«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VIII - n° 1 - 15 Maggio 1999

 

La pietas di Ceronetti per Priebke,
l'ultimo sconfitto di una Norimberga alle vongole

 

 

Quello che si sono detti «il vecchio scrittore ebraizzante e l'ottantaseienne ufficiale tedesco di via Tasso», non è solo quello che s'è letto nella pagina che Guido Ceronetti ha preparato per "la Stampa" martedì scorso - il resoconto dell'incontro con Erich Priebke, «ultimo sconfitto». Quello che si sono detti i due è stato probabilmente anche un tributo di Ceronetti a Ernst Jünger, un modo come un altro per il raffinato puparo dell'Apocalisse, talvolta nichilista della porta accanto, di avvicinarsi all'eroe morto, che fu suo amico di penna e di sensi, parlando infine con un detenuto, Priebke, a Jünger esteticamente fin troppo simile.

Ma quello che si sono detti il libero pensatore e l'ergastolano è la definitiva descrizione di un dialogo metafisico (perciò non-detto, non verificabile) tra un imputato esteticamente ineccepibile e uno spettatore filosoficamente interrogante. Costretto alla pena più insopportabile, quella sola che la viltà della sopraffazione può procurare in forza della democrazia, Priebke ha involontariamente offerto a Ceronetti pietas e, insieme, materia per un seminario di teoretica: «Tempo e prescrittibilità, tempo e memoria, tempo sempre riportato a un'ora atroce, la guerra prima e dopo il '45». Sollevato dai precetti istituzionali, Ceronetti a sua volta ha raccolto dalla maschera del soldato le ragnatele del destino: «Perchè altro non ha che la sua verità», ha scritto. E perchè poi, vorremmo dire, sono speciali gli spettri in divisa: sono potenti prosecutori di una furia che avanza dal fondo più buio della storia occidentale. Il cui manifesto più bello a uso del cattiverio, esteticamente ineccepibile come è proprio del cattiverio, è quello che ritrae quattro cavalieri con un labaro sullo sfondo delle dune d'Arabia. Sono SS musulmane a cavallo, lo spavento iconico di un qualcosa che non è qualcuno, bensì il nemico che urla con una sola immagine: «Allah 'u akbar, Sieg Heil, Panta Rei». E allora, per Ceronetti, per Ringer, per Priebke, il tempo è l'essere per la prescrittibilità, essere per la memoria, essere per il riporto a un'ora atroce, la guerra prima e dopo il '45.

 

La favola del male che reclama l'ascolto

 Quando Franco Cardini raccontò in un libro di avere sempre avuto caro il proprio scheletro nell'armadio, «un biondo arcangelo da guerra in divisa tedesca», qualcuno avverti la pericolosità meravigliosa di una vita costruita sull'inaudito. Tutto ciò che resta del dialogo Ceronetti-Priebke è infatti l'inaudito, la favola difficile del male che reclama incessantemente l'ascolto. «Quando io sono venuto al convento Frascati» -è Priebke che parla, in un italiano argentinizzato- «il padre guardiano Andrea, dopo due giorni mi dice: signor Erich, lei è completamente differente che io lo conosco dalla televisione, io vorrei invitare a Toaff, la Zevi e Rutelli che vengano qui e parlano con lei, io ho detto va bene ma non credo viene nessuno. E ha voluto telefonare subito, naturalmente non è venuto nessuno». Naturalmente non va mai nessuno. Priebke che non immaginava chi fosse Ceronetti, ha avuto cognizione dell'incontro dopo. Soltanto dopo, il capitano Priebke, ha potuto segnare in attivo sulla lavagna della dignità la mezza giornata consegnata al registratore di Ceronetti. Nell'apnea degli arresti domiciliari dove sono arrivati i suoi anni, sul tracciato ischemico del suo cuore militare, Priebke certamente «soggiorna» nella cognizione di avere concluso l'ultimo atto di una tragica commedia: aver vissuto lui, la vendetta peggiore e perciò ridicola di una Norimberga alle vongole. Non si potrà però mai essere abbastanza grati a Priebke per il suo essere stato nemico assoluto, deus ex machina del male, elegante imputato di un osceno processo, marionetta sublime infine che solo un puparo della Metafisica come Ceronetti poteva pietosamente accogliere nel suo teatro.

 

Pietrangelo Buttafuoco
"Il Foglio",  27.2.1999

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