«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 2 - 30 Aprile 1998

 

Non era il caso di farne un caso

 

Tutti più o meno sanno del cancro, pochi conoscevano il prof. Di Bella, solo i diretti interessati. Tutti sanno che per quel male «la cura» non esiste, esistono solo varie cure -chirurgica, chimica, fisica- che talora guariscono, talora fanno poco, talora non fanno nulla, tutto dipende dal soggetto, dal tipo di tumore, dalle dosi, dalla risposta, se volete dalla fortuna. Ora c'è la cura del prof. Di Bella e ancora non sappiamo in quale categoria di risposta iscriverla.

Tutti i malati sperano di guarire e -pur di provare- spendono tutto quello che hanno, perché la speranza non ha prezzo, specialmente per chi non ne ha più. Per tutti, ma soprattutto per coloro che più non rispondono alle cure conosciute, la cura Di Bella è -se non altro- una manciata di speranza. E la speranza è già un farmaco potente e insostituibile. Il prof. Di Bella non è un abusivo, non è un ignorante, non e uno stupido; è uno studioso, un ricercatore, un universitario, che non propone «la cura», ma «la sua cura», che al momento non è né migliore né peggiore di altre fino a dimostrazione avvenuta. Egli non è né più serio né meno serio di altri, di quegli altri che, fino a prove acquisite e certe, avrebbero fatto meglio a star quieti, per non rischiare domani una brutta figura, che farebbe un grande scalpore, in alternativa a un riconoscimento che più o meno suonerebbe così: «Avevamo ragione noi, nostro è il merito d'avervi tolta questa speranza».

Ma qui Di Bella non c'entra, sotto accusa va posto il metodo: degli scienziati, dei clinici, dei politici, degli amministratori. Prima è il «no», è una turlupinatura, è una truffa, è una speculazione. Poi, chi spera si ribella, i magistrati capiscono, non se la sentono di negare una speranza, ed il «no» diventa «ni», dove sì e dove no, la cura si può dare, i medici la possono prescrivere oppure no oppure sotto certe condizioni. Ma siamo tutti uguali, il caso si monta ed infine il «ni» diventa «sì», ed il caffè -nero- diviene la bandiera -bianca- della resa quasi senza condizioni di una battaglia persa in partenza, che non avrebbe dovuto neppure essere pensata, neppure combattuta, né tanto meno perduta. E le condizioni di resa sono i soliti limiti, i soliti distinguo, i soliti esperti, le solite commissioni, i soliti protocolli, tutti a spese del contribuente, del malato, della speranza. Stipendi e prebende al posto della somatostatina difficilmente saranno farmaco migliore.

In compenso da tanto baccano spuntano la corsa alla sostanza, l'accaparramento, la speculazione, il mercato nero; chi l'aveva, l'ha venduta molte volte di più, chi la produce sa di poterla piazzare molte volte meglio, perché la somatostatina è divenuta di moda, è sulla bocca di tutti, è nel cuore e nella mente di tutti. Era una scontata conseguenza diretta della montatura di un «caso» di risonanza più che nazionale, che chi di dovere doveva prevedere, capire ed... evitare.

A meno che... Sorgono ulteriori dubbi allorché, poco dopo la resa, tutto torna punto e da capo: ecco un decreto che limita e circoscrive, tanto che una sperimentazione, che per essere attendibile in un settore tanto difficile dovrebbe coinvolgere il maggior numero possibile di casi e per più tempo possibile, diviene un breve esame di pochissimi casi, non capitati a caso ma ben prescelti, a dosi ben determinate e col consenso scritto del malato; come se il malato neoplastico andasse da Di Bella per l'aperitivo o il caffè...! Come dire che sarà un esame preordinato con risultati già scontati, se proprio non vogliamo -ma non ce lo permetteranno mai!- insinuare che siamo pilotati: del tutto inutile, di facciata, il solito fumo negli occhi.

Purtroppo il prof. Di Bella ha troppe primavere sulle spalle, e a quell'età, lo sanno tutti, il cervello non è più capace di adattarsi; non ci avevano pensato, ed il professore non si è adattato, e ha risposto a picche: non ci sta, o lo lasciano lavorare e sperimentare a modo suo oppure prima protesta e chiude e poi, se del caso, se ne va all'estero.

Sbigottimento della controparte, scontato come il solito commento: non possiamo accettare una terapia non sperimentata come efficace! Ma che dire allora delle molte altre terapie molto ben sperimentate, da tutti accettate, prescritte, utilizzate e concesse, ma che purtroppo molto spesso -lo sanno tutti, compresi i prescrittori- non fanno assolutamente nulla? Sorge agevolmente il dubbio che, invece del tumore che ha colpito il paziente, faccia paura l'eventuale effetto positivo sul tumore: potrebbe esso ledere molti e grossi interessi ed il prestigio di quanti -di codeste cure- si fregiano... Oppure no?

La telenovela continua: c'è disponibilità a modificare il decreto, come dire il decreto lo facciamo a casaccio, se nessuno si risente, chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato; altrimenti si cambia...!

Per non imbastire una tal telenovela bastava, fra i tanti sperperi della sanità, contemplarne uno di più -poniamo per un anno- e concedere la prescrizione libera e gratuita a chiunque la richiedesse; al medico decidere e catalogare rigorosamente paziente per paziente, caso per caso, tipo per tipo, cure fatte o in corso e così via, ed in fondo all'anno fare un calcolo statistico facilissimo: ne risultava (o avrebbe dovuto risultarne ...?) un responso onesto e veritiero sulla reale efficacia del metodo. In silenzio.

Questo «caso» non doveva nascere. Si sono fatti sorgere, una volta di più, dubbi o sospetti di veder favoriti molteplici interessi a vari livelli nel solo intento di distruggere -al solo livello del povero malato- o una o l'ultima speranza.

E la speranza non si nega a nessuno.

Renzo Lucchesi

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