«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 5 - 15 Novembre 1998

 

La democrazia del ricatto

 

 

Democrazia dovrebbe voler dire governo o potere del popolo, quando in realtà vuol dire governo e potere dei suoi sedicenti rappresentanti, scelti essenzialmente in base alle innumerevoli promesse e prese di posizione pre-elettorali. Che c'è di male, direte voi? Nulla ci sarebbe, dico io, se non ci fosse un errore di fondo, che nessuno si sogna di evidenziare, forse perché è un errore che fa comodo a tutti: che fra il promettere ed il mantenere c'è più mare in mezzo che fra il dire e il fare, e su questo mare ci si naviga in tutte le direzioni.

Basta un po' di chiarezza e di buon senso per comprendere come per poter parlare di democrazia appena accettabile occorrono tre cose:

1) che i partiti siano pure quanti vogliono, ma che solo i primi due vadano a giocarsi la partita, consentendo a quanti hanno votato per i partiti esclusi di poter votare di nuovo per uno dei due, creando di fatto un bipolarismo reale per una giusta alternativa, quando essa occorra; i partitini senza speranza di raggiungere il vertice non potrebbero fare altro che cercare l'unione per ottenere la forza, e tenderebbero spontaneamente a sparire;

2) che il vincitore porti all'elettorato l'intera compagine che deve appoggiarlo al potere, onde gli intrallazzi del «prima» possano essere puniti, e non possano esistere gli intrallazzi del «dopo»;

3) che la compagine vincente occupi il suo posto per tutto il tempo previsto, con e senza l'approvazione popolare, la quale domani avrà davanti a sé un governo ed il suo operato, per realizzare il quale avrà avuto il tempo necessario, e, potendo rifiutarlo allo scadere del mandato, lo avrà costretto a ben governare; oggi invece i giochetti nascosti, le reciproche concessioni, le compravendite, le promesse non mantenute, le offese all'intelligenza dell'elettorato servono solo a stare sulla poltrona più a lungo possibile, governando meno possibile in modo tale da non scontentare i partitini della coalizione. Se nel tempo che le compete la compagine va incontro alla rottura, perché a qualcuno è venuto in mente il voltafaccia, vada egli pure all'opposizione, «a nemico che fugge ponti d'oro», ed il resto continua a governare fino in fondo e a giocarsi il proprio futuro.

Invece, nella miriade di partiti e partitini di questo Paese, i grossi cercano di guadagnarsi l'appoggio ed i voti dei piccoli, che all'atto pratico significano la conquista della maggioranza, permettono l'ascesa all'Olimpo del potere, portano al governo, alla poltrona ed a tanti altri oneri ed onori. La mèta è chiaramente ambita, la prospettiva appetitosa, ma, poiché lo è per tutti i presumibili alleati, è scontato che ciascuno è disposto a pagarne un prezzo; fosse solo il male di spartirsi i seggi di ministri o di sottosegretari più o meno in proporzione al rispettivo peso elettorale, potremmo ancora starci, fosse ancora questione di veder spartire i seggi più grossi, più prestigiosi, più significativi sarebbe già meno bello, ma insomma non sarebbe una catastrofe; quello che dà fastidio è che il piccolo, ben consapevole che il suo contributo è indispensabile, alza il prezzo, e se non ha concorrenti può quasi chiedere quello che vuole, perché è certo che l'avrà, mentre se ha concorrenti sarà un abile gioco di furbizie a farlo prevalere sugli altri piccoli in lizza per toccare i desiderati vertici della nazione.

La via è quella della trattativa, nome che viene dato a quei patteggiamenti, che, vestiti da democratica procedura, passano per onesta concordanza di interessi e per esibizione di reciproco rispetto e comprensione; in realtà si tratta di un cedere, un venir meno un po' di qui e un po' di là, un rinunciare a qualcosa della veste assunta per farsi scegliere dagli elettori, ai quali non è stato detto a suo tempo che -sì- le promesse erano queste e quest'altre, ma all'occorrenza se ne poteva fare merce di scambio, quando la posta in gioco fosse stata la poltrona (o anche meno), mèta che per un partitucolo non è cosa da poco. Ma sia chiara una cosa, che se il governo propone una legge dalla quale si attende un certo risultato ritenuto essenziale, non può e non deve cederne neppure una parte, qualora abbia un goccio di serietà; se -poniamo- asserisce di aver bisogno di quindicimila miliardi e si accontenta poi di diecimila, tre sono palesemente i casi:

1) ha sparato alto, così, se nessuno si risente, incassa qualche cosuccia di più;

2) ha sbagliato i conti;

3) in barba alle leggi e alla democrazia, i miliardi, cui rinuncia di qua, troverà modo di raccattarli di là, alla chetichella, e i modi non gli mancano.

E questo -uno qualsiasi di questi sospetti- è un neo intollerabile sulla figura d'un governo che per definizione dovrebbe essere di specchiato candore. Personalmente all'elettore non viene in tasca -si fa per dire- un bel niente, salvo la relativa soddisfazione del successo di gruppo, che è in sostanza il risultato d'un contratto di compravendita, il cui prezzo è pagato in termini di promesse non mantenute, mentre chi si fa tondo è il rappresentante, eletto grazie al fatto che, paludato delle sue promesse, era sembrato meglio degli altri. Niente di male, finché non andiamo un pochettino a sottilizzare: il prescelto, che non è stupido, sa benissimo che, in una assemblea fra grossi e piccoli dove sia imperativo comportarsi democraticamente, lui sarà pur sempre piccolo, cioè in minoranza, che in altre parole dovrà accettare, se da democratico vorrà figurare, quello che la maggioranza vorrà decidere, e senza recriminare. Allora cosa ci va a fare? In apparenza potrebbe andarci solo per raccogliere le briciole, per accontentarsi delle elemosine, che i grandi saranno disposti a concedergli per mantenersi il prezioso alleato, briciole che in fin dei conti sono sempre più di nulla. Se così fosse, oggi si usa dire, col solito americanismo alla moda, tutto OK! Ma non è così! È perfettamente consapevole che un governo, nato e cresciuto all'insegna del compromesso -chiedo scusa, della democratica trattativa-, non può che sopravvivere sotto la stessa insegna. Sa benissimo che, se ieri si è costituito grazie alla propria partecipazione alla alleanza, al prezzo di qualche cedimento dall'una parte e dall'altra, quel governo vivrà inevitabilmente grazie a nuovi continui successivi cedimenti da parte sua -forse!-, ma anche e soprattutto da parte del grosso alleato, non meno consapevole che il piccolo collaboratore decide della poltrona di tutti, perché è l'ago della bilancia.

Potrebbe capitare che le decisioni che il grosso deve prendere fossero di fondamentale importanza e non consentissero cedimenti alle pretese del piccolo; in questo caso invece si assiste di regola, sempre in omaggio alla succitata democratica trattativa, all'immancabile pastrocchio, per cui abitualmente viene partorito il solito topolino storpio dalla montagna dei buoni propositi. Talvolta invece il grosso porta avanti le proprie iniziative e placa le voglie del piccolo facendogli dono di qualcosa di dolce e gradito in tutt'altro campo, che magari al donatore interessa fino ad un certo punto, ma all'altro consente di farsi bello agli occhi degli elettori. Ed è pur sempre il solito pastrocchio, anche se appena diverso.

Ma può capitare che il regalino non soddisfi del tutto gli appetiti del piccolo, oppure -cosa che accade ancora più sovente- che il piccolo annusi l'aria e la senta diversa, ravvisando nella situazione la possibilità d'avvantaggiarsi prendendo una posizione ferma di fronte al problema contingente, ma per niente ferma nei confronti degli impegni contrattuali di reciproca alleanza. In altri termini dice al grosso quello che da ragazzini dicevamo al compagno di giochi troppo invadente e noioso: «... io prendo i miei ciottolini e me ne vado!». Il grosso si trova con le spalle al muro: o cede al piccolo, o... cede la poltrona del potere; il piccolo spera invece che, cadendo il grosso e rompendosi l'alleanza, qualche fetta di codesto potere gli resti fra le mani, o trovi chi gli ce la mette, che è come dire che è disposto a vendersi al miglior offerente, o quanto meno ci prova; si ammanta costantemente dei suoi democratici valori, difende inalienabili diritti di questo o di quello, ma all'atto pratico esibisce le «profonde» motivazioni, per cui sin dall'inizio ha accettato d'entrare in un contesto, dove -a rigor di logica- non avrebbe mai potuto avere un peso.

Ora invece il peso si manifesta in tutta la sua rilevanza: il piccolo sa, e non lo dice per salvare le apparenze, che chi comanda è lui, senza di lui tutto finisce in frantumi e tutti pagheranno il fio, compresi i molteplici miliardi che le elezioni anticipate costeranno all'elettorato dei contribuenti. O fai come dico io, o tutto salta: questa è la affermazione della dittatura del piccolo e non certo della onesta partecipazione ad una alleanza; il piccolo sa di essere determinante, sa quindi di avere il classico coltello dalla parte del manico, tanto, comunque sia, non sarà lui a pagare, ma il consesso dei contribuenti.

E l'elettorato è stanco e deluso; se potessero essere inquadrati in un partito, ad avere la maggioranza assoluta ed il governo sarebbero quelli che non vanno a votare, quelli che votano scheda nulla, quelli che non votano, peggio se uniti a tutti coloro che votano da una parte per risentimento e protesta nei confronti degli altri e non per convinzione ideologica.

Non vedo davvero chi possa contestare una lapalissiana verità: codesto metodo autoritario: «o fai quello che voglio io, oppure me ne vado» porta meritatamente un solo nome: ricatto. Donde l'affermazione, non poco sconvolgente, che siamo in presenza della «democrazia del ricatto».

 

Renzo Lucchesi

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