«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 5 - 15 Novembre 1998

 

Origini e dimenticanza

 

 

 

Non è il caso di pensare di ricorrere ad ulteriori -e deteriori- dimostrazioni sulla indubbia condizione di endemica crisi nella quale si dibatte il Paese «ufficiale». Lottizzato e «normalizzato» senza tanti scrupoli di coscienza dalla nomenclatura progressista.

Chi comanda, corrisposto negli amorosi sensi da un «centro» sempre più paludato, sembra tenere a una sola capacità di fondo: battere sino in fondo -unico mestiere possibile che si leghi alla politica d'oggi- la strada del tirare a campare. Andando avanti, senza sbocchi; livellando gli umori, relegando i dissensi nel mondo delle buone intenzioni, facendo sognare gli idealisti e gratificando gli egoisti. Questi i fatti.

Ci sarà anche chi, per interesse o per incorreggibile candore, vorrà smentirlo. Ma, pur con grande impegno, sarà difficile che si riesca a contrabbandare ancora la «buona novella» a pubblicizzare l'evangelica solennità di chi conta e muove le leve del potere. Che, progressista e democratico, «liberal» e di sinistra (e quant'altro si voglia) esercita -e non vi è ragione di credere che non continuerà a farlo- tutto il proprio peso. Con annessi e connessi.

C'è spazio per chi sceglie di starne fuori? Tanto, oppure poco. Dipende dalle ragioni che si forniscono all'orientamento politico che sospinge verso un ruolo critico. Ragioni che si possono collocare ovunque, su questo mondo o su una dimensione lontana dal tempo e dallo spazio, magari affidata alle nuvole della fantasia.

Mi permetto questo tono facendo mente locale sulle mille suggestioni che stanno continuando a punteggiare il percorso quasi impazzito della opposizione. Certo non quella rappresentata dal Polo delle Libertà, che da qui -direi coralmente- consideriamo «cosa loro», che come tale, appunto, rimane agli occhi di chi mantiene un approccio libero e deciso a ciò che rappresenta la politica, quella vera. Che non è cedimento alle mode del momento e che deve sapere mantenere, invece, una linea di forte chiarezza nel metodo e nelle strategie.

Lasciando agli altri, ora, i problemi di leadership, di immagine e di ciò che si vuole.

Torniamo alle ragioni; alle ispirazioni reali e profonde che possono legare ad un impegno. Ragioni, ispirazioni, e cioè idee.

Le idee non sono suggestioni. Entrambe sono impalpabili. Ma le seconde conoscono il prevalere dell'incertezza, non si confrontano con i punti di partenza, ignorano il contributo del ragionamento.

Ed allora, dov'è il punto di partenza? Lo si ricorda, o è destinato ad essere cancellato, rimosso, esorcizzato?

Domando scusa se gli interrogativi possano apparire retorici. Per chi scrive, evidentemente, l'argomento non è superfluo. Prima di tutto, o forse solo per questo, perché sembra emergere sempre più dal nostro linguaggio una dimensione fredda, abissalmente glaciale, dove le passioni mostrano di spegnersi da sole, destinate ad infrangersi dinanzi al muro dell'indifferenza.

Ma questa incombente minaccia di desistenza, di allontanamento dalla politica -d'ogni tipo, la nostra e la loro- nasce solo dalla cattiva risposta che ci è fornita dall'uditorio? Si potrebbe pensarlo. Calmerebbe i dubbi. Solo questo. Nulla di veramente medicamentoso. Anche se, giustificandosi con il silenzio di chi dovrebbe accogliere l'emancipazione dalla quotidianità, si ammette alla fine che non si viene seguiti perché qualcosa lo impedisce. La colpa non ricade, insomma, sulla società mercantile e sulla modernità.

Ma il punto non è la cattiva od inesistente accoglienza a ciò che proclamiamo.

A costo di combattere una battaglia di retroguardia, antipatica od esposta a facili accuse, va affermato che in quel che si è sinora pronunciato qualcosa non va. C'è una distanza tra espressione e natura, tra parole e -appunto- base di partenza, che ispira sensazioni negative.

Nero su bianco: si è fatta indigestione di terzomondismo, di filo-islamismo, di filo-socialismo, di mussolinismo di sinistra, di ribellismo. Indigestione, il che vuol dire che, a furia di esser contro tutto e tutti, si rischia di andare contro noi stessi, contro il nucleo essenziale della nostra storia e dei nostri valori; contro i lineamenti più veri e le radici più profonde.

Si rischia di sprofondare nel nichilismo, cullandosi nella retorica dei princìpi. Facendo la rivoluzione a colazione, pranzo e cena, nel tempo libero e nell'ora del sonno. Senza sapere cosa raggiungere, solo per il gusto d'andar controcorrente. Gusto sterile, alla fine amaro. Gusto dello indicibile, di ciò che non si può capire. Forse -sottolineiamo il forse- perché non esiste. Nichilismo puro, appunto.

Sarebbe stato quasi il caso di invocare, a suo tempo, una moratoria delle «provocazioni» se non fosse che, comunque, il dialogo non può che basarsi anche su queste.

Spetterebbe alla capacità di possedere una misura, alla temperanza di tutti nell'amministrare le soluzioni di continuità. Senza trasformarle in fratture irrimediabili. Spetterebbe o, meglio ancora, sarebbe spettato.

Se vigesse un principio di responsabilità in politica, valido anche per gli «antagonisti», potremmo cominciare un'opera di riflessione in comune. Serena, attenta ed utile. Individuando fatti e circostanze.

Ma nulla di sbagliato sembra possa legarsi alle persone, non quando a dover rispondere è un «mito incapacitante», un alone di voci che passano sulle nostre teste senza essere rivendicate da alcuno laddove le cose si decompongono.

Il nodo, tuttavia, non risiederebbe nelle responsabilità personali. Nel «saperci fare», oppure no. Non solo, almeno. Perché quel che conta, quel che non si cancella è la condizione ideale: il retroterra violato dagli esperimenti e dalle incursioni selvagge. Che hanno spazzato via tutto, buttando alle ortiche il bene e il male, le incrostazioni e le ricchezze delle passate stagioni di lotta.

La questione sta nel temperamento. Il temperamento di chi ama perversamente la sofferenza, di chi cerca la pace perpetua e l'oscurità eterna. O la terrena mercede, confidando non si sa in che cosa.

Nessuno obbliga a fare ammenda. Nessuno pretende alcunché. Si può vivere onorevolmente come si sta facendo. Senza assumersi la paternità delle scelte o delle abitudini.

Ma la politica, quella costituita dai fatti, e gli uomini -amici o nemici- che ne sono protagonisti non si racchiudono in un manuale di conversazione oppure in un copione immutabile di belle maniere.

Contano i ruoli, la capacità di organizzarli, la decisione nel rivendicarli e di reggerne il peso con il trascorrere del tempo.

 

Roberto Platania

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