«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VIII - n° 1 - 15 Maggio 1999

 

Un sistema da rottamare

 

 

 

Di questi tempi di bassa stagione, dove tutto è a servizio dell'economia, e tutto è in vendita (a prezzi super scontati), il solo tema capace di tener alto il dibattito politico sembra essere «le riforme».

L'argomento, come si sa, non è nuovo per il nostro Paese; e basterebbero a ricordarcelo Alfredo Oriani e Scipio Sieghele, Robert Michels e Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini e Giuseppe Maranini.

Questi alcuni fra i nomi degli illustri studiosi che, dall'Unità ad oggi, si sono prodigati per denunciare vizi, contraddizioni, iniquità delle istituzioni politiche vigenti al tempo loro in Italia.

Se volessimo poi allargare la visuale oltre i patrii confini, ed orientarci nel vasto ed accidentato campo della democrazia, avremmo modo di trovare una lunga, lunghissima serie di testimonianze affatto sfavorevoli al «governo del popolo attraverso il popolo», autorevolmente rese lungo il corso dei secoli anche da non pochi... insospettabili, quali potrebbero risultare Aristotele, S. Tommaso d'Aquino, Voltaire, de Tocqueville, Pio IX, tanto per citare alla rinfusa, ma con una certa cognizione di causa.

Ma per tornare e limitarci al «caso italiano», e al filo rosso che lega diacronicamente i sostenitori delle varie e celebrate riforme, ecco oggi emergere un dato sociale comune quanto evidente: il diffondersi della noia per la politica. Unita al disprezzo per i suoi esercenti, praticanti e rappresentanti. Ed il fenomeno mostra di dilagare in ogni strato e livello, dopo l'abortita nascita della 2ª Repubblica.

La qualcosa (incidentalmente detto da chi si ostina a ritenere la politica una delle più nobili attività dell'uomo) non può non destare -assieme al dovuto disgusto di cui sopra- un senso di amarezza e frustrazione. Proprio perchè un simile atteggiamento di rifiuto, così come viene «popolarmente inteso e praticato, finisce col coinvolgere ogni potenziale e sperabile iniziativa in grado di rendersi teoricamente autonoma dall'establishment uno-e-trino del centro-sinistra-destra...

Tra misteri e paradossi, dunque, che si dipanano lungo l'asse di una continuità storica di fondo, la perenne crisi del sistema politico nazionale ora presenta un ultimo aspetto patologico: la proliferazione di simboli e sigle, di sempre (più o meno) nuove proposte e personaggi, anch'essi più o meno nuovi, ma sempre disponibili. A tutto.

Ciò che non quadra è che, alla grande liberalità dell'offerta, non corrisponde analoga generosità della domanda. Più anzi cresce il numero e tipo di prodotti (ultime novità: l'UDR, il PDCI, il Movimento Nord-Est, le Centocittà, l'Italia dei Valori, la Liga Veneta Repubblica, il Fronte Nazionale, ... e qualcun'altra sicuramente sfuggitami), più scema l'interesse dei possibili acquirenti. Sembra insomma d'essere nel mezzo di un mercato, in cui viene esposto ogni genere di mercanzia, la cui ricchezza peraltro, invece di attrarre clientela, la allontana. (Clientela in senso lato e figurato -chiarisco- chè le clientele in senso proprio stanno, eccome, aumentando grazie all'allargamento dell'arco costituzionale!)

Aprendo un'ulteriore breve parentesi, osservo come il partito-clientela, il partito ormai lontano da ogni riferimento ideologico e motivazione ideale, non sia caratteristica soltanto dell'attuale sistema italiano. In tutte le democrazie parlamentari, infatti, la politica sta rapidamente trasformandosi in comitato d'affari, al cui interno ciascun partito concorre per sistemare i propri fiduciari nei posti di comando. Solo che il «caso italiano» pare configurarsi, nel raffronto tra regimi partitocratici in atto, come il più triviale e degenerato.

Come uscirne?

Come dar seguito alla domanda, alla domanda degli elettori-consumatori nazionali?

C'è chi la risposta l'ha bell'e pronta: uninominale puro + maggioritario secco = bipolarismo vero. Sicchè con una formula unica sparirebbero d'incanto partiti e partitini i quali, così rissosi ed improduttivi, disincentivano la civica partecipazione, disperdono la volontà popolare, ostacolano la governabilità e bla, bla, bla.

I sostenitori della soluzione all'americana non sembrano però tener conto che quella tutto sarebbe fuorchè una soluzione, almeno sotto il profilo della partecipazione civico-popolare. Che continuerebbe vieppiù a scarseggiare.

Notorio è infatti quel che succede da quelle parti, in cui l'alternativa si presenta sotto forma di un oligopolio tra due partiti all'occasione contrapposti, e nominalmente distinti in «repubblicani» e «democratici»: là, la percentuale dei cittadini maggiorenni che si prende la briga di tanto in tanto di fare la propria scelta elettorale è, di regola, inferiore al 50%. Quando ciò avvenga, però, non potrà più parlarsi neppure formalmente di «democrazia», perchè viene ad essa a mancare l'elemento primario e costituito, il demos, appunto.

In altre parole, gli USA sono una democrazia talmente avanzata, da non aver più bisogno di ricorrere agli obsoleti meccanismi di (presunta) legittimazione «dal basso».

L'avvicinamento a tappe forzate alla crazia di marca statunitense ebbe qui da noi principio il 9 giugno del 1991, data nella quale si tenne la prima prova generale della lunga marcia verso le Riforme. (Per gli smemorati o distratti, stiamo parlando del cosiddetto referendum Segni sulla preferenza unica).

Ricordate la ragione ufficiale di quella «prova», che così largo seguito doveva riscuotere, sette anni orsono, fra l'italico corpo elettorale? È presto detta. La salvaguardia della segretezza, trasparenza e correttezza delle operazioni di voto.

Alle spicce: per combattere referendariamente i brogli elettorali e le infiltrazioni partitico-mafiose, fu da allora necessario spogliare il libero cittadino Rossi della facoltà, a lungo accordatagli, d'esprimersi sovranamente su più d'un candidato di una stessa lista.

Tutto qui? Non proprio. L'operazione Segni, difatti, non intendeva solo mettere in crisi un collaudato sistema di «apparentamenti» e «cordate» con la regìa dei partiti d'antan, bensì perseguire la formazione di una nuova rappresentanza politica, emanazione ancor più diretta delle gerarchie economico-finanziarie.

E forse il maggior risultato ottenuto da quella vittoria referendaria è che ora -a distanza di sette anni- viene accolta senza alcun sospetto o preoccupazione la dichiarata convergenza d'interessi fra grande riforma e grande capitale...

Ora ci riprovano, dunque.

Ora il duo Segni-Di Pietro può orgogliosamente proclamare -forte del mezzo milione di firme raccolte fra i Romiti e i cassintegrati, fra i Pirelli e i pensionati sociali- di essere interprete della volontà popolare per le riforme.

Ora «Lorsignori» (con plaudente corteo di «poveracci») intendono finalmente modernizzare il Sistema attraverso una revisione e ridimensionamento di ruoli, obbligando («per il bene comune») i partiti a ridurre il tasso di litigiosità ideologica, per accorparsi fra loro e quindi rapportarsi a 2 x 2.

Tale presunta modernizzazione -obietto- se lascia impregiudicata la procedura di selezione del personale politico (che avverrebbe comunque, come già in gran parte avviene, con un rigoroso esame dei titoli, delle attitudini e benemerenze «di partito» e «di mercato», ... ), agisce in modo da precostituire due schieramenti espressivi non già di una destra e di una sinistra, bensì di un unico «grande centro», bipartito in una corrente conservatrice ed in una progressista... ma di ciò si è troppe volte scritto qui su "Tabularasa", per non rischiare d'inficiare il repetita juvant.

Certo è che la risposta degli anti-proporzionalisti alla lamentata e lamentevole frammentazione partitica appare ben più drastica di quella tentata con la legge-truffa del '53. Quella legge, infatti, avrebbe consentito alla DC ed ai suoi mini-alleati di accaparrarsi solamente i 2/3 dei seggi, qualora avessero raggiunto quel 7 giugno 1953 la metà-più-uno dei suffragi! (Ed anche allora le ragioni invocate dai sostenitori di quella riforma furono la governabilità, il rafforzamento della democrazia ...)

Orbene, il tentativo di truffa messo in piedi da Segni & Di Pietro risulta ancor più losco e... antidemocratico di quello fallito (per 50 mila voti!) quasi mezzo secolo fa. Non solo a motivo della soppressione fisica degli avversari non imparentabili, ma anche e soprattutto in virtù di un principio logico, che è il seguente. La soluzione finale prospettata, di ridurre a due, e solo due, le fazioni in gara per spartirsi il bottino elettorale, sarà senza dubbio più «funzionale» (a chi, l'abbiamo già detto): ma contrasta con una delle massime delle Tavole democratiche, che recitano che laddove maggiori sono le possibilità di scelta, maggiore è la libertà. E ciò non dovrebbe valere per il cittadino elettore e sovrano?!

Del resto, non è francamente pensabile che costui possa davvero prender coscienza che, a sua insaputa, ma col suo consenso, si stanno costruendo scenari dai quali egli verrà sempre più escluso...

A fronte, dunque, della quasi plebiscitaria convergenza sulla necessità salvifica delle «riforme», una cosa mi preme sottolineare: tutte le diagnosi sono ipoteticamente efficaci a condizione che si sia in grado poi di adottare le terapie idonee. Presentare invece, come fanno la gran parte dei politologi autorizzati, le riforme giuridico-elettorali e gli aggiustamenti tecnico-ingegneristici come «risolutori», significa riferirsi agli effetti tralasciando le cause.

Nè, obiettivamente, una qualsiasi volontà terapeutica potrà pretendersi da portavoce e funzionari del liberal-capitalismo: ci troviamo dinanzi all'ennesimo specchietto per le allodole o, nel più benevolo dei casi, al classico pianto del coccodrillo. Difatti costoro, se da un lato vogliono offrirci la prova della loro grande democraticità (nel denunciare essi stessi la crisi del sistema), dall'altro vogliono farci intendere che difetti, storture, scompensi ecc. (oramai forse troppo evidenti...) non siano da imputare ai sacri e inviolabili dogmi democratici -di cui essi sono sacerdoti, custodi, tutori e tenutari- ma piuttosto alle deviazioni da questi!

Per concludere, sino a quando non si avrà la forza d'affrontare il grande tabù dei nostri tempi, la democrazia, il morbo partitocratico continuerà a diffondersi, in forme magari diverse ma sempre, e sempre più, virulente, dato che -come scrive Gaetano Mosca in "Sulla teoria dei governi e sul governo parlamentare", Torino, 1884- «nel risalire all'origine dei mali delle istituzioni odierne le crediamo inerenti al loro sistema e non evitabili che con una nuova organizzazione politica».

È quanto tentò, qualche decennio più tardi, di fare il fascismo.

Ma una volta chiusa quella parentesi (o no?), un secolo e più sembra trascorso invano, se oggi ci ritroviamo a parlare di riforme e i riformisti si chiamano Mariotto, Tonino, Martino, Occhetto...

Non fa un po' (ma solo un po') ridere?

 

Alberto Ostidich

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