«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 2 - 30 Aprile 1998

 

Un invito a conoscerci

 

 

Invitare alla lettura corrisponde ad una espressione che rischia di diventare antipatica agli occhi di un uditorio vivace ed affezionato come quello di "Tabularasa"; ed in fondo la cosa si potrebbe evitare utilizzando altre locuzioni ed ammorbidendo i concetti.

Ma provocare, chiamare gli altri e noi stessi a dar corso e voce a qualche ragionamento utile presuppone -appunto- una coloritura.

Ciò premesso, va detto che in giro è da tempo che pare serpeggiare anche senza emergere, un interrogativo. Timido, non del tutto delineato; fatto di sfiducia, di superficialità, di apprensione politica. Ingredienti contraddittori, senza dubbio, che danno un segno, un'impronta.

A cosa può servire, oggi, una rivista, una rivista controcorrente?

Per quanto elementare, non si tratta di una domanda infondata.

Questo perché in chi prevale tuttora una sana voglia di fare politica, un richiamo autentico e forte verso la presenza nel sociale, tende a farsi strada un'idea di inutilità del pensiero, delle voci spese nell'approfondimento -anche problematico- delle idee. In questo senso, si può dire che la politica militante reclama una sua primogenitura, un suo diritto di veto che nasce dall'esporsi: l'impegno fa un po' la voce grossa. Le riviste, e qui parliamo delle nostre, agli occhi di alcuni appaiono come un disimpegno; si buttano a volte a capofitto nella spirale degli atteggiamenti sofisticati, se non sofistici.

Dalla parte di chi «fa» politica si schierano degli argomenti di tutto rispetto. Il primo è essenziale: fare politica significa prendere iniziative concrete, o cercare di prenderle. In soldoni, vuol dire affrontare un tema di immediata percezione per la gente, scendere in piazza, promuovere una petizione, indire una riunione, affrontare gli avversari in un contraddittorio o comunque nelle sedi a questo deputate: dai consigli comunali, circoscrizionali al Parlamento. La lotta delle idee diventa qui lotta degli interessi (non per forza illeciti) e pertanto tra uomini di diversa capacità ed estrazione.

È un discorso incontestabile. Tuttavia, come tale non si sottrae al rischio di diventare unilaterale o, magari, mono-maniacale. La sua è una sostanziale adesione ai crismi della quotidianità, nella sua accezione meno snaturante. Ma è anche un modo di porsi in una prospettiva che dà risalto alla ripetitività, all'abitualità, ad una logica dei fini realistici. Ed infatti di troppo realismo, di letale autosufficienza che si rischia di fare indigestione.

C'è un'autosufficienza ed un appagamento psicologico nel ritenere, spesso e volentieri, che si sia fatta una battaglia solo perché la si è espressa nei luoghi deputati. Basta un'interrogazione od una mozione per credere di aver fatto tutto il possibile, di aver esaudito un'esigenza politica.

Nel far politica, e si passi sopra la convenzionalità dell'espressione, ci si nutre di un'altra illusione. Credere che nel dare una risposta ad una qualsiasi questione sia in sé sufficiente, aldilà del merito e della sostanza concettuale od ideologica. Quasi come se dire qualcosa equivalesse comunque ad un valore, ad un atto positivo in sé; si è soddisfatto il contenzioso dialettico: tanto basta. Ed invece non tutti si accontentano. Non tutti restano a guardare, non tutti si acquietano senza esigere una spiegazione od una motivazione. Da questo punto di vista sale l'esigenza di avere a disposizione una chiave di lettura dei fatti e del mondo circostante. E qui è la sola politica che può conferire certi significati od offrire i giusti strumenti.

Ed ecco le riviste, un sostantivo convenzionale vago, ma dentro il quale si muove e può muoversi di tutto. Tutto ciò che non è convenzionale, ciò che esce dai luoghi sacri dell'interesse spicciolo e del successo. Non che non esistano i periodici, spesso patinati, che rincorrono le idee di «successo». Ci sono, e parecchi; diciamo pure la maggioranza. Ma nel nostro lessico sui generis il paziente lettore comprenderà che la carta stampata di cui facciamo cenno è la «nostra».

Anche noi possiamo subire le tentazioni, più in piccolo, che attraversano le redazioni più quotate. Non la tentazione economica, ma quella del consenso, quello sì. È un bene ed è un male.

Se una testata è espressione di atteggiamenti e giudizi generali vuol dire che, a ben guardare, è voce fedele del suo pubblico. Quest'identità è un bene ragguardevole, che nessuno disprezzerà.

Quando però questa consonanza diventa -in un modo o in un altro- un motivo ossessivo, quasi si abbia paura di non essere capiti, allora si passa la parte. Il copione diventa logoro, e si perde la vocazione più importante; quella di essere un punto di riferimento che fa discutere, che tiene alta la tensione, che non fa scendere la coscienza individuale e collettiva nell'oblio. Ecco un compito che coinvolge i recessi della «quotidianità», i punti scoperti della parte più inquieta della società: rivestire la qualità di soggetto critico, di voce in controtendenza.

Nulla di trascendentale se queste voci potranno sbagliare. Nulla di drammatico se un certo intuito potrà indirizzarne le ragioni verso conclusioni da rivedere. Avere paura ridurrebbe le idee al rango di suoni ingentiliti. E la paura rende rilevante la incomunicabilità, le distanze, gli allontanamenti. Ed infatti, senza il coraggio del pensiero, per dirla con Leopardi, «solo il nulla s'accresce». Se, come ci gratifica la lettrice Capotosti, riusciamo ancora a «dare manforte», ci piacerebbe per questo che chi ci segue volesse provare a collaborare; facendosi avanti, e facendo conoscere idee e parole sue, nuove, interessanti. Tracciando insieme un cammino di libertà per rintracciare le «radici profonde» a cui siamo legati. In modo da usare questi spazi per comunicare la nostra avversione alla ragione mercantile ed all'assuefazione ai riti del presente. La cosa che conta è provarci.

 

Roberto Platania

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