«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 2 - 30 Aprile 1998

 

Apologia della politica

 

«... tu chiamale se vuoi, emozioni»

Mogol – Battisti

 

 

Forse per non passare per uno di quelli che han già capito tutto, loro. O forse per stanchezza. Delle prediche inutili, degli appelli inascoltati, delle tante parole, inutili ed inascoltate, di denuncia rifiuto ribellione sdegno... fatto sta che «un bel tacer», come recita il proverbio, m'è parsa la soluzione migliore. Ossia l'unica ad un certo punto, dignitosamente praticabile in vista della fine.

 

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Eppure, ciò che è politicamente accaduto (e con quanta fretta, e quale facilità...!), là dalle nostre parti -nel piccolo mondo di comuni origine ed esperienza, così come nel vasto mondo della politica con la P maiuscola- presenta aspetti talmente sconcertanti, paradossali e persino grotteschi, che violare l'autoconsegna e tornarci su (lo confesso) mi ha spesso tentato, soprattutto di quest'ultimi tempi.

Tornarci su verbalmente, voglio precisare, ché d'altro genere di tentazioni credo proprio d'essermi liberato: «il teatrino», piccolo o grande che sia il mondo, non fa più per me. Non che prima, prima di abbandonare la parte, avessi sulla scena ottenuto chissaquali successi di critica e di pubblico. Anzi, dando uno sguardo retrospettivo al passato politico-teatrale, mi vedo regolarmente negato a ruoli protagonistici, da prim'attore. E se lungo quel mio itinerario, derogando da vocazione e circostanze naturali, può essermi capitato di precedere anziché seguire -e così trovarmi in prima fila, o linea- ciò non è stato per improvvisi attacchi d'egocentrismo o per eccesso d'avventura, ma bensì dovuto a chi, durante il percorso, doveva essermi davanti, ed improvvisamente non c'era più.

Sempre restando in ambito confidenziale, riferisco poi di un episodio che, come sempre succede in simili casi, è valso a metter in crisi il mio presunto distacco dalla politica, strategicamente attivato col metodo del silenzio.

Un «caso», dicevo, presentatosi sotto le smentite spoglie del camerata-tutto-di-un-pezzo. Il quale, per meglio indossare in veste e forma private il proprio onorevole (e da me assai poco onorato) ruolo, volle apologeticamente richiamarsi al celebre asino di Buridano, defunto a causa della sua indecisione tra due cumuli di biada d'ugual peso, consistenza e valore.

Morale: per non morire politicamente di fame, bisogna per forza o per amore scegliere; e mettersi così al servizio, servendosi, di una delle parti in giuoco.

Non riconoscendomi nella logica del sistema binario «o di qua o di là» (e, per la verità, neppure riconoscendomi appartenente al genere degli animali domestici, di cui l'asino ha senza dubbio piena e legittima rappresentanza...), mi venne facile puntualizzare al nazi-alleato di turno l'essermi indifferenti le attuali scelte alimentari; aggiungendo, a scanso d'equivoci, che il cibo volevo continuare a cercarmelo da solo. Ovvero assieme a quelli della stessa mia specie, fra i cui esemplari (ma questo mi limitai a pensarlo) l'avevo un tempo annoverato.

Una replica meno... allegorica (e più concretamente riflessiva), credo però vada fatta. A beneficio, mi auguro, dei selvatici lettori di "Tabularasa" che non si sentono appagati da quel che passa il convento.

 

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Per tutti costoro potrà allora valere una rassicurazione. Di politica, sia pur in minuscolo ed in tutta modestia, continuo e continueremo (per grazia di Dio, e volontà del direttore) liberamente ad occuparci. Non foss'altro perché, qualora non volessimo o potessimo farlo, sarebbe comunque lei in esclusiva ad occuparsi di me, di noi, di voi e degli altri. Obiettivamente, a risultare davvero modesto è -ben più del nostro stesso tasso d'interesse- il tasso d'occupazione; senz'altro inadeguato ai bisogni. Dato che qui si è costretti a lanciare periodici messaggi in bottiglia, senza nemmeno sapere se (r)esistono ancora, oltre l'orizzonte, persone in grado di accoglierli. L'oceano dell'indifferenza va estendendosi a vista d'occhio...

Ma non s'era qui detto, e ribadito, che lo scrivere «qui» risponde innanzi tutto a necessità d'ordine personale nonché caratteriale?! E dunque, incuranti d'oceani in estensione, e fregandocene di politici replicanti e bipolarismi d'occasione, passiamo oltre.

 

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Si diceva all'inizio della matura scomparsa della politica, meglio conosciuta come Politica. E si diceva anche essersi trattato di morte pluriannunciata, che ci ha visti esercitare assieme ad altri, a volte prima d'altri, il diritto-dovere di cronaca. Qualunque possa esser stata l'audience raggiunta (sullo share è meglio poi non pronunciarsi...) io alla Politica ci credo. Di più: continuo a credere pure nell'esistenza della politica, senza peraltro essere praticante. (Detto in termini laici e sportivi, sto in panchina. Ma mi tengo in forma, in attesa della convocazione del mister; che non c'è.)

Del resto, quali requisiti vengono ora richiesti per praticare, ossia per scendere in campo?

Non già delle qualità -si sarebbe tentati di rispondere, con una boutade di Chàteaubriant (?)- ma piuttosto la capacità di saperle perdere. Dev'essere meno facile di quanto comunemente si creda...

Proviamo lo stesso ad elencare ciò che oggi ci vuole per la discesa (il termine è quantomai appropriato, N.d.R.): cinismo, irresponsabilità, pressapochismo, furbizia, incoerenza, opportunismo, apparenza, presenzialismo, teatralità... e forse nemmeno bastano. Antidoti, si potrebbe definirle, che erano ben presenti anche nella politica di ieri, eccome. Ma sussistevano anche, sino ad ieri, anche altri riferimenti, altri valori, altre motivazioni. Vi si potevano trovare, durante il cammino -o «la carriera», volendo- di quanti s'impegnarono in politica: rabbia e sogni, entusiasmo e passionalità, altruismo e rinunce. La politica, sì, poteva costituire una professione, ma nel senso (weberiano) che per il suo normale esercizio venivano richieste sia la professionalità che la vocazione per professarle.

Ripeto e ribadisco: i mestieranti certo non mancavano, allora, ma non sembravano costituire, come ora, la totalità o quasi della classe politica nazionale, extra e super.

Le cause di tale progressiva, e poi precipitante, trasformazione sono piuttosto note, potendosi ricondurre all'avvento del Mercato Unico e Assoluto; con la sua dirompente carica deideologizzante; con il degrado antropologico coprodottosi dall'atomizzazione sociale e dall'omogeneizzazione culturale.

Senza idee e senza ideali, dunque, la politica.

Incapace, a destra e a manca, di pensare oltre il proprio utile immediato, di guardare al di là del proprio ombelico; tutta impegnata a scimmiottare l'America, chi con i suoi Clinton e chi con i suoi Reagan. A tal punto dimentica, l'arte della politica, del proprio glorioso passato -che prende nome e mosse da Aristotele, da Guicciardini, da Napoleone ...- da farsi affascinare dalle conventions d'Oltreoceano, con tanto di palloncini, majorettes e pagliacci.

Piatta e superficiale, immemore e velocizzata, la cronaca politica del nostro tempo sembra fatta apposta per non coinvolgere, per non commuovere. Per non alimentare grandi interrogativi, grandi progettualità, grandi idee.

La prassi della politica, certo, continua a godere delle attenzioni degli apparati, delle nomenclature di partito, dei vari segmenti del ceto padronale - ma, per quanto attiene «la partecipazione popolare», questa va sempre più restringendosi, lasciando scoperta ed indifesa l'opinione pubblica. La qual opinione, giustamente, alla politica è indifferente, o non ne capisce nulla. Come e più di prima.

Stavolta però, confusi tra l'anonima folla, si trovano celebri intellettuali, acuti politologi, editorialisti famosi; che lo dichiarano apertamente, di

non raccapezzarcisi più in quel labirintico vuoto.

L'estrema confusione fra ciò che è, o fa, o si dice «destra», e ciò che è, o fa, o si dice «sinistra»; l'irrefrenabile tendenza degli esponenti della crazia politica a tacere quando dovrebbero comunicare, e viceversa; la loro propensione a correr dietro ad ogni inconsistente strategia -di contenimento, se al governo, di spostamento se all'opposizione- in una gara tattica dove tutto finisce per comporsi, e poi scomporsi, e quindi ricomporsi; la continua osmosi tra l'uno e l'altro schieramento, di spropositate ambizioni e demagogiche improvvisazioni, di velleitarismi e compromessi su tutto -tutto ciò, ed altro ancora, trasforma quel «teatro», ed i suoi retroscena, in uno squallido mercato, popolato da loquaci e fameliche nullità.

Per dirla altrimenti, con le parole di Leo Longanesi, la politica si muta in «palude», dove «la noia democratica nasce dal non avere nemici che [...] ci fanno sentire vivi». «Quando il sistema è malato -scrive l'impareggiabile autore di "Fa lo stesso"- scocca l'ora dei surrogati [...]. Si sta fabbricando, a nostra insaputa, una civiltà di imitazioni, un sottoprodotto, un calco in plastica».

A distanza di quarant'anni, l'attualità dell'analisi longanesiana viene così commentata su "Panorama" da Mario Ajello: «È la nostra fotografia, fra Polo e Ulivo, cimici e veleni, pool e tangenti e disincanti vari, in bilico fra due versioni dell'ultima Italia politica che si somigliano maledettamente fra loro». Sottoscrivo.

 

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Il buon Occhetto, dal palco fiorentino della Cosa 2, trasfiguratasi in Democratici di Sinistra, con tanto di quercia, rosa e garofano, si è esibito lamentando -proprio lui!- «l'uso indiscriminato di parole quali liberalismo o mercato, come se fossero simboli araldici da sbandierare per entrare nel salotto buono».

Su altro tinello, il noto battutista Marcello Veneziani, presentando il suo ultimo album ("Il secolo sterminato", Rizzoli ed.) ha fondamentalmente distinto le «spugne» dalle «ostriche». Alle prime apparterrebbero quanti, lasciatisi trasportare dalla corrente, assorbono il cambiamento; alle seconde coloro che restano tenacemente chiusi ed abbarbicati alle ideologie del passato.

Chi come noi si senta, per un verso, del tutto illiberale e fuori mercato e, per l'altro, alquanto ostrica -politicamente parlando (dato che, pur cercando di filtrare le novità, rimane ancorato a princìpi scandalosamente immobili)- ebbene, costui dovrà ammettere le proprie difficoltà esistenziali, di fronte ad una marea che tutto sembra travolgere e liberalmente omologare.

Oggi, a ben vedere, è il restare a sé stanti, autonomi ed indipendenti, che risulta pericolosamente out. È l'esser «persona» in quanto tale, a non trovare cittadinanza in una società massificata e manipolatrice, conformista e paritaria; falsamente paritaria, così come falsamente liberale e pluralista, falsamente solidale e rispettosa degli altrui diritti.

Ciò che lo spirito dei tempi proprio non tollera sono le differenze. E che queste si sappiano e si mostrino. Fra uomo e donna, docenti e discenti, giovani ed adulti; fra i popoli e le culture, fra le razze e le religioni. Siamo difatti in presenza di un'offensiva a carattere planetario che vuol segnare la fine di ogni separatezza, di ogni distinzione, di ogni reciprocità; che vuole definitivamente eliminare i residui spazi dove poter raccogliere e proteggere una scardinante voglia di libertà.

Al cospetto della montante «marea», che in Occidente non ha quasi più ostacoli, c'è altresì da chiedersi se sia ancora possibile, e se valga ancora la pena, darsi da fare per i nostri simili. Che il più delle volte non chiedono di meglio d'esser lasciati in pace dagli improvvidi e non-autorizzati esaminatori di coscienze.

La mia personale risposta non potrebbe che risultare negativa... Ciò non tanto per le scarse o scarsissime probabilità di successo (il che non impedirebbe di voler testimoniare la propria diversità), quanto piuttosto per i destinatari delle nostre mal riposte attenzioni. Soggetti che, a quanto pare, di essere «nostri simili» non ne vogliono proprio sapere... Deprimente risulta infatti l'insieme socio-politico cui rivolgersi; e desolante l'ambiente dove farsi capire. E «la società civile» è composta per lo più non da popolo, ma da plebe. (Quand'anche ricoperta di capi firmati e segua ovunque l'ultima moda; anche se parla basic italian al telefonino e viaggia su Internet. E plebe rimane, alfabetizzata com'è da telenovelas e gazzette sportive; educate al politicamente corretto dagli elzeviri di Alberoni e di Enzo Biagi, dai sermoni di Scalfaro...)

Sono insomma consapevole che la stragrande maggioranza dei possibili-ipotetici interlocutori è composta da individui egoisti ed opportunisti, almeno quanto mediocri. E la mediocrità (cito di nuovo Longanesi) «ha un solo grande vantaggio, quello di credere in sé stessa»; di credere, sino a riconoscersi in piena identità di vedute in personaggi come Bossi e Castagna, Mastella e Carrà Raffaella. La gente -quindi- è naturalmente e virtualmente portata a familiarizzare con le aspirazioni, con lo stile di vita e le ragioni morali dei Pietro Maso, veronese, e delle Mariangiole da Capriolo (BS); a congiungersi idealisticamente con le spinte e le finalità dei massimi sistemisti da bar Sport o con la filosofia dei mitici imprenditori del NordEst. Ma è proprio una siffatta analogia d'interessi e di pulsioni, questa intima complicità ed aderenza fra arrivisti ed arrivati, a smentire gli ex-sessantottini pentiti. Grazie all'etica da telenovela, e grazie alla dialettica da bar Sport, tutto infatti torna ad essere «politica». Una politica che diventa spettacolo, riuscendo popolarmente assai più gradita di quella tradizionale. Una forma sui generis di politica-spettacolo, al fondo della quale non si ritrova alcun giudizio da esprimere, se non quello dettato dai gusti ed umori del momento.

In definitiva: l'assenza di peso ed il vuoto che hanno vanificato ideologie, consuetudini e fedi potrebbero ben prestarsi ad un otium contemplativo.

Sarebbe, la totale estraniazione dal sociale, una scelta logica ed in fondo condivisibile; ed assolutamente coerente al tipo di società cui ci è toccato appartenere.

Ma sarebbe una fuga.

E, dovendo fuggire, preferibile è farlo dalla realtà (apparente). Per tentar di convertirla in utopia.

Se dunque la politica è l'arte (anche) dell'impossibile, la si può costruire anche con l'agire e l'esempio quotidiani, a favore degli altri e per noi stessi. Nonostante gli altri, e magari nonostante noi stessi

 

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Sul «nonostante noi stessi» avrebbe magari potuto chiudersi l'articolo. Ma restava, da chiudere, un caso: quello (ricordate?) del neoapologista filo-asinino.

La prenderò alla larga.

Partendo da chi tre anni or sono, diversamente da quel mio occasionale onorevole, non volle adeguarsi alla «svolta di Fiuggi», assumendo con ciò una posizione senza dubbio sconveniente che costituisce, per il mio modo di vedere e considerare le cose, un minimo comun denominatore.

L'esistenza, alla base, di una tale sottile comunanza (e l'amicizia stessa, e stima, provate per taluni dei fuoriusciti di allora) non m'impedisce però di osservare ancora una volta -ed ancora meglio di una volta, alla luce del tempo trascorso- quanto sia stata intempestiva la percezione del «tradimento» ed anacronistica la motivazione dei «traditi».

Da qui, dalla tardiva presa di coscienza dell'irreparabilità degli altrui fini, è nata -male- una «rifondazione missina», segnata sin dall'inizio da sclerosi politica.

In altri termini, la reazione di quanti non si prestarono a giurare fedeltà antifascista al legittimo successore di Almirante avrebbe dovuto, a mio avviso, essere improntata a qualcosa di più, di più fantasioso e di più audace, di un pavido continuismo di partito, riproducendone su scala ridotta vizi, limiti, errori, contraddizioni.

Gli stessi limiti ed errori (: rifiuto della realtà, nostalgite, settarismi...) che ritroviamo moltiplicate altrove, nei luoghi deputati a raccogliere il microcosmo d'estrema destra; limiti che, unitamente agli errori, sembrano destinati ad accompagnare in chiassosa solitudine l'ultima e definitiva diaspora post-neofascista. All'opposto di costoro (: già definite «schegge» dall'on. Tatarella, se non ricordo male, all'indomani della scissione del 7 luglio '91), stanno gli altri, «i vincenti», i quali non fanno affatto dubitare del loro realismo. E neppure di subire assurdi fascini retro, o di soffrire di personalismi vari (: lì basta uno a dire e pensare per tutti, e tutti per uno!).

Intendo riferirmi, con ogni evidenza, alla neococcinella di AN. Nei cui riguardi -e davvero concludo- non sono più disposto a riconoscere alcun beneficio del dubbio, o le attenuanti generiche. Il massimo che posso conceder loro è il disprezzo. Di tale mia concezione, lo capisco, non sapranno poi che farsene. Ma il disprezzo rimane, e rimane a loro disposizione. Fine.

 

Alberto Ostidich

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