«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 3 - 30 Giugno 1998

 

La strategia di Rigoletto
 

Sull'evocazione di Maastricht come ultimo traguardo, come felice e naturale epilogo da cui far ripartire il Mondo c'è qualcosa da aggiungere?

Nei mesi pregressi, nei giorni che scorrono ed in quelli a venire parole interminabili, proclami e promesse solcano le cronache. La moneta unica pare diventata una sorta di farmaco per tutti i mali, quel fine a cui tutto subordinare e per il quale tutto sopportare.

Le critiche, ma anche solo le riflessioni più mirate, od i soli accenni ad un dubbio, vengono respinti. Con intolleranza. Ignorandoli.

Si sostiene che il dubbio è il vero motore del progresso, l'essenza della democrazia; si afferma -solennemente- che il confronto è la base del pluralismo. Lo dicono tutti. Televisione, stampa, libri didattici, perfino i breviari ed i trattati teologici. Ma la Parola è stata ormai pronunciata. Altisonante, gravida di significati, con l'alone della storia che pulsa. Europa sia, dunque. E per colui che non crede, il bando. Con infiniti e mesti saluti alla «civiltà del dialogo».

Tuttavia, forse, non tutto si è detto, non tutto si è scritto. Soprattutto perché l'europeismo da provinciali che assale i media e che si riverbera su una pubblica opinione impreparata come sempre, lascia inalterate le ombre. Ed i problemi. Non solo quelli legati ai costi. Tangibili e concreti. Non quelli connessi alle politiche di bilancio, di «recupero delle aree di occupazione» e di «rilancio dei modelli di mobilità».

I nodi irrisolti, sui quali appuntare l'attenzione, restano quelli riferiti alla strategia del futuro, alla sostanza che questa Europa nascente riuscirà ad esprimere e quindi a dare ai suoi cittadini. Alla sua identità che non può ridursi ad una grande piazza d'affari ma che dovrà allontanarsi dalla solita logica di mercato per costruirsi in profondità.

Quello che si rischia, e gli effetti si vedono, è di mettere in cantiere un castello di carte. Litigiosità, diffidenze, scalate, speculazioni, elettoralismi. I soldi e la politica, i premiers ed i conti pubblici -ma soprattutto quelli dei privati- stanno costituendo una miscela di fuochi d'artificio. Rumorosi e fasulli.

*   *   *

Nel mezzo si sono costruiti la loro nicchia gli euroburocrati. La pletora, cioè, di «esperti», «incaricati», «funzionari», «commissari», «delegati» e portavoce che hanno assunto col tempo un forte potere, se non altro di interdizione. Di interdizione attraverso la comunicazione «mediata» ed il filtro che, a Bruxelles, si è creato tra volontà politica -eterogenea e conflittuale- ed uditorio internazionale.

 

*   *   *

Questa Europa dei commissari e delle quotazioni in borsa, delle «direttive» e delle parallele «offensive imprenditoriali» sta crescendo bene? Si avvia ad una prima maturità, almeno?

Prima di dare una risposta si può anche guardare agli effetti perniciosi che i meccanismi di recepimento hanno sinora messo in moto nei paesi della Unione. Non tanto nel merito dei singoli provvedimenti e degli atti a contenuto normativo. Quanto sul fatto che, in sostanza, sono piovute addosso ai cittadini europei una serie di regole e sanzioni non supportate da una sovranità diretta, né precedute da dibattiti o consultazioni, e neppure da qualsivoglia tipo di ratifica. «È stato deciso»: bisogna adeguarci, costi quel che costi.

Che tipo di investitura ha questa nuova Europa? Chi ha ricevuto il potere, e da chi? Anche ad essere euro-ottimisti è difficile dare una spiegazione. Perché difficile è sostenere le ragioni di un mondo protocollare e irto di corridoi sconosciuti e blindati.

 

*   *   *

Insomma: l'Europa che si partorisce assomiglia ad uno sgorbio.

Cosa manca, allora, per varcare la soglia del traguardo? Cosa resta da fare per edificare una vera unità europea?

Serve un elemento importante, irrinunciabile. La volontà, diffusa ed attenta, di dare all'Europa una identità. Occorre che al Vecchio Continente si affidi una strategia politica e prima ancora culturale: una strategia di civiltà. E necessaria una prospettiva geopolitica, un grande dibattito sulle funzioni storiche e sull'utilità della proiezione, sullo scenario mondiale, di un soggetto forte. Capace di affrontare i pericoli che si delineano sin d'ora con la globalizzazione. l suoi effetti nefasti già si intravedono e le va contrastata una scelta di lungo respiro.

Per percorrere il cammino di una «rinnovata missione di civiltà e di sviluppo» -come spesso si dice- serve una volontà priva di timidezze e di insensatezze. Significa non farsi trascinare dai giochi egemonici di altre potenze, siano o meno consolidate. Osservando, con la massima attenzione, i movimenti ai quali soggiacciono via via le relazioni internazionali, ad iniziare da quelle -piene di future insidie- delle potenze nascenti.

 

*   *   *

Per fare questo non si può mettere da parte quel bisogno di identità, reale benché spesso ignorato, che l'Europa deve soddisfare.

Ed è per innalzare sull'orizzonte una identità riconoscibile ed appagante che si deve ripensare alla propria storia, ai propri paesaggi, alla dialettica che si è sostenuta attraverso il sangue, le passioni, i conflitti che hanno dato corpo a ciò che oggi siamo.

Recuperare la dimensione della storia, recuperare il senso e l'impronta di questa realtà immanente ma nascosta non è certo missione da affidare ai politicanti od alle mediocri credenziali dei partiti «buonisti», di destra o di sinistra, che hanno rinnegato ogni valore ed ogni autenticità. Non serve neppure confidare nelle borse, nelle quotazioni societarie o nel valore dei cambi. Tuttavia, malgrado ogni speranza, è più facile che -a breve scadenza- il gioco continui nella vecchia direzione. L'unità europea assomiglierà un po' all'avventura di Rigoletto. Buffo e deforme, deriso e destinato -anche nel desiderio di riscatto- alla tragedia grottesca ed alla burla.

Roberto Platania

Indice