«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VII - n° 5 - 15 Novembre 1998

 

Globalizzazione anno zero

 

 

 

Le notizie ed i fatti legati alla recente crisi finanziaria che ha colpito i mercati mondiali parlano un linguaggio esplicito.

L'instabilità ed i rischi che la situazione monetaria ha imposto ai Paesi, ed il costo altissimo che i comparti produttivi si potranno trovare di fronte, sembra aver fatto scattare l'allarme. Forse precipitoso, forse calcolato.

Si può facilmente dire, senza tema di smentita, che il mondo degli interessi è misterioso ed anche gli analisti più preparati ed accorti, pur da «addetti ai lavori», rischiano di smarrire il senso recondito di fatti e strategie che passano per le stanze dei bottoni, le risorse seguono un loro cammino, una serie tortuosa di transazioni, palesi e soprattutto occulte.

Il sistema dei crediti e dei debiti è oramai da tempo entrato in una fase di indecifrabile complessità, sia dal punto di vista dei volumi monetari, sia da quello della raffinatezza delle operazioni. Il reticolo delle speculazioni si è allargato e le economie nazionali e transnazionali proiettano vaste zone d'ombra.

Nella logica della mondializzazione si sarebbe sinora detto che le crisi del sistema fossero quasi impossibili, almeno a sentirne gli illuminati alfieri. Desta allora sarcasmo -ci si lasci osservare- tanto clamore e preoccupazioni espressi dai portavoce delle autorità finanziarie ed amplificati da stampa e televisione.

Il denaro, con i suoi passaggi ed investimenti, sembra sempre più virtuale, o addirittura fittizio, e quindi tutte le tempeste che si potranno re­gistrare non potranno che essere la conferma di questa realtà.

In piena bufera il presidente della Repubblica francese, Chirac, ha richiamato i colleghi dei Paesi aderenti al G-7 sulla necessità di un ritorno al sistema di Bretton Woods e cioè ad una qualche forma di regolamentazione del meccanismo dei cambi, per poter evitare i gravi problemi congiunturali che la proliferazione dei mercati sta determinando.

La discussione si è messa in moto. Si è arrivati a ridiscutere il ruolo del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. È stato proposto di cambiare fisionomia ed operatività e non è mancato chi, da autorevole posizione, ha avanzato l'idea di cancellarli, delegando ai singoli assetti legislativi e regolamentari il compito di garantire la disciplina dei maggiori flussi bancari. Per avere un'idea del volume d'affari che si sta con il tempo imponendo giova riportare quanto comunicato in un recente convegno svoltosi all'Aquila su "Globalizzazione e concorrenza". In quella sede il director dell'agenzia di consulenza McKinsey, Roger Abravanel, ha avanzato la previsione che l'economia globale, nel periodo 1997-2027 sarà sotto posta ad una crescita di circa dodici volte (cfr. "II Sole - 24 Ore" del 26 settembre 1998). Un allargamento esponenziale, enorme. E difficilmente gestibile con gli strumenti che la comunità internazionale dei quali si è sinora avvalsa.

A prendere la parola sono stati un po' tutti. Anche i manovratori di capitali, più o meno discussi.

Sul tema è intervenuto, ad esempio, George Soros, personaggio al centro della visibilità finanziaria, che ha bisogno di ben poche presentazioni. Anche Soros è arrivato ad invocare una disciplina dei mercati ed una stabilità garantita dalle politiche pubbliche.

Un'inversione di tendenza a tutto campo, un ribaltone che scarica sui governi responsabilità che, al contrario, l'economia planetaria non può permettersi di respingere. Il sovradimensionamento e la sostanziale inconoscibilità delle espressioni concrete della sua potenza giocano un peso troppo forte per poterne negare i frutti avvelenati.

Il lato curioso è che il salvataggio pare giungere anche dai «liberals» che finora erano più convinti. Il responsabile italiano degli Esteri, Lamberto Dini, ha dal canto suo tratteggiato l'idea di globalizzare il governo del Mondo. Sorreggendo con i pubblici poteri, cioè, quegli squilibri di mercato che fino ad oggi si ritenevano determinabili dalla sola politica, regina di tutti i mali. Alla 53ª assemblea dell'ONU Dini ha addirittura ammonito l'uditorio sulle «strategie che difendendo il mercato, siano socialmente distruttive e politicamente destabilizzanti». Paradossi, che fanno rivalere delle indigestioni di liberismo spinto sin qui procurate all'opinione pubblica dei Paesi più avanzati.

Chi fonda la propria egemonia sul denaro ha bisogno, oggi -e per puro calcolo- di una stampella. E, naturalmente, i celebratori del libero mercato, delle economie interattive e delle svolte planetarie, si mostrano pronti alla momentanea conversione.

Sia come sia, c'è aria da apprendisti stregoni. Forse è per questo che, chissà per quanto, i giornali che contano e le voci autorevoli eviteranno di parlar troppo di «politically correct». Le schiere degli economisti più in vista sgonfieranno la prosopopea da sapienti filosofi. Cercando di inventare qualcosa. Come se il tempo dei tassi di cambio fissi ed i capitali resi immobilizzati da regole deboli ed inapplicabili potessero combaciare con la logica della globalizzazione.

Qualcuno ha scritto che «serve un'etica della finanza». Il frasario non è inedito. Anni fa -chi lo ricorda?- andava di moda nel mondo imprenditoriale e finanziario, anche italiano. In quel frangente si potè assistere all'esegesi del nuovo vangelo economico, abbracciato senza riserve dalla grande stampa. Ovviamente. Gli affaristi, accalorati nel sostenere la nuova svolta, assomigliarono nell'occasione ai grandi benefattori storici dell'umanità.

Produzione, benessere, felicità, moralità, bontà, consumi: un circolo virtuoso di valori

indiscutibili e sacri, che appannavano ogni residuo critico, ogni dubbio, ogni dissenso. Oggi, evidentemente, ci risiamo. Miopia? Irrazionalità? Astuzia e calcolo? In questo gioco delle parti c'è da aspettarsi di tutto. Ogni cosa ed il suo contrario. Beninteso: per il Potere, con il Potere.

 

r. p.

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