«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VIII - n° 1 - 15 Maggio 1999

 

Quelle bellicose culture degli Anni Venti

 

Gobetti, Malaparte:
due modi opposti di intuire e vivere l'idea popolare nazionale

 

 

 

Qualche bello spirito ci ha rimbrottato -mandandocelo a dire- per avere noi osato accostare il nome intemerato dell'antifascista puro e duro Piero Gobetti a quello dell'(allora) fascista altrettanto purissimo e durissimo Kurt Suckert al secolo Curzio Malaparte. Da ciò l'ovvia (secondo lui) conseguenza del passaggio del sottoscritto dalla Sinistra nella quale notoriamente (per chi lo conosce) milita, nei ranghi di un presunto neofascismo. Va da sé che si tratta di un piramidale imbecille che non merita alcuna risposta. Imbecille e fazioso e trinariciuto, ripetiamo rincarando la dose; anche perché costui pretende negare -oppugnando una evidenza che lampantemente risulta pure dal saggio della dottoressa Fulvia Ferrari, da cui abbiamo Preso spunto per avviare con lo scorso numero il discorso relativo ai due «carissimi nemici» degli Anni Venti- l'esistenza di rapporti sinergici e amicali fra il fondatore-direttore in camicia nera de "La Conquista dello Stato" e il fondatore-direttore in camicia (quasi) rossa de "La Rivoluzione Liberale".

Tuttavia, visto e considerato che quanto asseverato da una gobettiana di ferro come la Ferrari non sufficit per indurre zucche storte a decidersi a prendere atto della verità storica, eccoci a sdoganare un brano malapartiano che espungiamo da una lettera indirizzata dall'«Arcitaliano» a Piero Gobetti. Chiaro è che con queste righe l'intellettuale pratese si propone di spiegare al suo interlocutore di Torino i motivi che lo hanno indotto ad assumere la carica di segretario dei sindacati fascisti fiorentini. Vediamo: «Ella, caro Gobetti, stupirà della mia nuova qualità, che detengo dalla metà di settembre. È la prima volta che un letterato si pone a capo di un'organizzazione economica sindacalista, forte di 68 corporazioni sindacali e di 7.400 iscritti: il più forte nucleo insomma di operai organizzati oggi esistente, di fatto, in Italia. L'autorizzo, anzi ne avrei piacere, ad accennarlo ai lettori di "Rivoluzione Liberale". Finora tutto va bene: trovo contrasto soltanto per le mie idee (quel «soltanto» è un poema! - N.d.R.), che ai più sembrano troppo originali e poco ortodosse. Ma credo sia questo il momento di dar prova che l'intelligenza italiana è capace di mettersi, non solamente a chiacchiere, al sevizio del proletariato. Di quello stesso che ieri era rosso e oggi è tricolore. Bisogna dare un'anima a questo popolo, spesso popolaccio. I giovani italiani d'ingegno e di cultura debbono essere i primi a mettersi innanzi al popolo. L'umanità grande significa anche che l'Italia deve essere grande. Noi italiani dobbiamo cominciare dall'Italia, è logico. Penseremo poi all'umiltà. Aspetto che Ella risponda subito a questa mia. Voglio sapere quanto Ella si è meravigliato di conoscermi, oltre che come letterato, come organizzatore sindacalista. Più che Daniele e i leoni, più che Orfeo e le pietre, mi par d'essere Ulisse e Proteo. Regardez bien le Prothèe pendant que je le tiens!».

Da notare quel tanto di taglio ideologico presente in questo brano, denunciante le origini mazziniane del Suckert/Malaparte, imbevutosi di idee repubblicane fin dalla più tenera età. Fin da quando, cioè, nel 1913 aveva assunto la segreteria della sezione giovanile dell'Edera. La qual cosa potrebbe anche significare che il Nostro non era poi quella specie di stakanovista del voltagabbanismo che i più ritennero e ritengono di dover individuare nella sua persona e, soprattutto, nella sua personalità -alla Gianfranco Fini, intendiamo-; ma che, anzi, travasava nelle sue varie incarnazioni e reincarnazioni di schieramento idee e valori e progettualità elaborati nei precedenti livelli di impegno militante.

Da osservare ancora che il Malaparte -pur con tutti i suoi innegabili e intollerabili difetti- che però ad appalesarsi è meno cinico, girella e giocatore di prestigio di quanto i suoi non pochissimi antipatizzanti vorrebbero far credere. Riconosce ciò uno dei suoi innumerevoli studiosi e biografi, Giordano Bruno Guerri, non di rado critico, ed aspramente critico, nei suoi confronti. Seguiamo, dunque, questo Autore nel giudizio sulla opzione sindacalista del suo biografato: «Tuttavia Suckert era davvero molto interessato ai problemi sindacali, nonché convinto che quella fosse la chiave per affrontare e risolvere tutti i problemi sociali. Non mentiva scrivendo di vedere il fascismo come "sindacalismo politico" e quindi di interessarsene non in quanto fenomeno politico ma soprattutto sindacale. Seguiva insomma le tracce del sindacalismo rivoluzionario dei primi anni del secolo, partendo da Sorel, Orano, Corradini e arrivando a De Ambris. Né può stupire che, con questo tragitto, sia arrivato al corporativismo fascista (...) Per di più bisogna considerare che Suckert era nato e cresciuto nella città dove, proporzionalmente, c'erano più operai di qualsiasi altra in Italia, che aveva vissuto nella famiglia operaia dei Baldi e che ai problemi sindacali era sempre stato vicino, sia perché il padre se ne interessava, sia per la sua precoce attività politica. Comunque fin qui basta rilevare che il fascista Suckert, per le sue posizioni sindacali tutt'altro che di restaurazione dell'ordine borghese, era all'estrema sinistra del movimento».

 

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Ma torniamo al rapporto di simpatia umana e intellettuale fra Gobetti e Malaparte. Del quale una delle punte massime è costituita dal fatto che nel 1925 il sodale di Antonio Gramsci -di cui cura la rubrica di critica teatrale nel periodico "L'Ordine Nuovo"- diventa l'editore del teorico riconosciuto del fascismo intransigente. Infatti fa gemere i torchi delle "Edizioni di Rivoluzione Liberale" per dare alla luce "Italia Barbara", ossia una silloge di saggi e articoli apparsi sulle più svariate pubblicazioni dell'area culturale fascista e, soprattutto, nelle pagine de "La conquista dello Stato". Tutti contributi atti a recuperare e a rivisitare tematiche relative a idee care alla elaborazione malapartiana quali la Controriforma, l'antimodernismo, la contestazione politico-letteraria agli andazzi culturali dell'epoca. Onde attutire l'impatto forte e, in certo senso, sconvolgente, di questa iniziativa, per così dire, sopra le righe, il giovane liberale di estrema sinistra colloca una stringatissima antilla nella pagina di avvio dei testi che così suona: «Presento al mio pubblico il libro di un nemico. Coi nemici si vuole essere generosi: qui poi Curzio Suckert ci aiuta a combatterlo. Mi piace essere settario-intransigente, non settario-filisteo. Ho giurato di non rinunciare mai a capire né di essere curioso. Curzio Suckert dunque è la più forte penna del fascismo: io non gli farò l'oltraggio di confutarlo. Confutare immagini, opporre politica a variopinta fantasia e a stile pittoresco non è di mio gusto. Il mio antifascismo non combatte mulini a vento. Gli spiriti bizzarri amo lasciar sbizzarrire e anche della loro faziosa toscana letteratura, quando è letteratura, applaudirli». Tutto ciò alla faccia di coloro che, pur distanti trilioni di anni luce dalla fama dal genio dalla statura morale dalla caratura intellettuale del Gobetti -e, magari, professandosi azionisti e gobettiani di stretta osservanza- ritengono di fare i Premi Nobel (o Snobel) dell'antifascismo proclamando lippis et tonsoribus che mai e poi mai si abbasserebbero a rivolgere la parola o il saluto a un fascista o a chi si azzardasse a rompere la consegna dell'ossequio a un antifascismo inteso come pensiero unico, ossia a quanto di più antidemocratico, di illiberale, di reazionario sia dato immaginare. Ma proviamo ad analizzare il contenuto, vuoi quello palese vuoi quello in certo senso recondito, di questo branerello stilisticamente perfetto del leader di un liberalismo culturalmente più estremo, più dislocato a sinistra. Gobetti definisce "Italia barbara" il «libro di un nemico». Ma veramente colui che dedicò i suoi più impegnativi versi al Duce del Fascismo iniziandoli con un «Spunta il sole / canta il gallo / o Mussolini / monta a cavallo», era per lui un nemico? Lasciamo ancora la parola a Giordano Bruno Guerri, il quale in proposito così si esprime: «Quanto all'amicizia tra Gobetti e Malaparte -ché di vera amicizia si trattò- si basava su di una simpatia tutta intellettuale. Malaparte certamente aveva per lui una grande ammirazione, come l'ebbe sempre per coloro, amici o avversari, cui riconosceva una coerenza morale e un rigore intellettuale che egli sapeva benissimo di non possedere. (La nostra opinione in notevole misura diverge -ne abbiamo già fatto cenno- da quella del Guerri, il quale, come tanti altri, evita di penetrare il senso della poliforme ideologia malapartiana osservandola, come usa dire, «in filigrana».) Occorreva del coraggio per un fascista della corrente intransigente, e di primissima schiera quale era il Malaparte, per definire su "La conquista dello Stato" il Gobetti "amico nostro ab urbe condita (e di questa amicizia non dobbiamo rendere conto a nessun prefetto del regno)"». Ovvero per garbatamente scherzare con il suo interlocutore subalpino ricordandogli, sempre su "La Conquista", che «non sempre le rivoluzioni liberali riescono col buco». Prosegue così il Guerri: «Gobetti da parte sua amava la verve, la scrittura, lo stile di Malaparte: politicamente, poi, tendeva a giustificarlo, considerando che l'amico-avversario, per la sua formazione, era logicamente collocato nella "rivoluzione borghese" attuata dal fascismo: in più rilevava, con affettuosa ironia, che in politica Malaparte non poteva che rivelare la sua "venerazione al meraviglioso"». E sempre secondo il Gobetti, informa ancora il Biografo, «i suoi antenati putativi sono i guelfi e i ghibellini; fazioso di Calimala egli sospira l'eroico e l'avventuroso, le gesta che poi si possono cantare». Sembra, ed è, tanto! Par di sognare: un fascista famoso esplicante la militanza littoria nei ranghi della frazione farinacciana, in relazioni amicali e -in certo qual modo ancorché non pienamente confessate- dialogiche con uno dei massimi punti di riferimento dell'antifascismo più intrattabile e deciso. È tanto, si diceva testè, ma non è tutto. Perché la firma di Curzio, gira e rigira, finisce per andare a fare le sue scorribande sulle colonne de "La Rivoluzione Liberale" di Piero, pur se quest'ultimo non ristà dal rintuzzare con la sua penna-peperino l'armamentario argomentativo del carissimo nemico.

 

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I due bardi rispettivamente del fascismo e dell'antifascismo non avevano innervato i loro rapporti assolutamente sul piano della simpatia umana e intellettuale, del piacere per lo scontro ideologico, del gusto per la estrema peculiarità di relazioni che obbedivano soltanto alla sentitissima esigenza dell'elevato livello qualitativo del conflitto culturale. No; pur nella mai smentita radicalità della contrapposizione non latitavano affatto aspetti notevoli di convergenza e addirittura di identificazione. Ci dà di ciò contezza ancora il Guerri con le seguenti affermazioni: «I due avevano qualche punto d'accordo anche nelle rispettive e originali interpretazioni della rivoluzione russa e del Risorgimento. Se nella rivoluzione d'ottobre entrambi vedono un "passo di avvicinamento" verso le rispettive ideologie, il liberalismo e il fascismo, entrambi sono concordi nella critica al liberalismo del Risorgimento, anche se la critica di Gobetti è contingente e quella di Malaparte tout court antiliberale. Nel '3I, proprio a Torino, pubblicherà un opuscolo ("I custodi del disordine") per dimostrare che i liberali della Destra e della Sinistra storica erano i traditori del Risorgimento».

 

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Ovviamente, da questi brandelli di analisi -brandelli, va da sé, nello stringatissimo resoconto guerriano- si traggono conclusioni diverse. Ma poi veramente tanto diverse? Vediamo: «Di conseguenza, se per Gobetti il trionfo del fascismo rappresentava il culmine del fallimento della vecchia classe liberale, per Malaparte esso non era altro che il proseguimento della rivoluzione risorgimentale stroncata dalla classe dirigente liberale». Ecco il punto: li univa l'avversione al vecchio mondo fondato sul liberalismo castale, notabilista, democratico senza popolo, ristretto, privo di orizzonti e, pertanto, mediocre. Poi si dividevano in ordine alle prospettive. Una divisione, peraltro, che ne abbiamo già accennato -non arrivò mai alle estreme conseguenze «personali», perché la reciproca stima funzionava da collante alla perfezione. Come si evince da queste parole del Torinese: «Piaccia o dispiaccia ad alcuni, è un fatto che Malaparte è considerato all'estero come il più notevole e il più originale scrittore del tempo di Mussolini».

È singolare, peraltro, come il Gobetti, pur legatissimo a Gramsci, non ne abbia tenuto in alcun conto il giudizio completamente negativo su Malaparte, inequivocamente esposto nei "Quaderni del carcere". Eccone un assaggio: «Il carattere prevalente del Suckert è uno sfrenato arrivismo, una smisurata vanità, uno snobismo camaleontico: per aver successo il Suckert era capace di ogni scelleraggine». Una mazzata durissima, come ognun vede, messa nero su bianco nel '34 e tuttavia non fatta propria da Togliatti, secondo informa il senatore Maurizio Valenzi, ex sindaco comunista di Napoli, che nel riferire al Guerri circa un incontro dell'aprile '44 del leader comunista accompagnato da Eugenio Reale e dallo stesso Valenzi con l'«Arcitaliano» nella sua villa di Capri, gli consegna le seguenti frasi: «Togliatti stava in silenzio ad ascoltare, facendo solo qualche domanda ogni tanto, mentre Malaparte parlava ininterrottamente, con un atteggiamento da primo attore (...) Togliatti rimase colpito ma non incantato dal personaggio, comunque non si pronunciò. Ma certamente non condivideva i giudizi di Gramsci.» A sua volta il biografo del Pratese conclude: «Togliatti in seguito dimostrerà più volte di averlo preso in simpatia».

 

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Il «Cacciatore» è un delizioso homme de plume che nella prima metà degli Anni Ottanta scriveva di storia, e di storie, sulla terza pagina de "Il Secolo d'Italia", quotidiano missino diretto dal compianto on. Nino Tripodi, personalità della politica e della cultura dall'eccezionale pedigree intellettuale, dal sottoscritto stimato a onta dei trilioni di anni luce che dividevano le idee nostre dalle Sue. Non abbiamo la più pallida idea di chi si celasse dietro quel nome di battaglia, che scriveva di tante cose e scrisse pure del rapporto fra Piero e Curzio nella sua rubrica stranamente nomata "L'usta del solengo". Dalla sua prosa «venatoria» -trattasi di un pezzo intitolato "Malaparte, Gobetti e la rivoluzione"- ci affrettiamo ad estrapolare un paio di guizzi minibiografici dei due carissimi nemici. Del primo dice: «Gobetti è piemontese; è cresciuto in una famiglia seria e laboriosa, con un ben radicato culto per le virtù borghesi della disciplina, del risparmio, del decoro; non è un ex guerriero pluridecorato come il Suckert; ma le sue battaglie culturali ha già cominciato a farle, fondando, matricola diciassettenne alla Facoltà di Giurisprudenza, "Energie Nuove", una rivistina fiera e pugnace, guardata con simpatia da Prezzolini e da Salvemini, da Croce e da Gentile». Sul secondo così si esprime: «Malaparte ha un ingegno non comune e l'ha allevato, con uno studio matto e disperatissimo, tra un assalto e l'altro. E cova in sé una grande passione politica: è stato tra i primi a iscriversi al fascio, animato da una confusa volontà di far mutare all'Italia pelle e anima. A questo impegno si consacra con convinzione ma anche con irriverenza. Ricordiamoci ancora che è toscano e pratese (non omnibus datur...): nessuno quindi gli venga sul muso a chiedergli di tenere a bada l'irruenza, l'ironia, il piacere della beffa e delle cavalcate nei paradossi: a cominciare dal primo, quello di far convivere estetismo dannunziano e fragranze strapaesane. Malaparte c'è già tutto: avventuriero e viveur, bestemmiatore e pittore di madonne senesi, barbaro raffinatissimo e intellettuale geniale, di spericolate ambizioni e destinato ad ambigui approdi».

Diciamo la verità: qui uno sta a levante e l'altro a ponente. Per così esprimerci. Cosa può mai averli uniti -e sia pure in una unità accesamente dialettica-, oltre quanto siamo venuti fin qui asseverando e, speriamolo, dimostrando? Una tesi l'abbiamo: il mastice spirituale e ideologico di una idea popolare-nazionale, da ambedue intensamente benché in modo profondamente diverso intuita e vissuta. Ora sì che potremmo diffonderci esaustivamente sullo speculare ad hoc di «quei due». Ma il discorso ci porterebbe troppo lontano, tracimando, tra l'altro, i limiti di un saggio breve sì ma già fin troppo esteso per una rivista. Limitiamoci, allora, a riprodurre parole del misterioso «Cacciatore» tutte bene appastate con dense pulsioni e passioni popolari-nazionali. Su Gobetti: «Di questi fervorosi umori Gobetti si è riempito cuore e mente; e adesso si propone, forte di un così autorevole magistero (quello dei quattro maitre à penser elencati dall'articolista de "Il Secolo d'Italia"  N.d.R.) e di tante sincere espressioni di benevolenza, di lottare perché l'Italia non sia più quella dei compromessi giolittiani, del trasformismo e della retorica; ma quella, armata di una mentalità moderna, laica, europea che guardi al Risorgimento ma lo poti di tutti i rami rinsecchiti e di tutte le escrescenze oleografiche, affinché la linfa scorra più libera e feconda, lo spirito critico nutra l'intransigenza riformatrice, nuove classi politiche preparino il futuro. In questo cammino verso la modernità il popolo non dovrà essere assente: la nuova classe dirigente sarà nazionale se coniugherà il sano attivismo della borghesia progressista con la richiesta di partecipazione delle avanguardie operaie. E le aristocrazie culturali protestanti faranno da mediatrici con la massima apertura di spirito, senza paternalismi».

Su Malaparte: «Anche Malaparte è attento al popolo. Con i suoi fanti ha avuto, in trincea, un rapporto di vicinanza carnale. Li ha sentiti palpitare, li ha visti crepare nel fango, sa -e non retoricamente- che cos'è quella vita fragile e intensa di foglie trepide che in un attimo possono essere inghiottite dalla fiamma, sa che cosa sono l'amore, lo sconforto, la rabbia, la passione, la disperazione. Sa che di queste cose può crescere la patria, quando sembra morirne (…) Il popolo di Malaparte è questo. Ha una faccia diversa da quello di Gobetti. È il popolo dell'Antiriforma. È il popolo che ha sofferto e dopo essere stato spesso carne da macello in guerra reclama ora un ruolo attivamente politico. È stata la Nazione delle armi, vuole essere la Nazione delle leggi. Per Malaparte è un popolo in camicia nera. Antimoderno, antieuropeo, controriformista (...) Ed è contro lo spirito moderno che due rivoluzioni sono in marcia: quella fascista e quella bolscevica. Ad entrambe il protofascista Malaparte e il liberale rivoluzionario Gobetti guardano con attenzione, anche se con ben diverse valutazioni e intenzioni».

 

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Piero Gobetti collegato alla rivoluzione bolscevica di Lenin e di Trotzky in chiave liberal-rivoluzionaria tramite il suo rapporto sinergico e privilegiato con Antonio Gramsci. Karl Suckert -al secolo e a "Il Secolo d'Italia"- Curzio Malaparte in contatto con la URSS di Stalin e di Zdanov prima e di Krusciov e Malenkov poi attraverso gli incontri con Maurizio Valenzi, Giorgio Napolitano, Velio Spano e perfino Palmiro Togliatti. Con quest'ultimo perfino sul letto di morte. Peculiarissimo che un liberale -e sia pure di estrema sinistra- fraternizzi, solidarizzi, collabori con un celeberrimo leader comunista rappresentante in Italia della Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e della sua Rivoluzione. Ma ciò che più colpisce è il caso dell'«Arcitaliano», ossia di una testa d'uovo che non è in grado di vantare un passato antifascista. Anzi! E che resta un popolare-nazionale -dunque impermeabile alla teoria dell'URSS stato-guida e del PCUS partito-guida- anche quando è in relazione di amorosi sensi con il partito che a questa indicazione ancora resta fedele. Ponza e riponza, un dubbio ci balena nella mente. Cioè che gli intellettuali fascisti un magone per il «bolscevismo», e sia pure in interiore homine, ce lo abbiano sempre avuto. Qualche probante esempio colto fuori dei patrii confini? Eccolo: Robert Brasillach -il poeta e scrittore francese condannato a morte per collaborazionismo, nonostante le firme per la grazia poste in calce ad una petizione ad hoc da vari intellettuali di grido anche di sinistra su iniziativa di Francois Mauriac e indirizzata a De Gaulle- nel redigere in una cella del carcere parigino di Fresnes una commossa e commovente "Lettera a un soldato della classe 1960", non si peritava di affermare che un giorno la rivoluzione fascista e quella comunista fatalmente si sarebbero incontrate. A sua volta Pierre Drieu La Rochelle dichiarava, alla vigilia del suicidio, di confidare ormai per la sua rivoluzione europea, nella Unione Sovietica e nel Partito Comunista Francese. Tutte illusioni, certo -fermo restando che nell'imminente XX secolo e relativo Terzo Millennio tutto è possibile-, ma generosissime. Sulle quali ci guarderemmo bene dall'ironizzare.

 

Enrico Landolfi

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