«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 2 - 30 Aprile 1998

 

Le ragioni del centralismo

 

 

 Oramai è tempo di dire basta alla invettiva secessionista e anche alla favoletta federalista! Se la secessione è un suicidio, il federalismo è un inganno o un equivoco: è una maschera della secessione o si riduce ad una forma di autonomia dentro lo stato sovrano. Non si potrebbe concepire una nuova entità politica priva di cultura o separata dalla cultura italiana, che è essenzialmente unitaria, per due millenni espressione della coscienza della nazione e della sua aspirazione all'unità. Non si può ragionevolmente voler separare l'industria settentrionale impegnata nella competizione mondiale dalle risorse umane offertele dalla mano d'opera meridionale, quella stessa che qualche decennio addietro ha consentito l'industrializzazione del Nord. Nessuno ha potuto finora indicare nella realtà italiana una dimensione locale caratterizzata da individualità e capacità di iniziativa comprese e sacrificate in misura tale da giustificare lo sconvolgimento della unità nazionale esistente e la sostituzione di questa con una federazione o confederazione. Comuni, province, regioni sono, troppo spesso, ectoplasmi sonnolenti, pieni di contraddizioni e poveri di progettualità, popolati da nuovi politicanti più inesperti e più rissosi dei vecchi, soffocati da piccole mafie locali. I sindaci della sinistra, eletti e riconfermati in alcune grandi città, hanno comunque dimostrato che le energie locali possono essere mobilitate senza ostacoli e in pieno accordo con il governo e lo Stato nazionali. Eppure si rinnovano, da destra, sempre più incauti, sempre più incondizionati, gli ammiccamenti, le aperture al «leghismo», che anche quando si dichiara moderato è in realtà a rimorchio del secessionismo. Intellettuali che si dicono di destra e che aspirano a dimostrare la vivacità e la modernità della cultura di destra, sono pronti a barattare la nazione con la regione, il travaglio storico con la reazione passatista. In luogo di quanto resta nei cittadini di fiducia nella razionalità delle leggi, ci offrono un nuovo conservatorismo antigiacobino e anti-illuministico, di corporazioni e superstizioni che in ogni caso occorrerebbe risuscitare prima di poterle conservare. Ogni vallata è buona, dall'Alpi al Lilibeo come dall'Adriatico al Tirreno, pur di prospettare una divisione credibile dell'Italia. Ogni anfratto del passato serve a fiaccare la volontà di questo popolo di essere oggi e domani quello che non è riuscito ad essere finora. Tecnici accademici, ciechi al dilagare della corruzione nel territorio, ci illudono che il fisco decentrato sia necessariamente il fisco giusto.

Questa inclinazione diffusa viene da lontano, dalla nostra storia antica e recente, ma si è fatta irresistibile nella breve storia della coalizione di centrodestra, coalizione dei partiti e dei movimenti cui tradizionalmente dovrebbe affidarsi l'idea di Nazione e di Stato. Espressioni di questa destra sono il ribaltone bossiano, il berlusconiano conflitto di interessi, il «partito azienda», la non dichiarata scomunica politica dei cattolici di destra, la riserva indiana nella quale Alleanza Nazionale, nonostante le ripetute abiure, resta sorvegliata a vista dall'antifascismo interno e internazionale. Questa opposizione non riesce ad influire in modo efficace sull'orientamento della maggioranza di governo, né attraendo verso destra frazioni di centro, che finora hanno lasciato cadere ogni allettamento in questo senso, né risvegliando nell'elettorato un credito morale, che l'interminabile conflitto con la magistratura di «Mani pulite» ha logorato, né elaborando all'interno della coalizione stessa una stabile intesa, che da anni è ferma al palo. La verità è che la nuova destra, parte vitale della società italiana, in quanto motore principale della produzione di ricchezza, ha assorbito dalla cultura americana i concetti veicolati dal mercato, competizione e consumismo, più che i principi etici, organizzativi, legali, equitativi, che sono appannaggio di quel potere politico, nella tradizione repubblicana come in quella democratica. Sebbene in realtà i propri traguardi essa abbia potuto raggiungerli grazie alla vecchia struttura statuale, che nonostante tutto è rimasta in piedi e ha reso possibile la trasformazione dell'economia da prevalentemente agricola a prevalentemente industriale e terziaria, la nuova Italia non si sente Italia, ma America o Europa o mondo. Mentre la gara fra i popoli continua in forme più subdole, per quanto raccapricciante possa essere il doverlo riconoscere, si direbbe che una vertigine di resa, un'aria di nuovo 8 settembre si respiri nel fatalismo rinunciatario di oggi, ancora una volta più dell'intellighenzia che del popolo, nella svalutazione delle forze nostre, nella fiducia sconfinata in tutto ciò che viene da fuori.

La moda delle rivendicazioni del decentramento, dell'autonomia, della dissociazione, va di pari passo con il declino della coscienza pubblica, con l'infiacchirsi della solidarietà e della collaborazione. In un cinquantennio, la lotta contro lo Stato, condotta da varie trincee, la comunista, la cattolica, la liberale, ha reso insensibile l'individuo all'interesse pubblico. Professando il dogma di un fatale immoralità dell'uomo pubblico, via via si è ristretta e umiliata ogni autorità capace di esprimere una volontà generale e permanente. Il mito della privatizzazione a tutti i costi è stato la lunga premessa al separatismo. La colonizzazione della industria italiana da parte del capitale straniero è denunciata e documentata in un libro di Piero Ottone. Se manca ogni difesa dall'esterno, nell'amministrazione pubblica quel che è di tutti ciascuno può prenderselo. Studenti e bidelli da tempo si sono impadroniti della scuola, gli infermieri della sanità, i magistrati della giustizia, i burocrati dell'amministrazione. Il risultato è che le amministrazioni, peggio quelle locali di quelle centrali, sono prossime ad una situazione di anarchia. A forza di svalutare il ruolo di una burocrazia stabile e coerente, a cominciare dal vecchio e sacrosanto segretario comunale, si è reso sempre più difficile, se non impossibile, ogni genere di controllo, finanziario, di legittimità, di efficienza, sull'operato di politici avventizi, in troppo larga misura incompetenti e perpetuamente in bilico fra la professione provvisoriamente negletta e la concussione tentatrice. Non si percepisce la discriminante necessaria fra il Comune come espressione di coscienza civica e di tradizione locale e la responsabilità della erogazione di servizi che possono e debbono essere razionalizzati e unificati su aree più vaste. Ciascuna amministrazione è sempre più isolata, priva di riferimenti, allo sbando. Per salvarsi avrebbe bisogno di ritrovare e di rafforzare proprio quegli orientamenti comuni che si fa ogni sforzo per deprimere e confondere. Tutto quello che si prospetta come federalismo promette di diventare il disastro finale. La devastazione del territorio e del patrimonio d'arte, causata dalla speculazione e dall'incuria, devastazione della quale la cultura e la politica locali mostrano di non avere coscienza e che solo le strutture dello Stato sono rimaste a contrastare, dilagherebbe senza più freni. Quella rivolta fiscale che nonostante tutto è fallita contro lo Stato, perché gli italiani in grande maggioranza continuano a ritenerlo insostituibile, diverrebbe spontanea e irresistibile nei confronti di entità nuove, affamate e litigiose, deboli e contestate come si annunciano.

Ora non è più sufficiente denunciare questa fuga dalle responsabilità che è il separatismo e questa ipocrisia che è il federalismo. Bisogna dire e fare di più. Bisogna avere il coraggio di riconoscere che lo Stato nazionale unitario è tutto quanto ci rimane di funzionale, di intelligente, di perfettibile, che non solo non merita l'ostilità che contro di esso si accanisce, ma costituisce la sola via per contrastare il presente sfascio galoppante delle amministrazioni sia centrali sia locali. Almeno per due ragioni. Primo: perché solo una struttura e uno sforzo unitari possono consentirci di tentare con qualche efficacia un riordino e una razionalizzazione delle gestioni, oltretutto al passo con l'informatica e le altre tecnologie. Secondo: perché le energie, le capacità, le iniziative politiche in questo paese sono talmente affievolite che non si possono ulteriormente suddividere senza disperderle definitivamente. In tutta la massa cerebrale del paese vi è un solo settore che ancora reagisce e riflette attivamente, quello nazionale. Lì ancora si discute, si scrive, si pensa, si tenta l'elaborazione e l'attuazione di soluzioni di validità generale. Altrove, nelle singole istituzioni, associazioni, istanze locali è l'inerzia, quando non il panico, la diaspora delle volontà.

 

Cesare Pettinato

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