«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 5 - 15 Novembre 1998

 

Una generazione scomparsa

 

 

 

Chiamatelo pure come meglio credete: conformismo, omologazione, riflusso, perbenismo, ma questo silenzio, il silenzio dei giovani, è davvero impressionante.

È come se un Grande Vecchio, all'approssimarsi del nuovo millennio, avesse decretato la sospensione del genere giovani, e ne avesse alfine deciso il transito immediato dall'infanzia all'età della ragione; là dove «ragione» diventa sinonimo di ragionevolezza, di convenienza, di opportunità.

Come altrimenti motivare questo vuoto?

Come spiegarci quest'assenza di generosità, di rabbia e di coraggio negli esseri biologicamente giovani della nostra specie?!

No, deve proprio esserci qualcosa o qualcuno ad aver artatamente diffuso l'idea-virus che quaggiù va tutto bene e per il meglio; che questa è la società giusta, quella che fa per loro. In caso contrario, se dovesse risultare diversamente, che il mondo così fa persino un po' schifo, sarà comunque inutile e imprudente protestare, o contestare. O addirittura opporsi. Sarà alla fin fine la ragione, sempre lei, ad imporre le sue regole; riconducibili ad una sola, ma fondamentale: farsi gli affari propri. Eppure, amici lettori, una tanto rapida e virulenta diffusione di maturità precoce annuncia la sconfitta, senza scampo, di un'intera generazione. Quella venuta su a merendine, sofficini, spot e raccomandazioni, cinismo e facilitazioni, fast food e soap opera.

La situazione non sempre e dovunque è la stessa, precisiamolo. Disertano infatti l'appello alla docilità alcuni significativi segmenti; segmenti di una realtà, giovanile e non, non (ancora?) conquistati dall'epidemia di quietismo.

Andrebbe poi aggiunto, a proposito dell'arrendevolezza generale e generazionale, che simili semplificazioni valgono e sono utili per abbozzare un fenomeno, non certo per farne una composizione definitiva in ogni suo aspetto e sfaccettatura.

Ciò detto (e ulteriormente specificato come talune espressioni di ribellismo -esempio: gli squatters- non costituiscano se non la faccia trasgressiva, opposta a quella passiva, di una medesima patacca), è però la vita vissuta a prospettarci un modello-giovane-d'attualità (: scarpe-tuta-gazzetta rigorosamente sportive, cappellino rovesciato, techno music nelle orecchie ed anello al naso), modello verso cui riesce difficile intravedere, o solo ipotizzare, la presenza di un qualche pensiero pensante, l'esistenza di idee non commerciali, di interessi e passioni non commerciabili...

Quando, per dirne qualcuna, si legge che la maggioranza delle finaliste al concorso di miss Italia si è dichiarata serenamente disposta a favori sessuali in cambio di carriera; che il politico più ammirato e seguito dai giovani italiani è colui che l'aspirante eurodeputato Vittorio Feltri ebbe a suo tempo a definire «vuoto incartato», ossia Gianfranco Fini; che quasi la metà degli studenti medi ignora il significato del termine «Risorgimento», o lo confonde con «Rinascimento»; che la più ambita professione per gli adolescenti che popolano la Penisola non è -come qualche ingenuo fra gli anta potrebbe ancora pensare- pompiere, medico, scrittore, missionario, astronauta o chissàchealtro, bensì «imprenditore»; ebbene, il quadro generazionale ne esce, a mio avviso, sufficientemente delineato nel proprio squallore.

Ripeto. Non si può, né qui si vuole, procedere per stereotipi o argomentare secondo statistiche: so bene che ogni esperienza di vita, ed ogni maniera di viverla, risulta in sé unica e irripetibile; irriducibile a numeri, formule e caselle.

Particolarmente se riferita alla straordinaria fase dell'esistenza umana, che per alcuni privilegiati può durare sino alla fine, chiamata gioventù. Quell'epoca della vita, intendo, che un Brasillach ha celebrato come età dell'amicizia, dell'amore, della gioia di vivere; quale età sublime della fierezza e speranza del domani.

 

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Il quadro rispetto a 50 anni fa, è certo diverso e -mi si passi la facile constatazione- la gioventù d'oggi ne esce dal raffronto assai più povera, anche se sazia. Povera perché sazia. Povera perché figlia naturale del suo e nostro tempo: povero di sentimenti, povero di bellezza, povero di poesia, povero di ideali.

«La gioventù di un grande Paese in tempi felici riceve gli esempi, in tempi critici li dà», ha lasciato scritto un contemporaneo e consanguineo di Robert Brasillach, Abel Bonnard.

Se il contenuto di quella frase può per noi assumere valore di paradigma, dovremo allora concludere e riconoscere che la gioventù attuale è fuori causa e, nel suo complesso, incolpevole.

Non siamo, infatti, «un grande Paese». Il Paese nel quale crediamo e ci riconosciamo è al massimo rappresentato dalla cerchia di parenti, colleghi, conoscenti. Di rado amici. Tutti gli altri ci sono o del tutto estranei, o non esistono. O meglio, ci sono e sono a noi comuni solo occasionalmente, nei luoghi preposti alla socializzazione di massa: ipermercati, stadi, spiagge balneari... Per il resto si vive alla giornata e a gruppi. Individualmente e collettivamente. Ciascuno egoisticamente per sé, e ciascuno localisticamente a sé stante.

No, non viviamo più in un grande Paese, noi popoli d'Europa.

Almeno da quando ci siamo americanizzati dentro. Da quando le nostre diverse comunità furono dissolte nell'Occidente, ed i nostri Stati, le nostre nazioni, le nostre città trasformate in ricca e decadente periferia di quel recente Impero...

E quali poi dovrebbero essere «gli esempi» cui attingere?

Quali valori potrà mai trasmettere ai giovani la moderna civiltà a misura di dollaro?!

Il valore delle proprie convinzioni? Il valore della giustizia? La lealtà e il disinteresse? L'altruismo? La solidarietà?

Suvvia...

 

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Nella società della globalizzazione e della solitudine, dove l'informatica comunicazione via Internet si accompagna alla desolante ricerca di amore per telefono, è l'esteriorità del segno ad uniformare le relazioni personali e interpersonali.

Si potrebbe obiettare che analoghi segni, distintivi e rituali, sono sempre esistiti nelle varie epoche e forme di cultura. La differenza, fondamentale, sta nel fatto che -qui e ora- quei segni per così dire tribali, non valgono a significare un'appartenenza, a denotare uno stile di vita, a testimoniare un rifiuto all'omologazione. Quel gergo, quel modo di vestire, quel taglio di capelli, quei tatuaggi ecc. non sono modi di essere, ma soltanto modi di apparire; e non mostrano alcuna volontà affermativa oppure eversiva, ma semplicemente evasiva.

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Zeitgeist, direbbero i tedeschi. Spirito dei tempi, traduciamo noi. I quali tempi, ad esempio, richiedono ai giovani prim'ancora di saper bene camminare di correre. Imparando in fretta.

Partecipare alla gara risulta, per tradizione, obbligatorio. Né serve rifiutare la competizione, dato che essa fa parte della natura umana. Solo le regole del gioco sono cambiate, esasperate e deformate dal «darwinismo sociale».

La nostra vicenda esistenziale, oggi, è divenuta funzionale a un'incessante eliminatoria dove si stabilisce chi sono i vincenti, che restano in gara per la successiva, e chi i perdenti, condannati a sparire, a non possedere più identità, storia, volto.

Ma partecipare e restare in gara a quel modo, con l'obiettivo unico di sopravanzare sempre in qualcosa «contro» qualcuno, vuol dire -particolarmente per i concorrenti con minore esperienza e maggiore assillo di successo- non trovare più il tempo per guardarsi attorno e dentro di sé.

Ecco che può nello specifico capitare di smarrire ogni direzione, e non accorgersi nemmeno che il gioco è truccato, dato che il traguardo quand'anche sembri raggiunto, viene regolarmente spostato un po' più in là...

 

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"L'Espresso", giunto al termine di un'estate impegnata su inchieste di costume da bagno, viagra e vacanze-vip -e ritrovatosi a corto d'idee- si è prodotto a metà settembre in un servizio intitolato "Padre nostro che sei il nemico"- sottotitolo "Una frattura pericolosa che può arrivare allo sciopero, alla lotta aperta tra figli esclusi e padri arroccati nel privilegio?"- e ci ha così riempito una mezza dozzina di pagine, più la copertina. Il tutto con dieci interviste ad altrettanti ragazzi e ragazze dai 17 ai 25 anni, condotte sul campo da due giornalisti.

Nonostante la ben immaginabile modestia della cosiddetta inchiesta sulla generazione tradita, e l'effettiva... medietà di intervistatori ed intervistati (con un paio di confortanti eccezioni per quest'ultimi), l'impressione complessiva che se ne trae, non corrisponde affatto al titolo di facciata di quell'Espresso del 17.9.1998...

Magari fosse vero che quei giovani contestano davvero gli adulti, e magari li contestassero non solo con slogan da rotocalco!

Magari i ventenni di oggi volessero metter sotto accusa i propri padri, per casi e motivi diversi dal non aver saputo fare abbastanza quattrini e/o non aver dato loro maggiori opportunità di soldi & carriera!!

Sì, perché i motivi emergenti dell'attrito generazionale (?) si riferiscono a questioni materiali, spicciole e concrete; non ad una diversa scala di priorità, di aspirazioni, di aspettative, com'è sempre normalmente avvenuto.

Ma all'essere umano non bastano «le cose», per sentirsi vivo. E quando la realtà non gli ha consentito di sognare, prima o poi ha cambiato realtà... Tant'è che comincio a chiedermi, e lo chiedo ai lettori di "Tabularasa", se dietro il grigiore della concretezza, se oltre lo schermo di questa calma piatta e frenetica agitazione, non si stia preparando -non già «lo sciopero dei giovani» di cui hanno vaneggiato l'eurocrate Mario Monti e i suoi succedanei de "L'Espresso"- bensì una vera grande rivolta degli esclusi.

Il potere mondialista sembra apparentemente ignorare l'esplosività di tale malessere, anche se è ovvio che lo tenga comunque sotto controllo. In quali maniere e sino a che punto, non credo sia possibile rispondere. E nemmeno è dato sapere in che misura e sino a quando potrà pacificamente crescere il divario fra mondo reale e quello fittizio dei media, fra i problemi ed interessi reali e la pseudopolitica di destra o di sinistra. Né è dato conoscere il momento d'implosione del «socialmente corretto», che continua a grondare buone intenzioni e belle promesse di libertà, abbondanza, felicità... - dinanzi al convulso, frammentato universo della gente comune, con il suo carico di amarezza ed indifferenza, di odio e sofferenza.

E chissà che l'incomprensione di linguaggi e comportamenti non celi fra i giovani una richiesta -inespressa o male espressa, magari, ma vera e profonda- di regole, valori, certezze.

Di qui nasce una residua speranza. Che «la generazione che non c'è» non sia del tutto scomparsa, ma che si tratti in definitiva di una generazione dispersa.

Che attende faticosamente d'essere ritrovata.

 

Alberto Ostidich

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