«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 3 - 30 Giugno 1998

 

Giovani senza tregua

 

Il quarto rapporto dell'istituto di ricerca IARD sulla condizione giovanile in Italia, di recente dato alle stampe per i tipi del Mulino, è un'occasione stimolante per riflettere su quanto accade tra e nei giovani alle soglie del nuovo millennio. Il rapporto segnala alcuni cambiamenti, sia pur graduali, che attraversano quella fase della vita definita come post-adolescenza, progressivamente dilatata negli ultimi decenni, soprattutto a partire dagli Anni Ottanta: una sorta di limbo in cui non si è più (adolescenti) e non si è ancora (adulti). Sembrerebbe, a leggere quel rapporto, che i giovani comincino a non rinviare sine die l'appuntamento con le responsabilità, con le scelte, ovvero l'ingresso nel mondo degli adulti. Avvertono di trovarsi al centro di una grande trasformazione e si attrezzano ad affrontarla con gli strumenti psicologici di cui dispongono. Sono più realisti; rifuggono dai grandi obiettivi strategici; non credono ai grandi progetti; avvertono disagio verso tutto ciò che sa di pubblico, di collettivo; amano ritirarsi nel privato; nella solidità della famiglia, dell'amore, dell'amicizia: valori recepiti come essenziali a differenza, per esempio, della democrazia, della libertà; diffidano del prossimo, della politica; non hanno alcuna fiducia nelle istituzioni; hanno notevole interesse per l'associazionismo; quelli che dalla politica non sono nauseati, una minoranza, vengono attratti dai partiti con una marcata connotazione ideologica. Si tratta, com'è del tutto evidente, di dati, orientamenti e tendenze -alcuni anche contraddittori- che meritano di essere analizzati con maggiore profondità, vorrei dire con rigore scientifico. Ma non è questa la sede, se non per un commento «di superficie», confortato dalle esperienze che mi trovo a fare da un osservatorio privilegiato quale può essere il contatto professionale giornaliero con il disagio giovanile.

La prima considerazione, persino banale, riguarda la correlazione tra queste linee di tendenza, e i cambiamenti epocali che fanno vacillare certezze le sicurezze. Cresce, inevitabilmente, il pragmatismo, un certo utilitarismo, una complessiva sfiducia nell'altro, un atteggiamento di pessimismo che diventa quasi un sottofondo emotivo. E tuttavia, emerge, inatteso nelle pieghe del rapporto, una nuova ricerca del sacro, un bisogno di ideali «forti».

Del resto, i giovani crescono dentro queste società, vivono il loro tempo: corrono nel grande ipermercato sotto il peso di una nuova alienazione, sono catturati da disvalori e falsi miti; i modelli di riferimento sono generazioni di adulti pervase di egoismo, edonismo, rampantismo sociale; gli obiettivi che vengono sollecitati a perseguire sono il danaro, il soddisfacimento di bisogni materiali. Intanto, la società diventa un unico grande villaggio, per effetto della strabiliante rivoluzione tecnologica. Informatica, telematica, cibernetica, televisione interattiva, multimedialità, Internet: una immensa «rete» dentro la quale giovani ed adulti vengono intrappolati, dove la dimensione dello spazio dilata a dismisura e quella del tempo quasi si azzera. Di ben altri modelli, riferimenti, sicurezze ci sarebbe bisogno per affrontare, senza soccombere, questa sconvolgente transizione, di cui non è dato rintracciare alcun riferimento in precedenti fasi della storia: per la complessità, la portata, la drammaticità delle questioni nuove, inedite, che irrompono sulla scena dell'umanità, mandando in frantumi ogni precedente schema culturale, sociale, antropologico.

Ecco perché, tanto per fare solo alcuni rapidissimi esempi, nella società delle grandi comunicazioni di massa si avverte un'insopportabile incomunicabilità. Nel grande villaggio si resta soli, incapaci di stabilire relazioni vere, autentiche; ci si chiude nel recinto, a difesa della propria fragile individualità. La droga, le violenze, i suicidi: alcune delle spie, le più tragiche, di quel malessere esistenziale che avanza sotto traccia, invisibile, inarrestabile. Che fare? Anzi, che dire a questi giovani che camminano lungo il tunnel, appena scorgendovi lontani riflessi di luce? Che bisogna cambiare riferimenti culturali, modelli politici e sociali; cercare qualcosa per cui valga la pena di lottare, qualcosa che conti e resti oltre la vita che appare durissima e fragile, quasi fosse di cristallo. Soprattutto, che bisogna far presto. D'altra parte, ogni medaglia ha il suo rovescio e, anche nel nostro caso, esiste una prospettiva diversa, uno spazio nello spazio, una nicchia di libertà, un diverso approdo. Mi riferisco a quel fenomeno poco esplorato, per via di pregiudizi sempre duri a morire, costituito da centinaia di ragazzi e ragazze politicamente impegnati, che si definiscono con enfasi e fierezza derivanti dall'anagrafe: «solidaristi». Hanno scelto per simbolo un tridente, e per giornale un foglio intitolato, forse, alla condizione del loro animo inquieto: «Senza Tregua». Vi raccontano, simbolicamente, il loro viaggio esistenziale utilizzando la metafora del ritorno di Ulisse ad Itaca, tra difficoltà, privazioni, tentazioni, interminabili lotte. Ho avuto modo di frequentare il loro ambiente, per qualche tempo, e l'ho trovato ricco di fermenti ed entusiasmo al punto da sembrare incongruo rispetto all'universo giovanile del quale fa parte. Epperò, più che degli ultimi mohicani potrebbe trattarsi dei primi, se è vero che essi testimoniano di un modello psicologico e comportamentale, prima ancora che ideologico, alternativo a quello dominante, cui le generazioni che s'affacciano al nuovo millennio potrebbero guardare con interesse e speranza.

Un mondo autentico il loro, che rifugge dalla virtualità, che pulsa ancora di passioni vere, che ha rispetto per la vita, per l'altro; che difende identità, memorie, radici, differenze, tradizioni. Un mondo popolato ancora di cavalieri in armi, dove c'è posto per il mito, per il sacro. Sarà per questo che stanno ancora in piedi sul confine del nulla, con alle spalle le macerie di tante, troppe, certezze crollate e, davanti, la sterminata radura del presente. A ben vedere, però, il tratto distintivo di questi ragazzi -l'antagonismo rispetto alla concezione del mondo e della vita attualmente egemone- non è poi così esclusivo e potrebbe essere condiviso da gruppi collocati su versanti politico-ideologici, solo apparentemente inconciliabili. In effetti, se sapranno scongiurare il rischio dell'isolamento; se non si lasceranno rinchiudere nel ghetto; se cercheranno il dialogo, l'incontro, le inedite alleanze; se accetteranno nuovi compagni per il loro viaggio, avranno un ruolo e un compito di grande rilievo.

Hanno trovato, come dicono, l'antidoto al disagio, il vaccino contro il dolore dell'esistenza, contro il vuoto che opprime? Si ribellano all'omologazione? Contestano il modello esistenziale importato dall'altra sponda dell'Atlantico? Bene! La scommessa -che vuole essere un augurio- mentre li osservo con il disincanto degli anni che passano lasciando rughe, ferite e sogni consumati, è che essi sappiano condividere con altri questa ricchezza e prospettiva: prima che la palude catturi fantasie, empiti, esuberanza.

... A questi strani guerrieri, catapultati da chissà quale epoca e storia in queste società postmoderne, forse per cercarvi «un nuovo Dio, un'altra religione», giunga il grido di dolore dei giovani Sioux e sappiano ascoltarlo. Si uccidono in tanti, da quelle parti, in questi giorni. Sarà l'alcool, la disperazione, la povertà... magari la noia. Nei territori del South Dakota, dove Kevin Kostner ha ballato coi lupi, negli ultimi tre mesi cinque giovani pellerossa si sono tolti la vita. Altri 43 ci hanno provato e ci proveranno ancora. C'è allarme nella riserva di Standing Rock. «I nostri figli preferiscono morire piuttosto che diventare come noi» dice la madre di una ragazza di 14 anni che ci «ha provato» insieme ad un'amica e gli è andata male.

Da Wounded Knee giungono lamenti di pellirosse, uomini, donne, bambini trucidati dall'uomo bianco nell'ultimo massacro del 1891. Dal monte Rushmore i volti dei quattro capi bianchi li osservano severi, mentre camminano i sentieri dell'alienazione. Ridotti quasi a larve umane, dediti all'alcool, ai furti, agli atti di vandalismo... loro, eredi della Grande Nazione Indiana, di quel grande popolo Sioux che fu il primo a ribellarsi agli usurpatori della terra dei Padri, nel 1862; eredi del grande capo Nuvola Rossa che con Toro Seduto e Cavallo Pazzo sbaragliò il colonnello Custer a Little Big Horn, nel Montana. Larve umane? Meglio la morte: Manitu saprà farli tornare a correre liberi e felici sui sentieri di caccia delle verdi praterie.

... Storie di un'altra America che muore di emarginazione, tra whisky, schizofrenia e ricordi di glorie perdute. Oltre il confine della riserva, l'America di tutti i giorni. Luci ed ombre che s'inseguono lungo la way of life. Quattordici minorenni uccisi a scuola negli ultimi due anni; ragazzini di cinque sei anni che vanno alle «materne» o alle elementari armati come dei rambo, pronti a far fuori il maestro che li ha sgridati, il compagno che li ha offesi; adolescenti che sparano come fossero in pieno Far West, pronti a massacrare i genitori che non gli hanno dato ascolto, l'amico che fa la corte alla ragazza sbagliata. Storie incredibili, cronaca quotidiana di follie individuali che diventano collettive, rispetto alle quali siamo senza difese, increduli, sgomenti.

Non è forse tempo di domandarsi cosa ci sia in fondo a questa strada e di sceglierne un'altra, prima che faccia buio?

Purché non sia una strada senza uscita.

 

Beniamino Donnici

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