«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 4 - 30 Settembre 1998

 

Un pacifismo per noi
(2ª parte)


 

L'operazione desert storm, da cui ha preso le mosse questo mio scritto, venne ufficialmente bandita, come dimenticarlo?, in nome e difesa della Pace. Ossia, nella prospettiva di una pace stabile e sicura, che seguisse l'inevitabile uso della forza verso chi, nonostante ogni buona volontà altrui, di pace non voleva proprio saperne. (L'altro rimarchevole motivo per quell'intervento «tutti contro uno» fu l'umanitario soccorso ad un piccolo, operoso emirato belluinamente invaso...) ... Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe ancora una volta da osservare. La storia è testimone di continui ricorsi alle grandi e nobili dichiarazioni, alla generosa profusione di principi, ideali e valori - spesi e utilizzati per ben più prosaici scopi. Da perseguire quest'ultimi, è prassi pressoché costante, attraverso lutti, sangue, atrocità varie.

Così va dunque il mondo, e così pare sia sempre andato.

Però - ecco il punto che è qui opportuno riprendere - una guerra... meno guerriera di quella del Golfo, non si era finora vista! Già il fatto che alla sua bellica esecuzione fossero stati nominalmente preposti non dei poco civici soldati, bensì dei bravi «poliziotti», la dice lunga, io credo, sul significato semantico della guerra d'inaugurazione del Nuovo Ordine Mondiale.

A livello massmediologico, poi, il termine «operazione» denotava manifestamente la volontà di circonfonderla in un'altra di asettico rigore, assieme all'immagine forte e tranquillizzante di fredda efficienza, di decisionistica managerialità... E i bombardamenti?! Non dovevano forse risultare anch'essi selettivi, chirurgici, precisi e pure intelligenti? E in ultima sommaria analisi: benefici, visto che essi venivano finalizzati alla (virtuale) distruzione del malefico Saddam?!?

Sì, la fiction americana giocò a tutto campo. E hollywoodianamente vinse, dal momento che tutto era stato predisposto e presentato per mostrarsi pulito, tecnologico, giusto, didattico, pacifico... Soprattutto pacifico, perché necessariamente opposto alle bellicose mire dell'«Hitler di Baghdad».

 

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Al di là dell'uso strumentale e/o ipocrita de «la Pace» e delle sue possibili declinazioni -di cui quanto precede rappresenta un caso davvero esemplare, a mio parere- resta significativo il fatto che nella nostra epoca, caratterizzata da un rapido, generale decadimento di fedi e ideologie (o addirittura segnato, come si vorrebbe, dalla fine della Storia), tale principio risulta costituire un insieme attuale, tuttora in grado di tenere, e di tenere il passo con i tempi nuovi...

Certo, attorno ad esso ruotano situazioni, mentalità, atteggiamenti molto diversi; spesso diversi (è il caso di aggiungere) da un nostro abituale modo di essere, o di rappresentarci, e di rapportarci con gli altri. Epperò si tratta di un principio plurale, quello che si manifesta con la parola-chiave «pace», che può aprirsi su realtà assai vaste e variegate, insolitamente coinvolgenti e potenzialmente destabilizzanti.

Avendo perciò in obbligo d'avere come quadro di riferimento lo scenario internazionale seguito alla morte del comunismo (che nemmeno la nostalgica evocazione dei più indefessi anticomunisti potrà mai riportare in vita! - N.B.), ben si comprende come la cessazione della «logica di Yalta» comporti il necessario ritiro di altre logiche, quali quelle derivanti dal non-allineamento, dall'antimilitarismo, dal neutralismo terzomondista, dall'equidistanza fra i blocchi.

Altrettanto ovvio che, venendo meno i tradizionali riferimenti del pacifismo d'antan, sarà da ricostruire alla base il concetto stesso di pacifismo. E procedere quindi per una sua nuova definizione sistematica, che ne veda da un lato l'aspetto per così dire pacifico, ovvero neutro e inertizzato, e, dall'altro, l'aspetto reattivo, conflittuale, antagonistico. Potremmo anche, proseguendo entro un simile schema, rifarci espressamente a Gianni Vattimo, e distinguere tra pacifismo forte e pacifismo debole.

Quest'ultimo, a sua volta, potrà essere classificato e suddiviso in irenologico e in apolemologico. In sintesi, il primo dei due sottosistemi è più propriamente supportato da una visione filosofico-religiosa che attribuisce alla pace un prioritario valore salvifico, subordinante ogni e qualsiasi altro valore, quali ad esempio il coraggio, il dovere, la dignità, e via dicendo. Il secondo tende invece ad identificare la pace come nonviolenza, come dialogo sempre-e-comunque, come esercizio di (formale) tolleranza e di (verbale) solidarietà per tutti, in vista di una società finalmente globalizzata, interazziale e monoculturale.

L'uno e l'altro sottosistema sono dunque accomunati da una incapacitante carica d'utopismo a sfondo umanitario, che finisce col tradursi in una resa al cospetto di quelle stesse realtà che magari si vorrebbero per davvero combattere. Concezioni propriamente deboli di pacifismo, le quali, quand'anche professate in buona fede, non tengono conto della vera natura dell'uomo. Uomo che, se pur modernamente plasmato, civilizzato e democraticamente svirilizzato, resta pur sempre un essere aggressivo e territoriale; ed al tempo stesso sociale, dato che egli avverte la necessità di far riferimento ai propri simili, e di competere con essi, per affermare la propria unicità.

Ma vi potrà anche essere, come prima accennavo, un altro genere di pacifismo. Quello che, con maggiori lungimiranza ed obiettività dei precedenti, non intendesse restare semplice spettatore dell'altrui predominio che s'ammanta di pace universale, unica e indivisibile.

Un «pacifismo diverso», quindi, che già è presente; e magari diffuso, almeno come stato d'animo. Presente fra coloro che avvertono come la Pax americana non sia affatto il coronamento dell'umano cammino, il fine ultimo della Civiltà e del Progresso.

È, quello forte, un pacifismo controcorrente. Che si muove pertanto in direzioni parallele, ma opposte ai pacifismi del tempo che fu.

E là dove quelli manifestarono cosmopolitismo ed ugualitarismo, qui si dovrà tendere al recupero delle proprie tradizioni e vocazioni nazional-comunitarie. E mentre quelli comportano rinuncia, subalternità, fuga dalla politica, il «pacifismo forte» rivendica la consapevolezza della propria storia, delle proprie specificità, dei propri destini.

È il pacifismo per noi; l'unico realisticamente percorribile con adeguato armamento.

Un pacifismo, il nostro, che si potrebbe a ragione definire nient'affatto pacifico...

Ossimoro a parte, è la storia stessa dell'uomo a nascere dal conflitto. Sono l'agonismo/antagonismo e il confronto/scontro a costituire il divenire dei popoli, delle razze, delle civiltà.

Ed allora le hegeliane pagine bianche nel libro della storia, il cui nitore appare oggi abbacinante, altro non esprimono se non una temporanea prevalenza di uno dei contendenti. Ma, «La lotta continua per l'eternità. Tutto accade in conformità a questa contesa, e proprio questa contesa rivela la giustizia divina» (Nietzsche).

Miglior epitaffio per la fine dei vari Fukuyama, credo non potrebbe trovarsi.

 

Alberto Ostidich

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