«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 5 - 15 Novembre 1998

 

Niente sussulti: è «la terra dei morti»

 

«Quel che non perdono al mio tempo non è quello di essere vile,
ma di dover costruire ogni giorno l'alibi della propria viltà diffamando gli eroi»
Adriano Romualdi

 

Sconsacrata la Storia. Tra le catastrofi della civiltà e l'inabissarsi della cultura assistiamo impotenti, anzi, sottomessi alla volontà di mezzani inverecondi. Noi pure. Noi che per libera scelta decidemmo di non avere protettori e santi in paradiso, che ci eravamo prefissi lo scopo -per la durata della nostra vita- di mantenere viva la memoria in difesa delle nostre radici, stiamo ammainando la bandiera della nostra identità. Come se il vissuto del nostro passato fosse stata una turba mentale della quale ci stiamo liberando, bramando di godere, in vista dell'insperata guarigione, i frutti che ci vengono offerti: la quiete, la cura dei fatti propri, l'apatia per quanto accade.

Viltà. Dimissione da quella parte di popolo che ancora eravamo, immissione in quell'ammasso di individui che è plebe, che non conosce il senso della dignità individuale. Che non conosce la lotta, che non ce la fa (non vuole) ad uscire dal suo angusto e bestiale isolamento.

E invece questo è il tempo per costruire, per proiettare sul presente il nostro passato, i fatti e le idee che erano già futuro, non con la gretta speranza di ammansire possibili nemici, ma con il proposito di lavorare tra queste macerie. Il passato. Se ci pensiamo, era stato già tutto scritto. Solo in «quel» passato, all'interno e all'estero, gli Italiani fecero molte più cose, dimostrarono una molto più attiva solidarietà fra di loro di quanto non avessero fatto per secoli o addirittura per millenni. L'intensità di collaborazione fra Italiani raggiunta in certi momenti del fascismo fu, almeno in un certo senso, un fatto assolutamente nuovo e inedito nella Storia.

Grazie alla nostra concezione spiritualista della vita abbiamo la facoltà di vedere più a fondo nella storia e di coglierne la continuità, attraverso l'alterna vicenda della fortuna propizia o avversa. E questa concezione della Storia non solo ci permette di vedere più a fondo, di apprezzare la grandezza di «quel» passato e di capire le ragioni delle difficoltà da esso incontrate, ma anche di valutare la portata della potenziale virtù trasmessa all'anima italiana. Ed è penoso, oggi, vederci assegnare, con un giudizio inappellabile, una vera e propria inferiorità; per cui dovremmo contentarci di avere nella storia quel posto e quella funzione di secondaria importanza dietro la guida dell'impero d'Oltreoceano.

Dobbiamo capire che la Storia è dramma e non può risolversi in un idilliaco meccanismo di astratte libertà egoiste. Solo nello svolgimento del dramma fedelmente accettato e vissuto con i suoi determinati doveri fino al sacrificio, si può dar vita ad una sicura e sincera solidarietà. E se riusciamo a liberarci dai chiusi schemi dell'astrazione, possiamo guardare più addentro nella nostra anima ed a capire meglio la continuità del nostro passato e le vie del suo sviluppo futuro. Nel campo degli immediati interessi politici come nel superiore campo delle idee, nei rapporti che abbiamo avuto con esse durante la storia passata come nei rapporti che abbiamo e dobbiamo avere con esse attualmente, bisogna apprendere e giudicare con la serenità di una mente pienamente formata, senza quei giudizi generalizzati che servono solo a velare la visione della realtà storica e dei suoi problemi concreti; senza cieche fiducie e senza timori prematuri, accettare il dramma della storia con il necessario gioco di consensi e di contrasti, riconoscendo valori e disvalori negli altri come in noi stessi, con la buona disposizione ad apprendere, sì, ogni elemento di valore dagli altri, ma con la volontà certa di una nostra nuova ascensione degna della grandezza del nostro passato.

Se non ci arrendiamo, noi possiamo condurre a termine la nostra missione per impedire, a questo sistema -che ha oggi tutti i mezzi- di incapsulare, fissare e automatizzare le determinazioni degli uomini, e controllare gli strumenti mediante i quali essi possano mai ottenere una qualsiasi forma progredita di conoscenza. L'uomo, d'altronde, mai come oggi ha avuto bisogno di sentirsi organicamente assicurato nelle sue fondamentali necessità, e mai come oggi questa sicurezza è dipesa da un vasto, fittizio e delicato sistema di rapporti.

Se non riusciremo a convincere questa plebe a divenire popolo, il sistema può ridurre questa società alle forme immutabili del formicaio o dell'alveare, cioè a qualcosa che non è più una società umana, e anzi, nel senso dei valori, è l'opposto. Una possibilità disastrosa e allucinante: ma sappiamo quanto sia adattabile l'essere umano e quanto, esso essere umano, sia suggestionabile e abitudinario.

 

a.c.

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