«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 4 - 30 Settembre 1998

 

«ENI 4» Cui prodest?


 

Il dibattito pubblico che ha preparato e accompagnato la privatizzazione dell'ENI non ha tenuto conto dell'esperienza storica, anzi ne ha ribaltato l'inequivoco monito. More solito, sono stati sbandierati principi astratti e preconcetti di partito: da un lato le arcaiche fissazioni stataliste di Bertinotti, dall'altro il preteso imperativo di una privatizzazione inutilmente ostacolata e procrastinata. È mancato un esame obiettivo dei reali interessi del Paese. La sottoscrizione dell'80% di «ENI 4» da parte di mezzo milione di piccoli risparmiatori italiani, salutata con toni trionfalistici, non può far dimenticare che al tempo stesso il Tesoro è sceso al di sotto del 51% del capitale ed ha così perso il controllo dell'Ente. Le rassicurazioni circa il permanere di un potere effettivo anche con una quota proprietaria ridotta non convincono. Troppo forti sono gli interessi stranieri in giuoco, troppo debole la capacità di decisione e di reazione dei piccoli risparmiatori. La porta che nemmeno il sangue di Enrico Mattei aveva aperto ai potentati del petrolio, viene loro spalancata dal governo delle sinistre, sotto le apparenze di un allargamento dell'azionariato popolare.

L'esilarante ottimismo con il quale in questi giorni molti credono che finalmente si sia riusciti a scaricare sulle spalle dell'Europa il fardello insopportabile della responsabilità di governarci è lo stesso che ci fa dimenticare quel lungo racconto dell'orrore che è la storia del petrolio. All'indomani della prima guerra mondiale, l'esclusione della sola Italia, fra le potenze vincitrici, dalla spartizione delle aree del crollato impero ottomano indiziate come probabili riserve di idrocarburi fu per il nostro Paese una delle più cocenti delusioni e una spinta verso la successiva, fatale scelta di campo. L'abitudine che abbiamo presa di misurare la politica in base a formulette di partito piuttosto che ai reali interessi, generali e durevoli, ci rende difficile comprendere oggi che se il fascismo sentì allora la necessità di creare l'AGIP, ciò non fu per dotare il regime di un carrozzone e di uno strumento di potere in più, ma per non far mancare al Paese una fonte di energia indispensabile al suo sviluppo economico. In mancanza di iniziative e capitali privati nella misura richiesta da questo specialissimo tipo di industria, creare uno strumento operativo pubblico era la sola alternativa possibile per poter affrontare con qualche concreta possibilità di successo l'elevatissimo rischio finanziario delle ricerche e le formidabili pressioni politiche connesse all'acquisizione dei diritti di prospezione ed allo sfruttamento dei risultati.

Ma, per valutare il diverso modo di reagire, oltre che la diversa dimensione, del pubblico e del privato nei confronti degli interessi petroliferi, può essere interessante rievocare le circostanze in cui all'AGIP prebellico ha fatto seguito l'ENI. Quando la liberazione impose di liquidare tutti gli enti fascisti in quanto tali, indipendentemente da precise considerazioni economiche, l'ing. Zanmatti, capo delle ricerche dell'AGIP, cercò di parare il colpo in tempo. Andò dall'ing. De Biase, che in qualità di amministratore delegato della società elettrica Edison aveva in mano la più forte capacità finanziaria italiana dell'epoca, e gli disse che le ultime trivellazioni, in particolare il pozzo Caviaga Uno, interrotto dalle operazioni belliche, aveva tuttavia accertato, alla profondità precedentemente mai raggiunta di oltre mille metri, la presenza di un importante sinclinale gassifero, struttura geologica di natura radicalmente diversa dalle esigue sacche impregnate di molta acqua e poco gas, a poche decine di metri di profondità, sfruttate in precedenza nel Delta padano. Per conseguenza, il metano italiano aveva fatto un vero e proprio salto di qualità e sarebbe sicuramente diventato nell'immediato futuro una risorsa di enorme importanza per la nostra economia.

De Biase rispose che il metano era un prodotto autarchico e come tale non degno di attenzione di fronte alla prospettiva della imminente apertura dei mercati internazionali e del venir meno di ogni condizionamento politico degli approvvigionamenti. Zanmatti, del quale nessuno oggi ricorda il nome, non si dette per vinto. Quando il partigiano Mattei fu investito dal governo del compito di liquidatore dell'AGIP, Zanmatti illustrò anche a lui i risultati della ricerca in corso. E il politico statalista capì e potè quello che il massimo imprenditore e finanziere italiano, economista e liberale, non aveva capito o non aveva potuto.

I tempi obbligavano Mattei a non essere del tutto un uomo dello Stato, ma anche un uomo di partito. Va riconosciuto che l'imposizione del monopolio pubblico alle ulteriori ricerche in Val Padana, l'esclusione da esse delle grandi compagnie straniere e la creazione dell'ENI non furono soltanto un potente strumento di promozione economica, ma anche un fatto di potere politico e partitico. L'acquisto di un quotidiano e di propri parlamentari segnò la nascita di uno Stato nello Stato. Fu l'inizio del centrosinistra e la scuola della corruzione. Ma fu anche uno dei punti di forza dell'azione pubblica nell'economia. Non a caso Mattei divenne la più rilevante personalità politica italiana di questo dopoguerra: non riducibile nei limiti di alcun partito, sicuramente all'altezza della insostituibile funzione dello Stato, capace -se gli avessero consentito di vivere- di imprimere un corso diverso alla politica italiana. Ebbe nemici interni, non meno accaniti di quelli esterni. Ben presto il suo ENI divenne una potenza internazionale. Si presentava come alternativa alle «Sette Sorelle» nell'Iran di Mossadeq e come prospettiva di indipendenza in Algeria. In Sicilia gli impianti di Gela erano una delle maggiori realtà industriali. Che la mafia abbia prestato qualche manovalanza per sopprimere Mattei è possibile. Che i francesi e gli americani se ne augurassero fortemente l'eliminazione è certo. A prescindere dalle responsabilità, che in questa come in tante altre tragedie italiane restano al di sopra della nostra giustizia, è significativo degli interessi e contenuti prevalenti nella politica e nella opinione pubblica del nostro Paese il diverso trattamento riservato alla uccisione di Moro e alla uccisione di Mattei. La prima continua ad offrire inesauribile materia alla rissa politica, la seconda, che investe «soltanto» un interesse nazionale, è stata ammessa con trent'anni di ritardo, e subito archiviata fra la generale indifferenza.

Che cosa è realmente cambiato oggi nella contesa per gli idrocarburi? Probabilmente nulla. L'embargo irakeno continua ad essere condizionato dalle posizioni americane nel Golfo. La guerra in Cecenia è stata in sostanza una guerra petrolifera, la cui posta sono le nuove enormi riserve dell'Azerbaigian e del Caspio e le vie alternative degli oleodotti, in area russa o attraverso il Mar Nero e la Turchia. Se il nostro ENI non è del tutto assente, come ricercatore, come utilizzatore e come costruttore, dalla gara alla quale partecipano in questo momento, senza esclusione di colpi, gli americani, i russi e gli altri, il fatto di avere o non avere dietro le spalle uno Stato non è cosa che non conti.

In oltre mezzo secolo, per le vicende accennate, prima l'AGIP poi l'ENI non sono riusciti a metter le mani su grosse riserve di petrolio. (Andrebbe raccontata la vera storia delle prime ricerche italiane in Libia e della successiva scoperta americana di Zelten) Ma ha potuto comunque essere accumulata una formidabile capacità tecnica e creata la più estesa e importante struttura di trasporto e commercializzazione di gas naturale attraverso il Mediterraneo e fra la Russia e l'Europa. Patrimonio che può far gola o dar fastidio a potenze finanziarie straniere ai cui programmi e azioni, palesi e occulti, sostenuti sempre dalla politica -sovente dalle armi-, l'azionariato privato italiano, piccolo o grande che sia, non è in grado di obiettare alcunché.

 

Cesare Pettinato

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