«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VIII - n° 1 - 15 Maggio 1999

 

Dalla parte dei «banditi»

 

 

 

È tornato il silenzio. L'Iraq, come un animale duramente colpito, si lecca le piaghe e le ferite. Dopo i bombardamenti anglo-americani restano macerie, fumo e lamenti.

Le cronache riferiscono che volume, intensità e efficacia di fuoco sono risultati ben superiori alla guerra del 1991. E, per il momento, possono bastare. Incombe il Natale, bisogna far tacere le armi e tornare allo shopping. Il generoso sceriffo americano, sensibile ai richiami del mercato, si è concesso una pausa di riflessione. Non è dato sapere quanto questa possa durare. Molto dipenderà dagli sviluppi che, da gennaio in poi, subiranno le squallide vicende personali di Bill Clinton, incriminato per spergiuro dal Congresso e, di conseguenza, rinviato a giudizio davanti al Senato degli States. Tuttavia, non si può escludere che le pressioni di gran parte della comunità internazionale e la paura sottile che comincia a serpeggiare Oltreoceano per possibili rappresaglie terroristiche possano giocare un ruolo altrettanto decisivo. Vedremo. Intanto, una coltre di silenzio, appena interrotta dalla voce roca del muezzin che scandisce i tempi del Ramadan, è scesa su Baghdad e Bassora, dopo tre giorni e tre notti di inferno. Un silenzio incerto, precario, carico di sgomento e inquietudini.

Si contano morti e feriti. Si fanno le prime stime dei danni.

Pace? Altro che pace! È ora di finirla con l'ipocrisia che circonda le parole, ne sconvolge i significati, sterilizza le passioni che vi stanno dietro. Non se ne può davvero più del chiacchiericcio dei benpensanti, che si tratti di statisti, politici, intellettuali, filosofi. Chi se ne frega! I sentimenti sono sentimenti anche quando assumono i colori forti e cupi del rancore, il sapore acre della rabbia. Bisogna saperli riconoscere e andarne fieri.

Ecco perchè non va dimenticato -e non dimenticheremo- quel 16 dicembre '98, 22.50 ora italiana, quando il cielo di Baghdad è tornato a farsi improvvisamente verde, attraversato da strisce luminose, lampi, fragori, suoni di sirene. Un incubo di ritorno, un insopportabile dejà vu che la CNN, ormai specializzata nella trasmissione in diretta delle guerre yankees, ci ha infilato nelle case a pranzo e cena insieme a jet, Tornado, bombardieri più o meno invisibili, missili Cruise, Tomahawk. Tutte armi postmoderne, intelligentissime: su questo non ci piove. Se a volte sbagliano colpendo ospedali, scuole, abitazioni civili, se massacrano diverse migliaia di donne, vecchi e bambini è perchè -come ha sentenziato con voce rassicurante un pezzo da novanta del Pentagono- «nonostante laser e computer non sempre le cose vanno bene». Teniamo bene a mente questi eventi e queste parole.

Quanto accaduto in questi giorni lungo l'asse Washington-Londra-Baghdad-Bassora, potrebbe diventare per tanti «antagonisti» stanchi, traditi, disillusi lo spartiacque tra la rassegnazione impotente e un impegno ulteriore, tra apatia e azione. Una sorta di crinale lungo il quale sarà forse possibile incontrare nuovi stimoli, quanto meno di tipo culturale, persino qualche occasionale compagno di viaggio.

Bombe sull'Iraq; bombe sugli arabi; sull'Islam, umiliato durante l'inizio del periodo sacro dedicato alla penitenza e purificazione; bombe sui sogni di pace del popolo palestinese ancora una volta mortificati; bombe contro il Sud del mondo; contro chi non si piega: dunque, contro ciascuno di noi.

Chissà? -il miracoloso dei miracoli è che accadono- forse le bombe di «Desert fox», assai più di quelle della prima «Desert storm», potrebbero trasformarsi in evento simbolico. La «volpe» più che la «tempesta» potrebbe dare linfa e vita nuova al deserto delle idee di fine millennio. Purchè non ci si nasconda dietro gli inutili distinguo e le vili prudenze.

Le bombe, infatti, queste maledette bombe! che cambiano destinatario ma mai il mittente, figlie dello stesso disegno di egemonia sul mondo, questa volta hanno prodotto qualche danno da rinculo nell'ufficio dello «sceriffo». Nelle capitali europee, infatti, il servilismo filo-americano ha mostrato crepe tanto significative quanto imprevedibili; a Mosca si sono addirittura registrati toni e decisioni (il ritiro dell'ambasciatore dagli USA) da guerra fredda; a Pechino le reazioni sono state durissime; si è incrinato il fronte della solidarietà tra Washington e i Paesi arabi moderati; persino nel cuore d'America si sono levate voci di protesta e dissenso di cui, dal Vietnam in poi, si erano perdute le tracce.

Qualcosa, per la prima volta, si è incrinato. La caccia al bandito di turno da parte dello sceriffo planetario, nel quadro del «nuovo ordine mondiale», non ha prodotto gli effetti sperati.

Tante, troppe parole sono state spese sui risvolti di politica internazionale dell'operazione Desert fox, ovvero su quello che non si può non definire l'unilaterale, proditorio attacco anglo-americano contro un Paese stremato dallo sterminio del 1991 e da sette anni di embargo.

Che vale domandarsi quali e quanto grandi siano le responsabilità di Saddam? Se sia vero che il rais iracheno abbia posto ostacoli al lavoro degli ispettori ONU, oppure se quella degli arsenali di armi non convenzionale sia in gran parte una bufala inventata per tenere alto l'allarme intorno al «mostro». Questa, come l'altra che l'ha preceduta, è anche, se non soprattutto, una guerra di disinformazione. Sicchè non sapremo mai con certezza se l'australiano Butler, il capo degli ispettori UNSCOM, fosse -come tutto lascia dedurre- in perfetta malafede.

Ma è davvero possibile -ecco il punto- che in seguito alle comunicazioni di un qualsiasi «ispettore», il Presidente degli USA, scavalcando persino sotto l'aspetto formale, di facciata, i tradizionali alleati e la comunità internazionale, possa decidere di radere al suolo una Nazione indipendente? Tanto più quando l'offensiva militare -com'è fin troppo evidente- è stata pesantemente condizionata dalle vicende relative alla messa in stato d'accusa del Presidente da parte della Camera dei Rappresentanti.

Questo è il cuore del problema, tutto il resto è finzione, ipocrisia, magari diplomazia, ma non dà ragione e soddisfazione alle vittime ed anzi serve da alibi ai carnefici.

Fino a quando dovremo sopportare senza reagire tanta protervia ed arroganza? Che ci sia, cioè, un Paese il quale, in funzione della sua potenza militare, stabilisca le regole del gioco e che in funzione degli obiettivi militari, politici e strategici di questo Paese venga additato all'opinione pubblica internazionale un bandito di turno, un nemico, un tiranno da abbattere: Saddam, Gheddafi, Milosevic, Khomeini...?

Fino a quando dovremo sopportare la politica dei due pesi e due misure secondo la quale, a seconda delle convenienze, si costruiscono «mostri» antipatici e si stilano gli elenchi di quelli simpatici, dei dittatori cattivi e di quelli buoni -colonnelli, generali ecc.- con i quali è lecito tenere relazioni e fare affari?

Il che, ovviamente, vale anche per le fin troppo enfatizzate risoluzioni ONU: c'è chi deve rispettarle pena l'aggressione feroce e chi può farsene beffe come, per esempio Israele, che ne ha fin qui calpestato almeno una decina.

Via! Non si spacci tutto questo per democrazia, per libertà, per difesa dell'ordine e della pace. Tutto questo fa parte del disegno egemonico degli USA, della volontà di potenza di un Paese che senza alcun pudore si autodefinisce «l'Impero del Bene», pretendendo di uniformare ogni luogo ed ogni popolo ai suoi interessi, alle sue leggi, alla sua insulsa cultura. In virtù di quale altra logica che non sia di conquista e dominio dovrebbe infatti competere agli USA stabilire chi possa armarsi e chi non? Se Saddam Hussein, o chi per lui, tenta appena di costruire una centrale nucleare diventa un criminale da eliminare ad ogni costo, mentre nessuno si deve scandalizzare degli arsenali di armi atomiche, batteriologiche e chimiche dei soliti «paesi amici». Torna il solito interrogativo, accompagnato da disgusto e rabbia: che fare? Noi di "Tabularasa" qualcosa -e neppure poco- stiamo già facendo da un pezzo: alimentando un forte sentimento antiamericano; opponendoci in pensieri, parole, opere ed omissioni alla cultura egemone; all'omogeneizzazione delle idee; all'omologazione dei comportamenti; alla disintegrazione delle specificità e delle differenze; alla McDonaldizzazione del pianeta; agli orrori della biotecnologia; alle logiche di sfruttamento e di sterminio; alla vergognosa disparità del 20% della popolazione (quella cosiddetta civile) che consuma l'80% delle risorse disponibili.

È necessario, tuttavia, allargare il fronte della ribellione e del dissenso: magari investendo meno sul prodotto stampato e di più sulle pagine Internet della rivista che ci permettono, come sta accadendo, di moltiplicare rapidamente i «contatti», di agganciare movimenti, gruppi, singole personalità con i quali costruire convergenze e sinergie.

È possibile ipotizzare un grande fronte antagonista che metta insieme tutti quelli che non ci stanno? Non è utopico e velleitario? Sì, almeno in questo passaggio storico ed epocale, questo obiettivo è forse irraggiungibile. E tuttavia non vi sono, purtroppo, altre strade. Probabilmente ci toccherà soltanto di lasciare il testimone alle generazioni che verranno. Ma non è già questo un compito enorme ed appagante?

Del resto, la battaglia assai più che la vittoria è il mito intramontabile del «guerriero».

Bisognerà dunque disegnare, con pazienza e serena determinazione, i contorni di una nuova sfida culturale e politica in cui da una parte e dall'altra non vi siano parole vuote come la destra e la sinistra, schematismi riduttivi come il Polo e l'Ulivo, ma polarità forti quali: egoismo e solidarietà; omologazione ed identità; liberismo e socialismo. Chè tutto il resto, ieri come oggi, dipende in gran parte dagli esiti di questo conflitto.

I moderati, i borghesi, i benpensanti, quelli che si allarmano per due panettoni al topicida ma non s'interrogano mai sul perchè decine di milioni di persone muoiono di fame ogni anno, bramano l'ordine mondiale e inneggiano al gendarme americano che se ne fa garante.

Gli inquieti, i folli, gli eretici, i ribelli non possono che stare dall'altra parte.

Con i banditi, con i disperati.

Che Iddio conceda loro un'altra battaglia!

 

Beniamino Donnici

Indice