridiche per una imputazione di alto tradimento. E lo stesso Mussolini non si differenziava dal suo ministro, anche se gli faceva notare che, come Capo dello Stato, non poteva astenersi dal considerare pure il lato politico stricto sensu del problema. Ma una vera sorpresa viene dal comportamento di Roberto Farinacci. Al giudice istruttore Vincenzo Cersosimo, che lo interrogava in qualità di testimone, egli faceva presente di considerare il processo assolutamente inutile e rischioso. Comunque, a esecuzione consumata, il Duce dirà di non aver accolto le domande di grazia per il semplice motivo che non gli erano state fatte pervenire. Infatti gli alti gerarchi del partito avevano ritenuto di bloccare il loro invio a Gargnano onde evitare di mettere il fondatore della RSI di fronte ad un dilemma altamente drammatico.

Sic stantibus rebus, anche il più determinato e intransigente fra i fascisti non potrebbe seriamente addebitare a Gianfranco Fini la più netta delle prese di distanza dalla Verona del processo. Ma pure chi fascista non è può sentirsi turbato e disturbato da questo ambiguo e proditorio ancorché non inatteso e anzi preventivato viaggio storico-ideologico -da Verona a Verona, passando per Arcore- intrapreso dall'establishment di Alleanza Nazionale sotto la guida del capataz di Via della Scrofa, più che mai disideologizzato, programmista, liberista, filo-americano per la pelle, occidentalista, filo-capitalista, confindustriale, conservatore. Di più: in un rapporto di amore-odio con lo spelacchiato plutocrate di Arcore.

 

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Il dott. Franchi è, indiscutibilmente, un giornalista autorevole e brillante. Ma, anche perché afflitto da un male al momento fortunatamente incurabile quale quello della giovinezza, della Repubblica Sociale Italiana e del MSI sa poco. Poco e tutto farina del sacco di chi, in certo antifascismo, vive ancora di luoghi comuni. Nell'autunno del '43, infatti, il fascismo non era affatto «morente», ma anzi si appalesava risorto e rialleato con una Germania che in vario modo, e ad eccezione della penisola iberica neutrale ma amicale, controllava il continente europeo, mentre il discorso relativo alle «armi segrete» veniva in evidenza come qualcosa di più di una affabulazione. È vero, la potentissima nazione nordamericana era impegnatissima contro l'Asse, ma su di essa faceva pressing un Giappone altrettanto forte che nessuno poteva immaginare piegato dalla bomba atomica di là da venire. Quanto all'URSS, Mussolini si illudeva di riuscire a convincere Hitler a una pace separata necessaria per alleggerire gli straordinari sforzi militari cui erano costretti i soci del cosiddetto Patto d'Acciaio. E la resistenza italiana? Il Duce, all'atto della liberazione dalla prigionia badogliana, era lontano trìlionì di anni luce dall'immaginare che le più recenti generazioni educate dal regime alla mistica fascista, all'uso delle armi, allo spirito guerriero gli avrebbero regalato un effetto boomerang. Ovviamente, facciamo riferimento solo a parti di esse, perché i «ragazzi di Salò», magari anche quelli con i capelli bianchi, non furono né pochi né pusilli; e consentirono al governo repubblicano di poter contare su ben 700.000 uomini in armi, nonché sui reparti femminili delle ausiliarie. Gli errori di Graziani, incaponitosi sul pregiudizio fittiziamente «nazionale» della leva obbligatoria e connessi «bandi», aumentò le «bande» e la loro consistenza quantitativa e qualitativa. Ma, si sa, solo a un De Gaulle può capitare di essere al tempo stesso un grande soldato e un ancor più grande politico.

Insomma, la genesi della RSI ebbe a verificarsi in un torno di tempo in cui l'Asse, anzi il Tripartito, ancora disponeva di serie possibilità di vittoria. Perché, dunque, caro dott. Franchi, il «tentativo di ritorno alle origini socialisteggianti del fascismo», come Ella definisce l'avvio della costruzione di una Repubblica rivoluzionaria, sarebbe stato «disperato»? Noi parleremmo, più correttamente, riteniamo, di un disegno sconfitto dalle armi eppure non destituito di permanente validità, alla ben precisa condizione, però, che coloro i quali avrebbero dovuto esserne naturaliter gli eredi, i continuatori, non ne avessero tradito l'anima, l'impianto ideologico, la struttura dottrinaria, la strategia complessiva, la fede suscitatrice di fantasia creativa. Una attesa legittima, questa, andata completamente delusa, sia per la manifesta, sorprendente inaffidabilità degli... esecutori testamentari della RSI, sia a cagione della deplorevole e, anzi, colpevole cecità di una sinistra storica che -guadagnata alla filosofia azionista fondata sulla visione di un mondo semplicisticamente diviso in fascismo e antifascismo fino alla consumazione dei secoli- ha in tal modo supportato, e sopportato, una più che semisecolare egemonia della borghesia, del suo personale politico, dei suoi alleati internazionali.

 

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Non essendo affatto «morente» il fascismo nell'autunno del '43, il suo obiettivo di creare uno «Stato Nazionale del Lavoro» innervato su di una socializzazione che batteva in breccia l'economia capitalistica non appariva, e non era, affatto «disperato». Ciò che, invece, veramente lo è stato e lo è, lo si riscontra, purtroppo, nella duplice chiave storica e attuale. Ossia: nel passato missino e nel presente alleanzista di coloro cui la Sinistra «liberale» non lesina applausi per essersi trasferiti con armi (poche) e bagagli (molti) nel campo del capitalismo, e per essersi messi in condizione di combattere meglio contro le forze progressiste convertendosi all'«antifascismo» o a quello che essi ritengono tale. Ciò mentre la Sinistra «antagonista», invece di incalzarli dialetticamente al fine di fare esplodere creativamente le loro contraddizioni, infestata com'è di sottocultura gruppettara, di astrattezze trotzkiste, di violenza non soltanto psicologica targata Autonomia Operaia, poco manca che risgrani le solite litanie tipo «sangue fascista fa bene alla vista» e «uccidere un fascista non è reato». Si fa per dire, si capisce. Per inciso, confessiamo un certo stupore per questa puerilità. Abbiamo infatti contattato anni or sono Fausto Bertinotti in occasione di una intervista e ne è scaturita una eccellente impressione. Uomo colto, serio, profondo, pieno di autenticità, stentiamo a credere che anche sul tema RSI -fermo restando il suo ovvio antifascismo resistenzialista- non si possa con lui ragionare argomentando pacatamente, da persone civili, responsabili, propensi al «costruttivo», ossia senza il sangue agli occhi e la bava alla bocca.

Alla luce di quanto testé analizzato, l'affermazione del dott. Franchi secondo cui per tutti i leaders missini, dal primo all'ultimo, il congresso di Verona con annesse e connesse giunture socializzatrici e rivoluzionarie «hanno rappresentato molto più che dei ricordi» è da giudicare alquanto avventurosa. È vero esattamente il contrario. Tutti costoro, superata la prima, inevitabile fase asseveratrice di ortodossia si dedicarono -con costanza davvero degna di miglior causa- a smontare, pezzo dopo pezzo, il composto trasformatore e riformatore alla base della intuizione erresseista. Per quindi arrivare, con Gianfranco Fini, al rinnegamento plateale, provocatorio, reazionario durante la pulcinellata del lavacro «antifascista» nelle acque ciarrapichiane di Fiuggi. Un vero Fiuggi Fiuggi dalla storia, quindi...

Enrico Landolfi

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