«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 3 - 30 Giugno 1998

 

Inutilità del presente

 

 

«All'apogeo si generano valori; al crepuscolo, ormai logori e disfatti, li si abolisce. Fascinazione della decadenza - delle epoche in cui le verità non hanno più vita, in cui si ammucchiano come scheletri nell'anima pensosa e arida, nell'ossario dei sogni...»

E. M. Cioran, Parigi, 1949

 

 

È un'Italia scialba, pallida. Normale. La cui storia in questi anni, è quella dell'ostensione democratica: una storia di apostasie, di diserzioni, di tradimenti. Sul rogo, le speranze ed i miti democratici. Gli invocati, gli aspettati, gli eletti sono divenuti degli oligarchi, dei despoti, dei traditori. Il governo dei moderati: la sentina di tutte le corruzioni, la radice di tutti i mali. Che prelude, amici lettori, alla nascita di un regime della tirannia identificabile in una rapace consorteria che riuscirà a concentrare tutto il potere in poche mani gelose. In pieno accordo con la cosiddetta opposizione che, a ragione dell'ignavia dimostrata nella breve esperienza di governo, si accontenterà di godere dei residui del banchetto, dilapidando definitivamente tutti i valori (mi riferisco ai «coccinellidi») di cui si dichiaravano depositari e in nome dei quali -carpendo la buonafede di tanti imbecilli- riuscirono a raggiungere, immeritatamente, i vertici dei burleschi ordinamenti nomati pomposamente «istituzioni».

Tutto tace. Quiete e silenzio. Assente l'attrito delle idee, ci stiamo incamminando verso una funesta paralisi morale e politica. Prevalgono gli internazionalisti, gli umanitari, i fautori della perpetua felicità. Sventolano, insieme, le bandiere dei moderati e dei rivoluzionari. Vigono, nella normalità, le transazioni ed i compromessi, i ricatti e le vendette, la tecnica del gesuitico patteggiamento che discioglie tutte le fedi, che diluisce le intransigenze, che mina le barriere. Tutto si concilia. È positivismo, è connubio, è pragmatismo. Un filosofare che conviene mirabilmente ad ogni arrivista che vuole farsi accettare dall'indulgente mondo, grazie alla sua flessibilità, al suo ciarlare, al cinismo del suo successo. Le parole spirito, anima, idea, decadute a simboli barbarici, a detriti di una cultura oltrepassata. Le idee irrise, cacciate, inseguite, vessate fino all'estenuazione. Si è installata, trionfalmente, la concezione più borghese e più piatta, più tetra e più grigia, più normale e più burocratica dell'esistenza che si potesse immaginare. La superiorità dello spirito è pazzia, è avventura. La saggezza suprema sta nella pace, nella consuetudine, nell'usuale, nella tranquillità.

C'è uno stridente contrasto fra quell'Italia ideale fatta di grandi tradizioni, di grandi figure in cui una piccola minoranza ritrova sé stessa e le proprie radici, e quell'insieme dei piccoli uomini della «politica» che governa o che, fingendo, vi si oppone. Un governo lontano, come cosa distaccata e quasi aliena, rispondente ad interessi, abitudini e sistemi incomprensibili - se non addirittura repulsivi ed irritanti.

Ecco, allora, l'inutilità del presente se non riusciamo a credere nel possibile concepimento di una nuova società. Parole vuote ci hanno inondato per decenni: volontà popolare, masse, popolo. Che non sono altro che simboli astratti. Infatti, le conquiste politiche e le riforme sociali non si estraggono dalle masse amorfe, ma dalla volontà combattiva delle minoranze. Se accettiamo la democrazia come ordinamento, ne accettiamo anche la sua incarnazione in uno stato che realizza la schiavitù dell'uomo-consumatore all'uomo-produttore. Ovvero all'uomo che è cieco strumento del potere gelosamente conservato dalle mani di una ristretta consorteria.

Ed ecco, ancora, l'inutilità del presente se non riusciamo a capire che il potere è, per sé stesso, abuso di autorità. Perché l'autorità non può appartenere ad un «istituto»: essa appartiene agli uomini. Infatti, l'autorità di un «istituto» è, realmente, autorità degli uomini che quell'«istituto» reggono. È un congegno governato da alcuni uomini che intendono affermare il loro predominio. L'autorità esiste fra uomini e in ordine ad un fine sentito da essi come tale e che danno vita ad una società in cui lo spirito degli individui che la compongono e, quello spirito, manifestano. Fuori da questi limiti si può parlare solamente di un semplice fenomeno fisico: anche in una prigione si forma inevitabilmente una società, ma la prigione, come tale, non è una società. E poiché fra i motivi sociali dell'uomo vi sono diversità di genere e di categoria, e nessuno può ritenersi genere o categoria di socialità, essa deve essere esplicitata nella sua pluralità. Ogni categoria comporta una funzione umana distinta, una gerarchia propria, una propria forma di autonomia e libertà. Se proprio si vuole esigere una espressione che indichi una società ideale nel suo insieme -ciò che già avviene per il gruppo di "Tabularasa"- la si chiami pure «corporazione anarchica». In fin dei conti, il gruppo che si riconosce in "Tabularasa", lo sta da anni sperimentando. Ma forse ci stiamo un po' rammollendo. Riprendiamoci tutta la nostra cattiveria, il mondo che ci circonda merita solo disprezzo.

 

a.c.

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