«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 5 - 15 Novembre 1998

 

Le bellicose culture degli Anni Venti in un saggio di Fulvia Ferrari

 

Gobetti e Malaparte:
carissimi nemici uniti
dalla intransigenza

 

 

 

È ammissibile -sotto il profilo etico prima ancora che rispetto a quello politico- il rapporto di amicizia, di reciproca stima, di confronto culturale, di ricerca comune sia pure attraverso una dialettica «armata» irradiantesi dai due versanti della barricata, fra un fascista e un antifascista? Più precisamente un intellettuale fascista e uno antifascista, ambedue di eccezionale spessore e destinati, in virtù dei loro pedigree dottrinali polemici-letterari, a gloria imperitura?

Sia il fascista che l'antifascista, almeno sic stantibus rebus, risponderebbero negativamente. Anzi, il fatto stesso di porre loro il quesito risulterebbe, ai loro occhi o alle loro orecchie, sicuramente strampalato, offensivo, provocatorio. E, altrettanto certamente, l'incauto «provocatore» rischierebbe un clima di diffidenza, di riprovazione da cui la sua reputazione politica e, magari, morale non ne uscirebbe illesa.

Eppure, non è propriamente questo il messaggio che ci perviene dagli Anni Venti, da certi quartieri alti -meglio altissimi- del Littorio e dei suoi naturali nemici. Ci ricorda ciò la dottoressa Fulvia Ferrari con un brillante saggio "Mussolinismo, revisionismo e intransigentismo fascista" che di recente ha visto la luce in una collettanea edita dal Centro Studi Piero Gobetti di Torino, dedicata, appunto alla illustrazione di aspetti assolutamente significativi del pensiero dell'opera dell'azione del celeberrimo fondatore de «La Rivoluzione Liberale».

Della predilezione dell'antifascistissimo Gobetti per il fascistissimo (allora) Curzio Suckert Malaparte, e, in certo senso, per il «ras» Roberto Farinacci, e nonché, a ben vedere, per tutta la corrente «intransigente» del movimento delle Camicie Nere, avevamo già letto e sentito in varie occasioni e tuttavia come negare che il monitoraggio ferrariano contribuisce meritoriamente a fare il punto su quelle ormai remotissime vicende -con il loro carteggio di tematiche e problematiche di attualità, di cui si evidenziano come le radici più profonde- anche mediante una serie di spunti e punti di riferimento, di materiali e materie ulteriori magistralmente utilizzati ad onta del non straripante spazio accordato alla trattazione del complesso e arduo argomento?

Ma vediamo qualche tratteggio, rapido epperò efficace, dell'«intransigentismo» così come scaturisce dalla penna dell'autrice: «L'anima intransigente del movimento fascista aveva nella massa degli squadristi e nei ras provinciali le sue forze costitutive. Gli intransigenti individuavano nel partito il centro vitale del fascismo e ne rifiutavano la normalizzazione entro il quadro della legalità e dello stato, fosse pure lo stato governato dai fascisti e fascistizzato. Il capo indiscusso del "fascismo del manganello" (l'espressione è di Gobetti) era Roberto Farinacci; il suo interprete più originale e raffinato Curzio Suckert. Insieme rappresentavano la voce del fascismo antiparlamentare e antintellettuale, profondamente irrequieto e rivoluzionario, che si considerava il vero autore della rivoluzione fascista come del potere di Mussolini».

Chi è in possesso di un minimo di cultura storica sa benissimo chi era Roberto Farinacci. Forse sa meno di Curzio Suckert Malaparte politico. Costui era l'ideologo dell'«intransigentismo», cui forniva peculiari elaborazioni attraverso le pagine de "La conquista dello Stato", rivista teorica da lui fondata e diretta. Per soprammercato, ricopriva la carica di segretario dei sindacati fascisti di Firenze. Sul Curzio-pensiero così si esprime la Ferrari: «L'articolo "Fascismo storico e Fascismo politico (Farinacci e Rocca)" di Curzio Suckert può essere considerato una sorta di manifesto dell'intransigentismo fascista. Suckert interpreta la polemica tra revisionisti e intransigenti come l'antitesi fra la Roma liberale e parlamentaristica, "incapace di crearsi in Stato o di conquistare lo Stato", e le province fasciste "custodi e animatrici della rivoluzione". Di tali antitesi, Rocca e Farinacci sono le figure più rappresentative: il primo incarna «la tendenza politica del fascismo (tendenza liberaloide, nata e sviluppata a Roma dopo l'ottobre 1922), il secondo quella storica, nata nel 1919 nelle province e fino ad oggi conservatasi immune da ogni inquinazione liberale e parlamentaristica». È questa seconda tendenza a costituire, per Suckert, il centro vitale e la forza propulsiva del regime: «la salute del fascismo riposa ormai nelle Province, nello spirito rivoluzionario che vuol conquistare lo Stato all'Italia e in esso annullarsi». Queste asseverazioni appaiono, prive di firma, su "La conquista dello Stato" del 10 luglio 1924.

Chi era Massimo Rocca? Un ex-anarchico diventato fascista e aggregatosi alla tendenza revisionista facente capo a Giuseppe Bottai e alla sua rivista "Critica fascista". Nemico acerrimo di Farinacci, innescò affocate polemiche con il cosiddetto «ras di Cremona», le quali in un crescendo rossiniano, raggiunsero il diapason. Fu allora che lo stesso Bottai si vide costretto a sconfessarlo e a dissociarsi da lui. Caduto in disgrazia, espulso (se ben ricordiamo) dal Partito Nazionale Fascista, andò in volontario esilio nel Belgio da dove ritornerà alla fine della seconda guerra mondiale. A Roma svolgerà una intensa attività pubblicistica soprattutto nelle pagine de "La Rivolta Ideale", il settimanale diretto dal giornalista e commediografo Giovanni Tonelli, e pubblicherà volumi di memorie fra cui "Come il fascismo divenne una dittatura".

 

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Interessante notare, e annotare, che Fulvia Ferrari coglie un aspetto della pubblicistica dei gobettiani volto alla valorizzazione del «fascismo storico» rispetto al «fascismo politico». Ciò nel quadro di una innegabile «strategia dell'attenzione», talvolta perfino venata da non celate simpatie nei confronti della frazione intransigente del fascismo. Un esempio? Pare a noi acconcio citare il caso di Alberto Cappa il quale nell'articolo "La lotta delle generazioni. La generazione del manganello" -compreso nel volume "Le generazioni del fascismo" edito nel 1924 a Torino dal Gobetti nella sua veste di editore- non esita ad affermare, scrive l'autrice, che «i giovani squadristi, che esprimono nei simboli tetri e nella violenza il tormento, la febbre di vita, l'insoddisfazione che li tortura, per Cappa rappresentano la vera generazione fascista, e le sole forze che hanno contribuito attivamente a provocare il rinnovamento politico». Il pezzo è del 9 ottobre del '23 ed è siglato con lo pseudonimo Grildrig.

Ma più e meglio del Cappa è il Gobetti a spendersi in pro del massimalismo fascista. Lo fa, e da par suo, in un saggio dall'inequivoco significato, annunciato da un titolo strabiliante: "Elogio di Farinacei". Trattasi di due puntate ("Commento quotidiano", "Uomini e idem"), apparsi nelle pagine di "La Rivoluzione Liberale" rispettivamente il 9 ottobre del '23 e il 19 febbraio del '24.

L'amico e sodale di Antonio Gramsci esordisce con una considerazione intinta nell'acido prussico: «Non solo come uomini politici, ma come coscienza, per disinteresse e austerità personale, i ras Farinacci, Baroncini, Forni, sono superiori a tutta la schiera dei ciarlatani del revisionismo».

Ed ecco alcune caratteristiche attinenti, secondo l'intellettuale liberal-rivoluzionario, alle personalità testé da lui elencati.

Gino Baroncini -secondo la Ferrari «persona non colta ma con il fiuto dell'uomo pratico»- rappresenterebbe il fascista «per esasperazione ribelle».

Roberto Farinacci simboleggerebbe «la rivoluzione, il principio dell'autogoverno, la sovranità popolare» e verrebbe in evidenza come «il tipo più completo e rispettabile che abbia mai espresso sinora il movimento fascista».

Di Forni non ci dice nulla, il giovanissimo scrittore-editore torinese morto a soli 25 anni, mentre si diffonde volentieri sul suo amico-collaboratore (questa la definizione ferrariana del personaggio) Curzio Suckert Malaparte, il cosiddetto «Arcitaliano» dandone una valutazione più complessa, più problematica. Nell'articolo "Profili di contemporanei: l'eroe di corte", il pratese viene proposto come «un barbaro profeta deluso dal senso oceanico della vita, un cattolico fanatico, un italiano fazioso, un patriota arrabbiato che sogna da tempo una rivoluzione antipolitica». Appare quasi scontata, pertanto, la conversione del «dilettante del bolscevismo», Kurt Eric Suckert Malaparte, nel fascista Curzio Suckert: il «longobardo» di Prato «si era abbandonato alla seduzione della rivolta proclamata dal regime, trasformandosi, da eroe mancato, in recluta necessaria di una rivoluzione di disoccupati (spiritualmente)».

Malaparte non è certo tipo da lasciare senza replica parole come queste. Così in una lettera recante la data del 21 gennaio '24 conferma la propria militanza fascista iniziata il 20 settembre del '21, data della iscrizione al fascio di Firenze, epperò rigetta l'addebito di «dilettantismo» e, soprattutto, quello di «eroe di corte». In proposito dice: «Tu non puoi negare che in quanto a libertà di giudizio e a spregiudicatezza io non sono secondo a nessuno. Non puoi negare nemmeno che in seno al fascismo io rappresento qualcosa di preciso, direi quasi di "personale". Non imito nessuno; il mio fascismo me lo sono creato io... Ciò non toglie che io sia un fedele di Mussolini. Ma non un buffone di corte».

Per inciso: a chi pungesse vaghezza di approfondire il tema del rapporto intellettuale fra i due «carissimi nemici» di cui veniamo qui discorrendo, suggeriamo la consultazione del loro carteggio -snodantesi fra l'agosto '22 e la fine del '25- nella sede dell'archivio del "Centro Studi Piero Gobetti" di Torino. Trattasi di documentazione probabilmente non esaustiva, ma inoppugnabilmente preziosa in quanto attinente alla collaborazione editoriale fra prestigiosi esponenti di due aree culturali cui il sonno della ragione imponeva la logica ferina dell'odio, dell'incomunicabilità, della distruzione reciproca.

 

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Torniamo alla prosa della Dottoressa Ferrari. Nell'avviarsi alla conclusione del capitolo dedicato all'«intransigentismo», appare colpita dal reciproco confluire dei due fraterni avversari verso le rispettive analisi del fenomeno fascista. Vediamo: «questi rapidi profili illustrano i tratti salienti del fascismo intransigente e lasciano trasparire le ragioni -per certi versi affini a quelle addotte da Suckert in "Fascismo storico e Fascismo politico (Farinacci e Rocca)"- del singolare giudizio gobettiano. Per Gobetti gli intransigenti rappresentano la voce delle province italiane e sono il simbolo di un fascismo libero da sovrastrutture intellettuali, non parlamentarizzato, ostile ai compromessi e agli opportunismi di cui si nutriva da sempre la politica italiana. Certo egli è consapevole che, in molte province i ras "hanno continuato, ingigantito il parassitismo rosso", ma ritiene che, riferendosi ai revisionisti, "i veri affaristi" siano "quelli che si godono gli stipendi a Roma fabbricando teorie. I veri affaristi sono gli intellettuali, non questi sani analfabeti che scrivono gli articoli sgrammaticati, ma sanno tenere la spada e il bastone in mano"». Dove non si capisce bene cosa intende l'irrefrenabile polemista liberale-rivoluzionario per «parassitismo rosso»; e in che senso e in qual modo i cosiddetti «ras» lo avrebbero «continuato» e, addirittura, «ingigantito». Su ciò le arroventate (come sempre) righe gobettiane non offrono spiegazione alcuna. Diremmo, a occhio e croce, che lo scrittore faccia sprezzante riferimento -ma, sia chiaro, il disprezzo è tutto suo- a ciò che ritiene una sorta di abborracciato ed elementare «stato sociale», a un assistenzialismo irresponsabile e, per così esprimerci, naif, costruito a livello municipale dalle amministrazioni socialiste. Non si dimentichi che il Gobetti era sì un rivoluzionario -Gramsci gli aveva affidato la rubrica di critica teatrale (allora importantissima) de "L'Ordine Nuovo" e dirà di lui, dopo la tragica morte, che «la classe operaia gli doveva molto»- ma anche un liberale, sia pure, per dirla ancora con il teorico dei «Consigli di fabbrica», professante una ideologia nella quale «i princìpi del liberalismo vengono proiettati dall'ordine dei fenomeni individuali a quello dei fenomeni di massa. Le qualità di eccellenza e di prestigio nella vita degli individui vengono trasportate nelle classi, concepite quasi come individualità collettive». E, in quanto liberale, aveva, forse, in uggia e in dispetto il cosiddetto «assistenzialismo», il cosiddetto «populismo»; termini, a nostro avviso, niente affatto negativi e disdicevoli una volta ripuliti della valenza demagogica ad essi del tutto arbitrariamente prestata. E se questo era il «parassitismo rosso» davvero non ce la sentiremmo di gettare la croce addosso ai famosi «ras», il più tosto dei quali, il più volte citato Farinacci, dallo stesso Gobetti è segnalato come personaggio sensibilissimo alle esigenze sociali delle masse popolari. Di costui, infatti, egli dice, nel saggio a lui dedicato, che nel Cremonese ispirava patti di lavoro bracciantili talvolta perfino più favorevoli ai lavoratori di quelli stipulati dalla Confederazione Rossa.

La Dottoressa Ferrari appare spaventata da quella che ritiene una spericolata audacia mentale del suo intellettuale di riferimento. Dice: «Indubbiamente il giudizio gobettiano non può non lasciare perplessi». E non sapendo, pur bravissima, a quale santo votarsi si accontenta degli ausili di un comune mortale -comune per modo di dire, trattandosi di uno studioso di grosso spessore- che risponde al nome di Francesco Malgeri, di cui espunge dal saggio introduttivo all'Antologia di "Critica Fascista" (1923-1943) il seguente brano: «Può apparire strano che un intellettuale colto e raffinato, quale fu Gobetti, non colga l'esatta immagine del farinaccismo e del rassismo, che nascondeva dietro un demagogico nazional-populismo profonde connotazioni antidemocratiche, che nella sostanza fu reazionario e che a livello locale fu espressione di un non disinteressato spirito di sopraffazione». Per l'autorevole analista questo comportamento analitico gobettiano si spiegherebbe col fatto che «a Gobetti non sfuggiva il significato dell'operazione revisionista ai fini di una concreta e duratura affermazione del fascismo. Operazione assai più sottile e pericolosa ai suoi occhi dell'illegalismo farinacciano».

Spiacenti, ma questa spiegazione ben lungi dallo spiegare alcunché non regge, né punto né poco. Sia detto con tutto il rispetto possibile e immaginabile per il Malgeri, il quale, evidentemente, ritiene che il fondatore di "La Rivoluzione Liberale" l'abbia fatta talmente grossa da richiedere immediate misure riparatrici della falla apertasi nel vivo della purezza etica dell'antifascismo. Tanto più immediate, e immaginose, in quanto il peccatore non è un Pinco Pallino qualunque, bensì una delle massime bandiere della oppugnazione al Littorio mussoliniano. Neppure l'autrice è convinta. Essa scrive: «Ci sembra una spiegazione parziale. A ben guardare, il giudizio sulle due anime del fascismo risulta più chiaro se interpretato alla luce del conflittualismo gobettiano. Si può scorgere la spiegazione della "superiorità" dell'intransigentismo sul revisionismo proprio in quel conflittualismo estremo e radicale, propugnato dagli intransigenti che, paradossalmente, Gobetti e i "gobettiani" sentivano in qualche modo affine al loro liberalismo rivoluzionario. Non a caso "La Rivoluzione Liberale" più volte torna ad auspicare una radicalizzazione della lotta politica che il fascismo del manganello, col ricorso alla violenza e al rifiuto delle transizioni parlamentari, poteva, forse, contribuire a creare».

 

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Straordinaria, certo, questa ammissione di affinità in chiave dialettica e confrontativa fra due componenti rivoluzionarie (e nemiche) della realtà ideologica e politica italiana. La Ferrari, peraltro, al fine di dimostrare la superiorità della sua tesi rispetto a quella del Malgeri fa ricorso, con sicura efficacia, alla testimonianza più autorevole che possa mettere in campo: quella dello stesso Piero Gobetti. Del quale cita le seguenti parole, sempre estrapolate dal saggio "Elogio a Farinacci": «Se un fascismo potrebbe avere per l'Italia qualche utilità esso è il fascismo del manganello». E soggiunge, con inoppugnabile cognizione, che nella scia di Farinacci e di Barontini «ci sono centomila giovani che al fascismo non hanno chiesto di guadagnare o di risolvere il problema della propria disoccupazione, ma vi hanno portato la loro esasperata aberrazione, la repugnanza per i compromessi e gli opportunisti». Dove, parola «aberrazione» a parte, non si stenta a cogliere un irrefrenabile moto di simpatia per questi alfieri disinteressatissimi e onesti, a onta della loro povertà, di una «intrattabilità» -in ogni senso- in qualche modo rinnovatrice e riparatrice indipendentemente dal taglio ideologico connotante la causa cui si sono votati. Forse possiamo andare errati, ma è nostra precisa sensazione che nello spirito del Gobetti affiorò, inopinatamente, il vagheggiamento di un ideale «partito delle Intransigenze e degli Intransigenti», travalicante i confini delle forze messe in campo dallo scontro politico e culturale, anche di quelle affocate da reciproche acerrime inimicizie, asperrime conflittualità, devastanti incomunicabilità. Perché mai il mitico scrittore torinese -il quale ha, di recente, acceso la fantasia anche di alcuni intellettuali della destra, fino al punto da indurre in tentazione Bernardi Guardi, che su "Il Secolo d'Italia" di qualche anno fa, temerariamente chiese al partito di Gianfranco Fininvest di adottarlo come uno dei suoi massimi punti di riferimento- intendeva valorizzare le ruvidezze dei «niet» di allora, di prima, di sempre? Perché, chiarisce Fulvia Ferrari sempre nel suo elaborato: «l'intransigentismo sembra costituire un fenomeno politico in grado di accelerare e completare il processo di instaurazione della dittatura che, nelle aspettative dei "gobettiani", avrebbe dovuto condurre a una chiarificazione della lotta politica in Italia».

Pilone portante di tale tesi una citazione di Piero Gobetti ricavato dal celebre scritto "Elogio della ghigliottina" del 23 novembre '22: «Non possiamo illuderci di aver salvato la lotta politica, ne abbiamo custodito il simbolo».

Negli ambienti dell'antifascismo DOC questi spunti ammirativi per i fascisti puri e duri della corrente farinacciana-malapartiana e il rapporto sinergico che coloriva la forte amicizia stabilitasi fra Piero Gobetti e Kurt Suckert alias Curzio Malaparte erano visti come il fumo negli occhi. Chi particolarmente fremeva era Carlo Rosselli, che il «Maledetto Toscano» ce lo aveva a Firenze in un ruolo concretamente attivistico come segretario del sindacato fascista cittadino. Per un momento sembrò che i due intellettuali antifascisti fossero arrivati ai ferri corti in conseguenza di un episodio in sé insignificante ma destinato a mettere a dura prova i nervi del futuro leader del movimento "Giustizia e Libertà". Rosselli si era recato a Torino per un abboccamento con Gobetti in vista di un raccordo fra i rispettivi gruppi nella battaglia anti-mussoliniana. L'appuntamento era previsto nella sede de "La Rivoluzione Liberale". Il fiorentino fu puntualissimo ma il torinese non c'era ancora. Come mai? «Il Direttore è in giro con Kurt Suckert», fu la risposta di un impiegato. Al che il visitatore, fuori della grazia di Dio, senza frapporre indugio alcuno alzò i tacchi e si recò in stazione in tempo per tornarsene nella Città del Giglio con lo stesso treno con cui era arrivato nella Città della Mole Antonelliana. Come andò a finire questa vicenda non sappiamo, ma certo è che qualche strascico ci fu.

Sul comportamento di Piero Gobetti nei confronti dell'intransigentismo fascista e di alcuni fra i suoi più alti esponenti dovremo, Direttore permettendo, ritornare essendo materia non solo di grande rilievo culturale con importanti riferimenti alla attualità politica, ma pure non esauribile nel giro breve di un solo articolo. Per l'occasione, naturalmente, esprimeremo motivati giudizi su quanto siamo venuti fin qui illustrando e su ciò che diremo sempre sul medesimo tema.

 

Enrico Landolfi

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