«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 2 - 30 Aprile 1998

 

appunti di viaggio

 

Emilio, poeta contadino

 

 

D'accordo, aveva ottantacinque anni; d'accordo, era sordo «stimpanato»; d'accordo, non sapeva misurare la durata d'una declamazione, che ti somministrava impietoso, se lo incontravi; lindo, giulivo e appena appena lo salutavi. Però, era l'unico in paese a sapersi fare un bel nodo, con una di quelle spesse cravatte di lana ad un solo colore, oggi tornate di moda.

Però, visto col soprabituccio a tre bottoni, col cappello di feltro scolorito e col pesante bastone più che da passeggio, degno d'un ex-fattore d'altri signori, Emilio s'imponeva per una signorilità, che non so proprio da dove gli venisse. Un vero personaggio. Non parliamo, poi, del suo cordiale sorriso, che spesso finiva in piccolo pianto di gioia commossa. Non parliamo, nemmeno, di quante volte rimpiangesse la buon'anima di sua moglie. Anzi, la buon'anima e basta.

Durante i banchetti di nozze, recitava festosi indirizzi augurali, da lui stesso composti all'impronta, per gli sposi, purché fossero giovani e belli.

Sì, perché Emilio, nella sua lunga vita, aveva sempre amato e considerato come sorgenti di poesia, da difendere cantandole e decantandole, appunto la giovinezza e la bellezza, quali ricchezza del popolo.

Diceva non possedere istruzione di sorta eppure la sua remota saggezza sapeva di profonda umanità; specie di sapienza nascosta, di tipo vichiano. Emilio, inoltre, aveva una memoria eccezionale e, senza modestia ipocrita, ne ringraziava pubblicamente Dio, da quel fedele ch'era sempre stato. Per esempio, una volta prese a recitarmi in mezzo alla strada "I Reali di Francia"; con sicurezza e ritmo, con gesti antichi, sconosciuti agli attori d'oggi. Fui costretto a gridargli in faccia che non avevo tempo, che dovevo andarmene e mi dispiaceva (vigliaccamente); ma Emilio era troppo educato per farmi capire che aveva capito.

Era felice che Signurìa lo avesse ascoltato per un attimo; fu così che si mise in testa ch'io fossi poeta come lui ed amassi come lui gl'interminabili poemi cavallereschi dell'età cortese; felice, come quando accettavo di buon grado un cesto delle sue arance, ch'egli decideva di regalarmi all'improvviso, senza motivo alcuno; felice, come quando lo facevo passare nelle stanze del castello, grandi, a volta, colme di cose stranissime per tutti meno per lui, che riusciva ad apprezzarle. Ridevo, poiché le avevo portate dal mondo ed Emilio sembrava avesse viaggiato quanto me, senza mai essersi allontanato da Casamassella, per tutta la vita.

Emilio nascondeva in sé esperienze remote, pronto a stupirti alla prima provocazione. Quella volta, avevo tempo per conversare, gridando a squarciagola, con calma: gli chiesi se aveva mai sentito parlare d'un tale Orazio, poeta-filosofo, che in qualche modo gli somigliava.

«Se avessi fatto le scuole, -rispose- lo avrei certamente incontrato; lei sa che non ebbi questa fortuna». L'ingenuità era la sua forza.

Poi, accadde qualcosa, che non mi fece più ridere e che ancora vorrei spiegarmi. Dopo qualche minuto, il mio saggio vegliardo dalle folte sopracciglia candide e dalla voce dolce, parafrasava a modo suo e senza saperlo proprio la "Lettera a Dellio. «Signuria, mantieni l'animo sereno nei momenti ardui e durante la buona fortuna. Non abbandonarti alle gioie smodate. Ricordati, sei destinato a morire; tutti ci andiamo raccogliendo nello stesso luogo».

Possibile? Era l'invito d'un analfabeta a tornare alla saggezza antica, un portentoso invito a studiare i classici, ma molto in ritardo; visto che il famoso giudizio dell'età di mezzo non esisterebbe, secondo lui.

Evviva i vecchi!, stava dicendomi allegramente Emilio, con un distinguo:

«Quelli che sanno amare ed esaltare i giovani, con mente pura».

Fu così che questo aedo ottuagenario, in piena coerenza, prese a farmi leggere brindisi nuziali, nitidi indirizzi d'augurio, levati col calice del simposio parentale.

Ecco, a Loredana: «In questo giorno di festa incantata / vorrei far sentire la mia vecchia parlata / per dir la bellezza di quest'occasione / ricolma di belle e brave persone ...»

Ecco, a Valeria: «Beato quell'uomo; che ti avrà per la vita ...»

Ecco, a Enrica: «Di tempo n'è passato / da quando piccolina / mia cara nipotina / i tuoi t'han generato ...»

Così via di seguito; Emilio era fatto in questo modo; se iniziava, difficile fermarlo. Possedeva una straordinaria vis suasiva per trattenerti ad ascoltare cose sue, che andava pubblicando nientedimeno sul bollettino parrocchiale di Uggiano "La Chiesa". Un giorno, riuscì persino a farmi firmare «a quattro mani» una poesia buffa e nobile insieme, emersa dai suoi giovanili ricordi a proposito d'un certo castello, del quale egli sapeva tutto; mentre, io, solo vi abitavo, straniero.

Mi piacque quell'improvvisa visione baronale; accettai di fare ordine tra quei versi scatenati, privi di rima e ricchi di storia; non vi riuscii; li riproduco giusto come Emilio li cantilenò, a me attonito: «Nei tempi remoti, una volta al mio paese / c'era, signora illustre, una Marchesa / che stava dando alla luce un bambino / e per gli acerbi dolori gridava. / Ma quando vide com'era bello il maschietto / la mamma presto smise di soffrire ...»

Salto qualche passo, preso anch'io, come accadeva ad Emilio, dalla timidezza per cose troppo semplici ed infantili, troppo elementari ed ovvie anche se nella poesia di un estemporaneo. Invece, ecco che la «Nobile Donna» (sic!) si abbandona alla gioia di madre, come tutte le madri, divenendo popolana: «Ninna nanna, bel bambino, / io ti sono qui vicino. / Ninna nanna, baronetto, / io ti nutrirò d'affetto. / Ninna nanna, figlio bello, / nella pace del castello».

 

*   *   *

Bene; non era certo poesia da premio letterario; era la nascita d'una mai prima supposta amicizia; da quel giorno, infatti, io ed Emilio ci considerammo unici cantori residui d'una civiltà, fatta d antiche ballate in via d'estinzione. Ora, mi sento solo; lui se n'è andato in silenzio, all'improvviso; nessuno, salvo i pochi del suo dolce paese (N.d.A. - E del mio!), nessuno se ne accorse, lontano; troppo umile, dunque sconosciuto. Cosicché, volli ricordare il vecchio poeta d'un'arcadia morente, per una mia bislacca giustizia, la quale deve strafottersene dell'importanza socio-populista, direi estera, se non esterna, degli autori arcinoti, concedendo invece il massimo del rispetto alla memoria di chi ebbe vocazioni naturali, soltanto e meravigliosamente naturali, come quelle dei cosiddetti poeti contadini; gente sana, fuor di consorteria.

Fossi un medico di cervelli, mi piacerebbe prescrivere ai miei più o meno frastornati pazienti di recitare a memoria, mattina e sera, «il pezzetto» della satira d'Orazio, più sopra compendiato da Emilio per semplice intuizione. Conosco Venosa nell'Apulia romana, terra di vini veraci e di tranquilli meriggi. Mi piacerebbe che i poeti veri vivessero alla maniera di Emilio, sul cui passaggio si poteva rimettere l'orologio: da casa in piazza, dalla piazza a casa.

Un verso sghimbescio, una lacrimuccia furtiva, le grandi imprese dei cavalieri antichi, un brindisi nuziale, una poesia lunga, lunga, lunga; da qui la pace. Sembra facile, eppure non tutti vi riescono. Io, per primo.

Ma, nel segno del più grato ricordo, come scrisse Emilio, continuo a cantare «l'antica canzone sempre nuova»; sino alla fine inattesa, spero, come lui.

 

Florio Santini

Indice