«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 3 - 30 Giugno 1998

 

Memoria - Archivio

 

Alto Isonzo 1917: ...
tra i reticolati e nelle trincee diventa padrona la guerra-lampo

 

Venuto meno il piano iniziale di Cadorna contro il cuore della monarchia austro-ungarica, la controffensiva di von Below raggiunge la Cima Grappa e il Piave.

 

Chiunque nel percorrere le contrade pedemontane di Lombardia orientale nonché quelle peculiari delle Tre Venezie dove i fiumi Adige, Brenta, Tagliamento e Isonzo si riversano ad abbracciare l'Amarissimo, quando ascende dai nuovi templi della tecnologia moderna oppure dalle terre della Serenissima Repubblica che si distinse col vessillo di San Marco (fu il simbolo vittorioso dell'unico Stato della nostra Penisola rimasto immune dalle contese guelfo-ghibelline!) verso i luoghi alpini tra il giogo dello Stelvio e la foce del Timavo, cioè in quei territori oggi famosi per i sacrifici ivi affrontati dai Soldati in grigioverde insieme alle genti residenti durante la Grande Guerra, poi nel 2° conflitto mondiale ed anche -con la cosiddetta liberazione- per la ferocia della bande jugoslave del compagno Tito nell'infoibazione d'innumerevoli Italiani dentro le doline carsiche e istriane e al successivo imprigionamento dei giuliani nel Territorio Libero di Trieste (1947-1953), sente -inserendosi in tali ambienti- l'ineluttabilità d'una verifica sulla rispettiva condizione di coscienza nazionale.

Ebbene, rammentando quanto J. S. Mill precisò con l'opera "Sulla Libertà" (1859), cioè il valore d'uno Stato è -a lungo andare- il valore degli uomini che lo compongono, è necessario fare i riscontri sulle cause della grande depressione morale provocata oggidì in ambito di Cultura, Scienza e Tecnica dal fallimento politico durante il XX Secolo degli esperimenti marxiani nella conduzione dei popoli e da quello del liberalismo per la sua sottomissione alle oligarchie della plutocrazia, in quanto arrecate dal ripudio di virtù dello Stato-Nazione nell'evoluzione effettiva della Civiltà.

 

La rivolta ideale dai compromessi

La vibrante protesta di A. Oriani, contro il servaggio della partitocrazia ai compromessi di convenienza, germogliò nel 1908 attraverso "La Rivolta Ideale" in cui tracciò l'indicazione più giusta per l'Italia a diventare Nazione sul solco d'una funzione univoca, quella di coscienze teorizzazione avanzata prima da J. Gottfried Herder (1744-1803) e poi da Gottlieb Fichte (1762-1814) nello splendore del Romanticismo, indicante il comportamento armonico delle conquiste storiche dell'Uomo nella salvaguardia della sua libertà politica e quello dell'equilibrio etico di Diritto ben superiore alla semplice congregazione di persone col circuito della sua evoluzione sociale. Si consideri però, che questi aneliti conseguirono la rispettiva sublimazione da quell'autentico sacerdote di Patria che fu Giuseppe Mazzini (1805-1872) nella sua coerenza alla religione del Dovere, maturata nella fedeltà all'Idealismo rivoluzionario, per cui specificò che la forza generatrice della nazionalità è l'ordinamento in gruppi omogenei dell'umanità sulla via del compimento della responsabilità comune.

Fu con tale coscienza che B. Mussolini nel 1914, dopo l'assassinio dell'erede al trono d'Austria-Ungheria a Sarajevo il 28 giugno e la conseguente deflagrazione bellica nell'intera Europa, si unì a C. Battisti, F. Corridoni, A. De Ambris, G. d'Annunzio e altri interventisti per la redenzione di Trento, Trieste e della Dalmazia all'unificazione nazionale. In questo si distinsero i mazziniani, sindacalisti rivoluzionari, liberali anti-giolittiani ed i nazionalisti.

Sulla neutralità ad ogni costo si schierarono i giolittiani, socialisti, clero e cattolici filo-absburghici, gli anarchici e la folta schiera d'industriali che si arricchiva fornendo forti quantità di materiale bellico ad entrambe le opposte fazioni. Per questo B. Mussolini abbandonò la direzione del quotidiano socialista "l'Avanti!" ed a Milano -in via Paolo da Cannobio- fondò quale vessillo d'autentica azione politica "Il Popolo d'Italia" in data 15.11.1914, promosso con l'editoriale "Audacia!". Così condannò il neutralismo opportunista del socialismo, aprendo l'ardimento del Pensiero politico per la libertà dei popoli, per l'avvenire d'Italia e il 13 dicembre successivo -alla scuola Mazza di Parma- specificò quant'è controverso che l'Italia abbia una borghesia nel senso classico della parola, per cui in questa Patria più che borghesi e proletari, ci sono dei ricchi e dei poveri elevando il canto di un'autentica giovinezza per la Nazione.

 

Quelle «tradotte» verso le trincee

Ma quanti di coloro che chiamati alle armi, per affrontare il conflitto nell'ampiezza di sacrifici che richiedeva, ebbero la coscienza del nuovo Dovere? Non tutti, ma parecchi. Infatti, quella del 1914-18 fu la prima guerra di massa che investì i governi interessati con nuovi problemi di complessa soluzione: i militari di professione -poco numerosi- poterono combattere guerre limitate, in nome del soldo o d'un sentimento di professionalità (carriera) e per onore militare (M. Isnenghi, "La Grande Guerra", 1993) ma la trasformazione di milioni di cittadini in soldati, abbandonando professioni e mestieri, fece maturare una comunanza di destino per tutelare le famiglie rimaste sole nelle città e nelle campagne, germogliò la coscienza patriottica e provocò il crollo della Seconda Internazionale, condannando la falsità dell'utopia di K. Marx.

Altresì, la Grande Guerra contrappose sulla fronte occidentale -tra estate 1914 e primavera 1915- i soldati tedeschi di von Poltke e poi di Falkenhayn alle truppe franco-britanniche dei generali Joffre e French in scontri furenti. Il mancato successo del Piano Schlieffen (aggiramento e conquista di Parigi) rinviò al 1939-45 il compimento reale della Blitzkrieg (la guerra lampo), perché tramutandosi da guerra di movimento in conflitto sanguinoso di posizione nelle trincee con giungle di reticolati (Mulhouse, la Marna, Ypres ecc.) svelò in maniera sconvolgente l'atrocità di combattimenti con le armi bianche più sofisticate e delle baionette.

Le tradotte che conducevano nelle fronti i nuovi rinforzi, al ritorno trasportavano soldati morti, feriti, invalidi, comunque sofferenti e divennero messaggere di sogni, d'ansie e di dolori.

Fu in tale atmosfera che il 24 maggio 1918 l'Esercito Italiano -condotto da Luigi Cadorna, il generalissimo -intraprese la sua belligeranza contro l'Austria-Ungheria ed i Soldati in grigioverde furono mandati con decisione sul Tirolo, la Carnia e il Friuli contro le forze nemiche dell'arciduca Eugenio e il suo Stato Maggiore.

Anche sulla fronte italiana i progetti offensivi dei generali -come in Francia, nell'Est europeo e nei Balcani- non difettavano di piani strategici e quello del generale Cadorna fu tra i più coraggiosi, perché mediante l'attacco delle nostre FFAA. prospettava per la IVª Armata (generale Nava) la conquista di Toblach (Dobbiaco), con quella di Carnia (generale Lequio) l'occupazione di Villach, con la IIª Armata (generale Frugoni) e con la Ilª (Emanuele Filiberto duca d'Aosta) l'avanzata oltre le Alpi Giulie verso Lubiana, in maniera di convergere tutte su Klagenfurt e Volkermarkt, diramandosi poi una metà verso Vienna e la parte restante su Marburg e Varasdin, per conquistare i territori della puszta magiara.

 

«... Monte Nero o vile monte ...»

L'impulso offensivo di Cadorna si scontrò con la tenacia difensiva del generale von Hotzendorf che però, non potendo contare sull'aiuto tedesco (il conflitto alla Germania venne deciso dall'Italia il 28.8.1916), utilizzò con efficacia le risorse naturali.

Sull'intera fronte, dallo Stelvio a Monfalcone, gli austro-ungarici sostennero le loro trincee con 342 battaglioni di fanteria o di altre specialità, 21 squadroni di cavalleria e 155 batterie d'artiglieria di calibri vari.

Lo scacchiere italiano invece impiegava 560 battaglioni di fanteria (dei quali 52 di Alpini, 67 di Bersaglieri), 175 squadroni di cavalleria, mentre l'artiglieria contava su 406 batterie da campagna (di cui 8 a cavallo), 28 pesanti campali, 76 da montagna e 40 da assedio.

Le Marine da guerra austriaca ed italiana disponevano di potenza analoga, ma nel lungo tratto Brindisi-Venezia (380 miglia) la costa adriatica della nostra Penisola era sprovvista di basi. Sfruttando il vantaggio di salde posizioni (il «cuneo trentino», gli altipiani di Folgaria e di Lavarone, le Dolomiti, il «campo trincerato» di Gorizia, il Carso ecc.) il nemico le usò come un unico caposaldo nel periodo 1915-17, contro cui l'eroismo del Soldato grigioverde divenne anche leggendario.

Per modello ecco l'impresa del 3° Rgt. Alpini che, nella notte 15-16 giugno 1915, conquistò il Monte Nero per issare il Tricolore tra la conca di Plezzo e di Piano Tolmino. Per rammentare ciò in modo giusto, sfogliamo l'antologia "Cantanaia" (1968) in cui L. Viazzi e A. Giovannini fanno risaltare la canzone onoristica di D. Borrella che narra «O vile Monte Nero / traditor della Patria mia / io lasciai la casa mia /per venirti a conquistar», poi sulla Tofana di Rozes el vecio generale Cantore il 20 luglio ebbe la penna mozza da un tiratore scelto dei Landesschútzen tirolesi e l'anno successivo -1916- a quota 1801 di Monte Corno i tenenti irredentisti C. Battisti e F. Filzi furono catturati dagli austriaci e, insieme a D. Chiesa, vennero impiccati nel Castello del Buon Consiglio a Trento. È utile rammentare che nell'arte difficile della guerra la Germania usufruì degli insegnamenti strategici di K. Clausewitz e di A. Schlieffen che tolse, senza titubanze, a qualsiasi signore della sciabola l'illusione di piani perfetti e il 20.11.1914, quando sulla Marna il contrattacco francese bloccò l'avanzata tedesca su Parigi, facendo subire alla guerra di movimento la metamorfosi in conflitto con le baionette nelle trincee, il generale H. B. Moltke annunciò al Kaiser: «Maestà, abbiamo perduto la guerra!» (F. Fadini, "Caporetto dalla parte del vincitore", 1992), ma specificando che tutti i suoi combattenti meritavano pienamente la qualifica superiore di Soldati della Patria-Nazione come insegnò ad onorarli il cancelliere Otto von Bismarck.

Per questo, in seguito alle continue spallate del generale Cadorna contro l'Impero danubiano (le 11 battaglie dell'Isonzo lo confermano), per evitare il crollo dell'Esercito austro-ungarico, la Germania inviò il generale Otto von Below -già distintosi a Tannenberg, sul Njemen e in Macedonia per capacità strategica- ad aggiustare la situazione sullo scacchiere della fronte italiana.

 

Il vero monito di Caporetto!

Frattanto, il conflitto in trincea inquadrò il soldato-massa nell'ambito del battaglione con cui il cittadino-combattente identificò -insieme ai compagni o camerati- la realtà di Patria. Così il Soldato semplice è chiunque -anche se perdente- sconfigge la vergogna della viltà e questo lo specificò il maresciallo Pétain inaugurando il 19.9.1927 l'Ossario di Duamont per onorare tutti i Caduti sulle fronti di Marna, Verdun e dell'intera Prima Guerra Mondiale, aggiungendo che con qualsiasi grado (dal più modesto in poi) rimane Soldato chi sente, vive e soffre la causa della sua Nazione.

La XII battaglia d'Isonzo fu -inoltre- ben diversa delle 11 precedenti e quando nella notte 23-24 ottobre 1917 von Below colpì il settore più debole del nostri schieramento tra Plezzo e Tolmino, anche con l'impiego di granate con gas venefici (il fosgene), catapultò 80 battaglioni di truppe scelte sui 100 battaglioni italiani ivi trincerati, travolgendo con l'efficacia della Blitzkrieg tutta la fronte giuliana, ma soprattutto la vecchia tattica della trincea-caposaldo. L'ordine n° 228 di Below aveva altresì stabilito che tutti i reparti della XIVª Armata devono puntare in avanti e marciare senza badare alle formazioni regolamentari e senza preoccuparsi dei collegamenti, cosicché le avanguardie tedesche si affacciarono ben presto ai ponti sul Tagliamento e soltanto l'eroismo e il sacrificio di lancieri e cavalleggeri in grigioverde frenarono la pressione nemica sino al 4 novembre, allorché Cadorna emanò la disposizione di ritirata generale sulle Prealpi trevigiane e sulle sponde del Piave.

Si può dire che quando la IVª Armata del Cadore, la IIª e la IIIª della fronte giuliana si trincerarono tra il Monte Grappa e il Monfenera, nonché sul Piave -da Pederobba e il ponte di Vidor sino alle Grave di Papadopoli- l'Esercito italiano (anche in virtù della capacità di resistenza della IVª Armata sull'altopiano dei Sette Comuni) realizzò quanto le truppe francesi del generale Joffre compirono nel 1914 sulla Marna, salvando Parigi dall'occupazione germanica. Quando Cadorna ultimò l'opera immane di trarre in salvo le nostre FFAA. dalla sconfitta di Caporetto (vol. 3° di Guerra italo-austriaca MCMXV-MCMXVIII, "Le Medaglie d'Oro", pag. 158, 1927) malgrado la perdita di 11.000 soldati, 29.000 feriti, 300.000 tra dispersi e prigionieri catturati dal nemico, lanciò ai combattenti il seguente vibrante appello: «Noi siamo inflessibilmente decisi; sulle nuove posizioni -dal Piave allo Stelvio- si difende l'onore e la vita d'Italia; (...) il grido e il comando che vengono dalla coscienza di tutto il Popolo italiano sono: morire, non ripiegare!» e venne ascoltato. Anzi, gettò il seme della riscossa che maturò tra l'Ortigara, Cima Grappa, il Montello e sulle rive del Piave, realizzando nell'anno successivo la redenzione di Trento e di Trieste.

 

Bruno De Padova

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