«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 5 - 15 Novembre 1998

 

Gianfranco Fininvest, il bue che chiama cornuto l'asino

 

 

Prima durante e dopo la soluzione della crisi di governo Gianfranco Fininvest, Fondatore del partito dei Fiuggiaschi ed Eroe della Desistenza, nulla ha risparmiato a cossighiani e cossuttiani. Sulla falsariga, del resto, del suo datore di lavoro di Arcore. Dismesso il look perbenista e ultramoderato da baronetto inglese impostosi per significare all'inclita e alla guarnigione il suo ingresso dichiarato e definitivo nel sistema capitalistico-benpensante, si è lasciato andare a un eloquio degno di una osteria da suburra. I malcapitati che, da destra e da sinistra, si erano rifugiati nella novella maggioranza baffettiana sdoganata dal Quirinale e benedetta dal Picconatore, sono stati investiti da un tornado di maleparole dal successore di Almirante. Trasformisti, traditori, venduti, voltagabbana, imbroglioni, violatori degli impegni assunti con gli elettori e chi più ne ha più ne metta. Intendiamoci, caro Lettore: non impugniamo la penna per difendere cossighiani e cossuttiani, tutta gente cui non portiamo il benché minimo interesse. Non intendiamo tutelare chicchessia, comunque e dovunque collocato nel contesto politico-parlamentare.

Comunque e dovunque collegato all'area del governo o a quella delle opposizioni berlusconiana e bertinottiana. La nostra indignazione per gli squallidi comportamenti di Gianfranco Fininvest e della sua tribù di girella e di arlecchini di infimo conio può vantare una salutare autonomia, per non dire uno splendido isolamento.

Di che si tratta, allora? Di questo: noi neghiamo il diritto morale di attaccare i deputati che si sono trasferiti, per qualsiasi motivo, dal campo del ras di Arcore a quello del leader della Quercia e di Francesco Cossiga. Diritto morale che, viceversa, pienamente riconosciamo a qualsiasi altro italiano che si sia persuaso in buona fede (ossia non condizionato da puro spirito di parte o da acritico tifo partitico) della censurabilità delle scelte operate da coloro che hanno consentito a Massimo D'Alema di darsi una maggioranza. E perché gliela neghiamo? È presto detto: perché il suo è il classico caso del bue che dice cornuto all'asino. Lui è passato, con il cinismo e la sprezzatura di un sergente messicano, dal campo del fascismo (sia pure soltanto presunto) a quello dell'antifascismo, trascinandosi dietro un partito, il MSI, che vantava la propria impermeabilità ai vizi e alle magagne del «sistema» oltre che una fedeltà d'acciaio alla sua identità storica e ideologica, ma alla prova dei fatti, disvelatosi ricettacolo di doppiogiochisti, di procaccianti, di Fregoli in sedicesimo, di rinnegati, di intellettuali-squillo in cerca di sistemazioni di prebende di qualsivoglia pubblicazione disposta a consentirgli il dilagare delle loro firme permanentemente in vendita. Nel migliore dei casi (si fa per dire) la platea di Fiuggi del gennaio '95 risultava inflazionata da plagiati, da rassegnati, da autosconfitti e insomma da personaggi, personaggini e personaggetti con le braccia alzate dopo essersi rifiutato di combattere onde più e meglio dimostrare il proprio idealismo accorrendo eroicamente in soccorso del vincitore.

 

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La volgarità dell'operazione posta in essere dal braccio destro del cavaliere Azzurro è dimostrata dalla sua ovvia strumentalizzazione ai Fini (proto, si raccomanda la maiuscola!) dell'ingresso in un governo da operetta composto da monarchici che giuravano fedeltà alla repubblica (Fisichella), da traditori dell'unità nazionale che giuravano di difendere una Costituzione nella quale spicca il valore imprescindibile dell'indivisibilità della Nazione italiana (Maroni), da cosiddetti «post-fascisti» che accettavano il criterio delle tombe di Serie A, -quelle partigiane- contrapposte ai sepolcri di Serie B -quelli dei soldati della Repubblica Sociale Italiana (Tremaglia)-, da nazionalisti reclamanti la restituzione dell'Istria e della Dalmazia che accettavano di collaborare con chi apertamente proclamava la propria volontà di svellere dal corpo della Nazione la sua parte settentrionale e oltre. Un governo il quale, assicurava il capataz dei fiuggiashi, era destinato a durare anni e anni ma che, viceversa, dopo sette mesi si ritrovò nel cestino della Storia.

È di certo un segno dei tempi che costui, dopo avere gettato il ritratto di Mussolini nella pattumiera, dopo aver rinnegato platealmente gli ideali della RSI e del primo MSI (quello vero: quello di Giorgio Pini, di Bruno Spampanato, di Beppe Niccolai), dopo essersi idealmente collegato ai tifosi di Radio Londra edizione '40-'45, dopo avere (forse) mollato Giorgio Almirante malauguratamente autore della sua fortuna politica (ma la Signora Assunta perché non si decide a parlare, a dirci se le risulta che suo marito approverebbe questo comportamento del suo pupillo?), dopo aver sposato la causa degli Stati contro cui l'Italia aveva combattuto, dopo avere asserito -dicendo un'autentica cretineria- che si doveva esclusivamente all'antifascismo se l'Italia aveva recuperato la libertà (mentre è noto lippis et tonsoribus che il fascismo venne abbattuto solo con la vittoria delle armi degli «Alleati»), è un segno dei tempi, ripetiamo, che egli si impanchi a giudice della moralità politica di coloro i quali, anche se fossero putacaso colpevoli di ciò che lui gli addebita, avrebbero peccato infinitamente meno di lui.

Si vergogni, se ne è capace!

 

Catilina

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